West Side story al Teatro Carlo Felice di Genova (sessantanni e non sentirli ): caldo successo dell’inaugurazione della stagione 2017-18.
Inaugurazione davvero entusiasmante quella della stagione lirica 2017-18 della Fondazione Carlo Felice di Genova! Scoppiettante sia per il meraviglioso spettacolo di fuochi d’artificio che ha preceduto la prima del 19 ottobre, con il palazzo della Regione trasformato in rampa di lancio per le invenzioni pirotecniche eseguite anche a ritmo con la musica di West Side story “Puertorico”, sia per gli esiti della rappresentazione. Anni fa ci sarebbero state discussioni sull’opportunità di debuttare una stagione lirica con un musical: erano i tempi dello snobismo della critica, che vedeva nel musical un genere lontano dalla tradizione italiana (mentre invece il paragone con l’italianissima operetta poteva assicurare il legame con il passato), una sorta di colonizzazione anglofona, un genere contaminato con forme musicali popolari, alla ricerca della melodia semplice, d’effetto, un’esaltazione insomma della genialità melodica a scapito dell’impianto armonico. Erano i tempi tra gli anni ‘70 e ‘90 nei quali il linguaggio operistico contemporaneo aveva perso proprio questa capacità melodica, a causa di una critica ideologizzata pronta a bollare come “facile” qualunque opera che non rispettasse i canoni di inintelligibilità e complessità della struttura musicale. Era importante che il pubblico, non comprendendo il linguaggio stesso della musica, si sentisse inferiore e percepisse come una fatica andare a teatro. E il pubblico si disamorò rifugiandosi nella musica del passato, al massimo degli anni trenta.
Proporre un musical in un teatro d’opera sarebbe stato considerato un sacrilegio, eppure il muro dell’ostilità si ruppe, grazie soprattutto al teatro più legato all’operetta, Il Verdi di Trieste, e al Festival ravennate; dagli anni novanta in poi il musical ha fatto il suo ingresso abbastanza regolarmente nei teatri d’opera italiani. C’è ovviamente musical e musical; ci sono anche qui i grandi autori e coloro che arrancano per ottenere prodotti decorosi. Si sono cimentati nel genere anche cantanti di musica leggera, a volte con buoni risultati di pubblico come Cocciante e il suo “Notre-Dame de Paris”, altre volte meno come la “Tosca” di Dalla o l’”Aida” di Elton John, ma soprattutto c’è stata una forte contaminazione tra il mondo del musical originale e quello dell’opera per cui musical come “The Phantom of the opera” di Webber, “Les miserables” o “Miss Saigon” di Schoemberg, hanno perso addirittura i recitativi parlati e sono diventati capolavori di un genere diverso, dove non si danza più, sono richieste buone voci e la musica scorre senza interruzione dall’inizio alla fine.
Il capolavoro di Bernstein (il cui nome è più di una garanzia di qualità ed è ormai abituale nei teatri d’opera non solo per “West side story”, ma anche per Candide”) appartiene al genere originale di musical in cui si danza molto: richiede quindi ballerini-cantanti-attori in grado di gestire tutte e tre le attività in modo valido. Impresa non semplice, ma risolta bene dall’allestimento genovese. Si sono così festeggiati adeguatamente i sessant’anni di questo capolavoro, età gloriosa per un musical, alcuni dei quali restano in cartellone per pochi anni (vedi il pur interessante “Martin Guère” di Schoemberg). “West side story” è una rilettura di “Romeo e Giulietta” ambientata nell’Upper West Side di New York ed è attualissimo per le tematiche dell’immigrazione trattate con crudo realismo e anche per la musica stessa di Bernstein, ormai entrata nel patrimonio culturale mondiale per cui alcune “hits” come “Maria”, “Tonight”, “Somewhere” sono state anche inserite in molte compilation di cantanti di musica leggera e sono notissime al grande pubblico.
