Marcello Lippi , Baritono e direttore artistico del Teatro Verdi di Pisa, Questa estate ha scritto per Young un Diaro da Osaka, dove è stato per un mese per preparare a dirigere il trittico pucciniano –Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi-. Avendo il privilegio di conoscere il Maestro mi ero azzardato di chiedergli di regalarci alcune note , da pubblicare su Young, e di raccontarci con ciò le sue esperienze e le sue meditazioni in questo viaggio e in questo incontro con l’estremo oriente. Nella sua prima corrispondenza, il Diario N.1 scriveva Lippi “Cari amici di Young, innanzi tutto vi dico, che sono ad Osaka perché ho un contratto con il teatro dell’Opera Kansai Nikikai per la regia del “Trittico” di Puccini –Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi- che sarà messa in scena con tutti artisti giapponesi. Debutterà il 25 giugno prossimo. Mi sono occupato anche della scenografia , firmata dalla mia scenografa di fiducia Monica Bernardi e dei costumi. Una Meravigliosa esperienza quella di spiegare giorno per giorno la cultura italiana a 58 artisti giapponesi” . Al Diario n1, era seguito un Diario n2 e un Diario n3, attraverso cui Marcello Lippi ci aveva raccontato come aveva preparato gli artisti di un cultura come quella Giapponese ad entrare nei gesti, nei costumi italiani, per poter interpretare i personaggi del trittico e come da questi artisti avesse ricevuto a sua volta moltissimo.
i suoi Diari, per una serie di impegni, si erano fermati alla vigilia del debutto, ma come ci aveva promesso ecco l’ultima corrispondenza che racconta la conclusione di questa esperienza, e che da questa esperienza coglie l’occasione per delle riflessioni importanti sullo stato dell’arte della musica e della cultura anche rispetto alla vita sociale, e con cui chiudiamo, ringraziando Il maestro Marcello Lippi, il ciclo di questa corrispondenza dal Giappone di uno dei grandi protagonisti contemporanei dell’Opera Lirica. (D.C.)
DIARIO DA OSAKA n° 4
di Marcello Lippi
“Non ti dimenticherai mai di quest’esperienza perché hai donato tanto e tanto hai ricevuto”. Le parole del direttore d’orchestra del Trittico di Puccini sono state profetiche e le lacrime che sul palco non ho saputo trattenere durante gli applausi erano la testimonianza più evidente del compiersi di un miracolo.
Dopo un mese di lavoro durissimo per trasmettere il nostro modo di sentire e vivere il teatro, avevo assistito ad uno spettacolo che avrebbe potuto benissimo avere cantanti italiani anziché giapponesi. Solo in piccolissimi atteggiamenti del viso, a volte, avevo visto riemergere il teatro delle maschere giapponese in smorfie, subito frenate dall’artista, comunque ben comprese dal pubblico. L’operazione si è conclusa nel migliore dei modi con una grande “italianizzazione” di questo cast interamente giapponese. Due elementi di questo cast mi hanno seguito in Italia e domani cominceranno le prove del Trittico a Pisa, (un trittico un po’ particolare, senza il Tabarro e con Sancta Susanna di Hindemith) e quindi proseguirà il rapporto di scambio culturale, di reciproco arricchimento, di comunicazione di valori. Viene da pensare come assai raramente si comunichino dei valori nella nostra società, sembra più importante parlare senza dire nulla, per spezzare quel silenzio che fa tanta paura perché ci rivela nella nostra nudità.
La comunicazione è superficiale, non tocca il profondo, è limitata, serva, priva di slancio vitale, morta. Due persone che sono costrette a ricorrere ad un metalinguaggio perché non parlano la lingua l’una dell’altra, comprendono invece come le nostre parole siano a nostro piacimento superflue o porte di mondi meravigliosi per chi le sa usare nel loro valore simbolico ed allusivo, sebbene oggigiorno siano codificate da stupidità ormai sedimentata si racconta dando più importanza al raccontare che al raccontato. Un mondo di istrioni dimentichi cosa può insegnare al diverso?
