Aldo Rosselli scompariva il 2 ottobre 2013, tre anni fa. Romanziere, saggista, editore, cugino carnale della poetessa Amelia Rosselli, (meritevole di un Nobel mai avuto non meno della Szymborska) cugino di Alberto Moravia, (altro missed Nobel) , e infine, o forse soprattutto, dipende dai punti di vista, orfano politico: ovvero figlio di Nello Rosselli, ucciso insieme a suo fratello Carlo dai fascisti nel 1937- devo purtroppo ricordare, è un dovere storico e culturale, -opinione questa che rappresenta il mio solo unico punto di vista e non necessariamente quello collettivo o di qualcuno degli autori di questo speciale – che alle sue esequie nel cimitero ebraico del Verano non fu presente un solo rappresentante del Comune di Roma -allora governato dal Sindaco Ignazio Marino con alla cultura l’assessore Flavia Barca che pur era stata direttrice scientifica della prestigiosa Fondazione Rosselli, cosa che le dava coscienza di chi era Aldo Rosselli senza ombra di dubbio- ne tanto meno dello Stato. Come vogliamo ricordare che lo stesso giorno sui maggiori quotidiani italiani si dedicavano intere pagine a Tom Clancy, scrittore americano famoso per i suoi libri che hanno ispirato i soggetti di molti videogiochi di guerra, morto il giorno prima, e appena due righe, invece, su Rosselli… Oggi lo ricordano qui le testimonianze di alcuni suoi cari amici.
Innanzi tutto un Solenne ringraziamento a tutti Coloro che hanno contribuito a questa memoria. Consapevole delle innumerevoli Deadline che ci costringono nei nostri seppur cruciali impegni quotidiani e intellettuali, familiari o di mera sussistenza, credo che coloro che sono riusciti, con una fatica in più generosamente dispensata al sapere collettivo, a soffiare sulle braci sepolte sotto le ceneri di un presente spesso anche insensato, per accendere la fiamma della memoria storica –non meno importante per l’umanità di quella Olimpica a cui la società dello spettacolo tributa e dispensa cosi tanti onori e denari- hanno compiuto un atto di importanza capitale.
Coloro che ricordano hanno una qualche probabilità in più di essere ricordati, hanno la possibilità di sentire che ciò di cui sono stati capaci potrà realmente essere fatto ancora da qualcuno fino alla fine dei tempi: essere ricordati, già.. è questo che ha sostenuto segretamente innumerevoli strenue lotte umane per la libertà e per la giustizia, quando anche questa lotta era stata solo una difesa della propria dignità. Non sono enumerabili coloro che nelle oscurità di carceri e segrete, dal dolore di torture e sevizie che nemmeno immaginiamo, come anche da miserie e povertà estreme, si sono fatti forza e coraggio pensando solo a restare degni di essere ricordati per questo loro gesto appunto di decoro di fronte alla possibile memoria collettiva, che è lo sguardo dell’umanità che ci guarda. Cioè che grazie all’idea della memoria si sono sentiti presenti all’umanità nel loro agire e anche nel loro sopportare ciò che gli veniva inflitto, senza cedere alla viltà. E’ quasi una frivolezza, avete ragione, si, ma con un valore di chiave di volta. Un piccolo decimale, un centesimo, che però fa entrare di quel poco in un altro universo, lasciando impotenti e con le mani vuote persecutori e assassini che restano padroni solo dei corpi che hanno catturato, seviziato o ucciso. Come quando un campione fa un record, per capirci, ed entra nella storia dello sport appena per il battito d’ali di una farfalla.
Non sono nemmeno enumerabili coloro che per la fede in questo regno, –la posterità, dove, come Socrate tentò di insegnare a noi tutti con il restare la dove aveva posto se stesso, ovverossia con la legge, le loro immortalità dovranno rendere conto di cosa hanno fatto e di chi sono stati, svelando finalmente da quali principi furono animati in vita- hanno potuto e saputo resistere alle più volgari compravvendite di se stessi e degli altri, cui il tirannico animale che è in noi, tanto violento quanto vulnerabile alla prima fame patita senza sapere con cosa saziarla, è pronto a scendere a patti. Certamente tra di loro Aldo Rosselli. Come prima di lui, suo padre e suo zio, sua cugina, sua madre, sua nonna e ancor prima altri della sua stirpe.
Non esiste nessuna possibilità di resistenza per l’uomo fragilissimo di fronte ai leviatani della storia se non la fede nella posterità delle proprie gesta, perche? Perchè il senso delle azioni di resistenza morale e fisica di cui sono capaci alcuni uomini e donne, ma soprattutto il senso delle loro opere di pensiero e d’arte, che i Leviatani o i regni del male, anche quelli di ultima generazione, impalpabili ed invisibili ai più, vorrebbero sgretolare tra le loro dita d’acciaio, si sottraggono al dominio e al claustro di certi tetri presenti, e si presentano, nel percepire la posterità come indirizzo teleologico della propria vita, alla certezza assoluta del giudizio del futuro. Non essendo tanto importante poi se ciò si realizzerà o meno, se alla loro virtù si sposerà la fortuna, ma quanto per l’energia che questa utopia ha generato sostenendone vita e resistenza e fornendo un territorio inespugnabile da qualsiasi potere, non solo alla sua forza ma anche alle sue trappole seducenti, in cui creare e pensare , agire, senza patire ricatti e condizionamenti, pur patendo fame miserie, sevizie o prigionie . E’ da questo regno che sono venuti a uomini delicati come Ghandi, per esempio, gli inauditi superpoteri contro cui nessuno ha infine potuto nulla. Questo ha sostenuto la forza dell’uomo nelle prigioni ultraventennali di Mandela, altrimenti senza speranza, come quelle dello stesso Pertini e delle migliaia come loro. Ecco perché la Damnatio Memoriae era arma politica esercitata presso i Romani, e perché la rappresentazione è un metabolismo necessario alla vita del Potere. Ecco perché conservare memoria, ricordare, è un obbiettivo strategico che la cultura non deve cessare di perseguire. E’ l’unico superpotere che l’uomo ha di fronte alle forze sovraumane che talora scatenano le ideologie e fanatismi liberando dall’Ade i Titani degli orrori che hanno camminato come pastori di masse inferocite, lasciando le indelebili orme di terrore e morte del 900. La posterità è un regno della libertà di cui il dominio, che Hannah Arendt ricordava riprodursi attraverso i dominati, vorrebbe fossero smarrite per sempre le chiavi, ecco uno dei sensi dell’attacco feroce e permanente alla memoria e al sapere.