Sappiamo come la storia del musical in Italia sia purtroppo tuttora condizionata da un sistema teatrale inadeguato e da un’abitudine del pubblico consolidata a fruire degli spettacoli quasi solo se eseguiti nella propria città. Negli altri paesi, particolarmente quelli anglofoni, un musical debutta in un teatro e ci resta, se ha successo, per molti anni. Il teatro viene riadattato in funzione di quello spettacolo, trasformato, e il pubblico si sposta per andare a vederlo. Impensabile in Italia, dove capita che il pubblico non si sposti neppure nella città vicina per vedere un’opera e dove quindi il musical è forzato a essere itinerante, a rinunciare ad allestimenti importanti e più invasivi e a essere più costoso.
“West Side Story” nell’edizione del Carlo Felice nasce da una collaborazione importante con la World Entertainment Company, che garantisce la circuitazione dello spettacolo e quindi il contenimento dei costi, può contare su una compagnia affidabile e soprattutto sull’orchestra e coro del teatro, la cui professionalità è fuori discussione: infatti ci hanno regalato momenti di vera ebbrezza musicale, guidati dalla bacchetta espertissima di Wayne Marshall, pianista e direttore uso alla frequentazione delle composizioni di Bernstein. La sua lettura è validissima, frizzante quando deve essere, violenta quando richiesto, mai scontata, mai monotona e molto moderna: valorizza al massimo la bellezza delle melodie e soprattutto la ricchezza delle variazioni sul materiale musicale magistralmente scritte dal compositore. Il coro rinforza in modo eccellente le voci dei cantanti nei momenti d’assieme, rimanendo nella fossa orchestrale.
Eseguita saggiamente con i recitati in italiano e la parti musicali in inglese, “West side story” centra l’obiettivo di catturare l’attenzione del pubblico, divertire,
affascinare, commuovere. A dire il vero non avrei sentito il bisogno di inserire tutto quel turpiloquio che l’ottimo adattamento italiano del libretto ad opera di Franco Travaglio ci ha proposto, ma comprendo che possa dare un’ulteriore impronta di modernità, in un’epoca che ne ha fatto, ahimé, la sua bandiera. Non penso che Bernstein avrebbe gradito: l’eleganza delle liriche di Stephen Sondheim, sommo compositore di altri capolavori, come “A Little Night Music”, “Sweeney Todd” ed “Into the Woods”, stride un poco con queste volgarità, giustificate tuttavia dal contesto drammaturgico.
Venendo al cast, costituito da giovanissimi ma già esperti artisti, sono molto più le rose che le spine e l’esecuzione è da considerarsi valida a tutti gli effetti. Danzano, cantano e recitano e non è ovviamente possibile domandare la perfezione in ogni cosa. Per l’aspetto coreografico, i fisici giovani e scattanti permettono una buona resa anche di quegli elementi non proprio nati per ballare, complice una coreografia efficacissima di Fabrizio Angelini molto fedele all’originale di Jerome Robbins. Un plauso particolare all’esecuzione di “Puertorico”, nella quale le artiste impegnate danzano in modo scatenato e cantano senza il minimo problema di fiato.
Dal punto di vista vocale si è assistito soprattutto alla superba prestazione di Simona Di Stefano (Anita), vocalmente impeccabile anche in punti delicatissimi della partitura, immediatamente dopo movimenti coreografici importanti. Timbro caldo, pastoso, intonazione perfetta, attorialità coinvolgente.
Veronica Appeddu disegna una deliziosa Maria ragazzina, che ricorda molto l’interpretazione di Natalie Wood del 1961, ma la supera nella mirabile scena finale del pianto sul cadavere di Tony. Anche se gestita con tempi un poco larghi, la scena risulta commovente e straziante per l’intensità attoriale della Appeddu, perfetta nella sua scena madre. Peccato che vocalmente non abbia adeguatamente retto il confronto con la parte cantata di Maria, mettendosi a rischio nella zona acuta della tessitura, non appoggiando adeguatamente, stringendo la gola con il risultato a volte di suoni stimbrati, di intonazione periclitante (specialmente nel duetto “del matrimonio”) e molto fissi. Bene invece nella zona centrale e nel recitato, come detto.