Come può rispondere a quell’anelito di libertà che contraddistingue i giovani, di venti come di ottant’anni? Quella morte che la stupida festa di Halloween dice di voler esorcizzare, chi ci insegna più ad amarla come un compimento e non come una fine? L’entusiasmo del pubblico di Osaka non è certo diverso da quello dei pubblici che ho incontrato nei mesi successivi, nel mio furibondo girovagare come regista, come cantante, come direttore di teatro, ma laggiù si è verificato un miracolo scaturito da un vero, sincero guardarsi in faccia da parte di due civiltà così diverse da non capirsi, se non attraverso quel contatto profondo che dà il linguaggio della musica e del teatro. Le risate del pubblico alle gag di “Gianni Schicchi” si spiegano così: con l’emergere di una novità potente che ha coinvolto tutti, anche il pubblico.
Come potevo pensare che spettatori giapponesi potessero capire, per la pura forza del linguaggio musicale, il pensiero di una famiglia di parenti-serpenti del medioevo toscano? Come pensare che capissero la cleptomania di Betto o l’impudicizia di Marco che cerca il testamento sotto la gonna di Zita? Come il puro e disinteressato sentimento di Rinuccio e Lauretta, così italiano nel suo procedere? Oppure il dramma della gelosia di Tabarro o lo strazio di Suor Angelica? Il lavoro più grande credevo andasse fatto proprio sull’opera dedicata al mondo cattolicissimo del monastero: sapevo che avrei dovuto spiegare chi fosse Gesù Cristo e perché alcune donne scegliessero la clausura per pregarlo meglio, che avrei dovuto spiegare le forme del rito, il modo di camminare delle suore e delle novizie, i loro rapporti, il loro modo di pregare, ma la fatica più grande invece è stata quella su Tabarro: un popolo abituato a nascondere i propri sentimenti, a chiuderli dietro una maschera perché è ritenuto disonorevole mostrarli, come poteva capire le esigenze di un amplesso amoroso ed i morsi feroci della gelosia?
Quanto ho penato per convincere i protagonisti ad accettare la fisicità di un inevitabile contatto nei momenti dell’amore! Lo devo fare a volte anche in altri paesi, è vero, perché molti interpreti non riescono a “staccare” la propria persona dal personaggio e provano “vergogna di sé” nel gesto attoriale, quel blocco psicologico che cancella ogni impulso verso la naturalezza dell’agire, ma è stato l’impegno più grande di questo periodo felice ed è stato un cammino fatto insieme, perché io, italiano, non mi ero mai posto il problema di sviscerare ogni parola della mia stessa lingua in ogni aspetto del significato, al fine di poterla spiegare ad individualità che non erano a conoscenza del contesto culturale che queste parole aveva generato. Ecco allora che le parole per me hanno assunto una nuova luce, spazzando le limitazioni dell’ignoranza che le avevano svuotate del senso originale.
“Compassione” non era più provare un sentimento di pena per qualcuno, a volte di disgusto per la sua sfortuna, ma invece il con-patire, il soffrire insieme, il condividere liberamente e totalmente l’altrui sofferenza. Solo un esempio di tanti altri, come ancora la parola “sacrificio” che diventa più bella e potente se liberata dalla valenza negativa di dover fare qualcosa di spiacevole, pur finalizzato ad un bene che si ricerca, e ricollocata invece nella sua dimensione originale: sacrificio da sacrum facere, rendere sacro un gesto o un momento. Che meraviglioso significato! Dai miei artisti ho imparato tanto, tanto ho dato e tanto ho ricevuto. Il loro sforzo di conoscere ed imparare la nostra civiltà mi ha reso ancora più risoluto nel difenderla, contro una politica ignorante che non sa preservarla. Da loro ho imparato il rispetto verso la loro cultura, che conosco cosi’ poco. L’interesse genera interesse, l’apertura mentale spalanca i cuori, l’arte li fa crescere e li fortifica. Lottiamo perché si torni ad insegnarla con forza nelle nostre scuole ed a valorizzarla nella nostra povera società.
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Marcello Lippi