Luca Giacomelli Ferrarini ci regala un Tony molto efficace nel cantato, con una “Maria” cantata con ricchezza di timbro e ottime inflessioni emozionali. La zona acuta è sicura, ma occorre che la mantenga in appoggio sul fiato e non stimbri eccessivamente i pianissimi, come fa improvvidamente sul finale della citata aria. Ottimo attorialmente, tiene una corda di emissione abbastanza alta nel parlato, risultando forse un po’ troppo ragazzino. La scelta non sarà sua, ma mi è sembrata un po’ ridicola la storpiatura voluta del nome Maria secondo la pronuncia americana, con una erre inascoltabile.
Giuseppe Verzicco ha una statuarietà ideale per un Riff grande protagonista, alto, biondo, si muove e danza bene. Peccato che la voce sia invece non abbastanza gradevole: è infatti un po’ schiacciata e caricaturale, come voluto da Bernstein e Robbins per altro attore, ma che mal si sposa con la sua fisicità imponente.
Salvatore Maio è un ottimo Bernardo, senza sbavature. Lo spazio non mi consente ovviamente di citare tutti e 27 i protagonisti.
La scenografia di Hella Mombrini e Silvia Silvestri è quella della WEC ormai diventata classica per questo musical. Scale carrellate che sono spostate a vista dagli stessi protagonisti e pochi elementi esterni per riprodurre il bar di Doc, la sala della festa, il negozio della modista, la camera da letto di Maria ecc.: pochi elementi essenziali ma efficaci (se fossero fissate un po’ meglio le pareti).
Il regista Federico Bellone, esperto nei musical, ripulisce molte tradizioni di “West side story” e torna ad una versione molto vicina all’originale; in parte fa bene. Se, da un lato, mi piace che Tony non fermi il braccio di Riff intento a colpire Bernardo, esponendo così l’amico alla pugnalata fatale (era troppo rendere Tony responsabile di entrambe le morti come in molte versioni), dall’altro riportare la scena buffa dei Jets dei “malati mentali” subito dopo le morti dei due giovani stride molto, anche se è da partitura originale. Sarebbe stato molto meglio tener conto della tradizione di molte rappresentazioni nelle quali questa scena era dislocata saggiamente al primo atto. La recitazione ha un ritmo vertiginoso e in questo il regista è molto bravo. So quanto sia difficile non lasciare “buchi” nel susseguirsi degli interventi, ma, un po’ perché la drammaturgia spinge in tal senso, un po’ per l’entusiasmo dei giovani interpreti, si urla molto e si sa che un tono di voce costantemente alto nei microfoni provoca come conseguenza che non si intendano sempre le parole e che subentri un po’ di noia. Bene il rapporto tra i personaggi, costruito con attenzione al mondo giovanile delle gang di ogni tempo e paese, anche se non comprendo lo squilibrio nel numero dei personaggi tra le due bande (7 Jets + Tony contro 5 Sharks): bellissima la scena onirica di “Somewhere”, davvero molto poetica e ben costruita. Si è davvero vista la mano sapiente del regista.
I costumi di Chiara Donato potevano essere un po’ più variegati, specialmente per le ragazze portoriqueñe non protagoniste, abbigliate in modo un po’ troppo simile tra loro.
Si è registrato un grande successo di pubblico a riprova dell’ottimo lavoro che la Governance del teatro Carlo Felice e la sua ammirevole direzione artistica stanno da tempo conducendo.
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MARCELLO LIPPI
Autore e Critico Musicale per la Cultura di Young diretta da David Colantoni