La memoria è il legame umano per eccellenza ancor più dell’amore e dell’Eros, o meglio è un amore e un Eros che sopravvivono alla scomparsa del corpo, il cui alveo impalpabile è nel campo di forza stesso degli esseri umani come societas, come amicizia. Un legame la cui facoltà in ognuno di noi è oggi gravemente minacciata di estinzione sotto la pressione di un superpresente assoluto e totalitario, imposto dalla potenza dei mezzi di produzione culturale, quanto effimero e vuoto di significati profondi per cui vivere ma anche per cui morire. Ne fa fede l’epidemia occidentale di depressione che vede decine e decine di milioni di individui abusanti psicofarmaci in ogni nostra nazione.
Uno dei grandi dispiaceri che hanno afflitto Aldo Rosselli, nell’ultima fase della sua vita, determinando anche un aggravamento delle sue condizioni, perchè i motivi della vita sono la vita, sono stati una serie di rifiuti editoriali da parte di importanti editori che in passato lo avevano pubblicato, rifiuti che non avevano nessun motivo all’infuori dell’inseguimento che la editoria e la letteratura contemporanee sempre più spesso fanno del consenso del consumatore, facendosi educare al ribasso dai linguaggi di massa, linguaggi che la massa però non genera in modo spontaneo e naturale, ma a cui viene spesso indottrinata dall’industria spettacolare, innescando cosi un circuito amplificatore di reciproci feedback a una orrida ortodossia linguistica sociale, rabbrividente per mancanza di senso. Brodskij diceva che la letteratura non dovrebbe mai piegarsi a questo, anche Orwell lo diceva. Complessità diventa oggi tabù nel consumo di massa della industria culturale e cosi, rubo un concetto, la biodiversità intellettuale subisce un processo entropico, estinguendosi. Un danno irreparabile, le cui conseguenze sono di ordine catastrofico, perché sappiamo bene che è un irreversibile passaggio dall’ordine al caos –con significati di libertà il primo e di terrore e morte il secondo– il cui recupero eventualmente richiederebbe millenni , perché con ogni diversità intellettuale si perde un seme millenario attraverso cui questa stessa diversità intellettuale si è formata attraverso la storia umana e di cui ognuno nella propria unicità (unicità che appunto va verso il viraggio in serialità, generando comportamenti – la cui scienza è la statistica, al posto di azioni, che invece non sono prevedibili) è custode, espressione, portatore. E dunque mi auguro e soprattutto auguro alla cultura italiana e mondiale che l’intera opera di Aldo Rosselli, romanziere e intellettuale, editore e saggista, americanista e narratore, rappresentante di una tradizione familiare semplicemente e assolutamente straordinaria, un patrimonio storico culturale inestimabile, anche nelle sue diramazioni, e che va annoverata tra le famiglie fondatrici dell’Italia democratica, come disse Sandro Pertini, sia edita al più presto in una pubblicazione integrale e fatta conoscere al maggior numero possibile di quella ormai esile schiera di individui che ancora leggono e conservano cultura e memoria, a questo punto solo come semi da innanzi tutto conservare -così come oggi si conservano in banche sotterrane antiatomiche semi di tutte le specie vegetali in vista delle future catastrofi, che state certi ci attendono- per il futuro, dove poi saranno istruzioni fondamentali per nuovi rinascimenti.
Per questa importante azione di memoria di cui avete dato testimonianza contribuendo a ricordare Aldo e la sua opera, ringrazio calorosamente voi tutti.
Chi ne abbia voglia e tempo si disponga alla lettura delle seguenti testimonianze ascoltando innanzi tutto il 2° movimento della Settima Sinfonia di Beethoven, il quale, per motivi che vi si chiariranno via via leggendo, riflette i più profondi moti spirituali di tutta questa vicenda.
David Colantoni Roma 2 ottobre 2016
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BEETHOVEN PER ALDO ROSSELLI
SECONDO MOVIMENTO SETTIMA SINFONIA
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FURIO COLOMBO
IN VIAGGIO CON ALDO ROSSELLI
Ci siamo incontrati su un marciapiede della stazione centrale di Milano, treno notturno per Parigi via Modane. Era l’inverno -gennaio o febbraio- del 1960. Il tempo di salutarci, prendere possesso delle cabine del vagone letto e ritrovarci nel corridoio. Aldo veniva dall’esperienza dell’Andrea Doria, la grande nave italiana affondata nell’Atlantico di cui era un superstite, e sembrava di cogliere in lui un lieve tremore quando la raccontava.
Aveva un suo modo diretto, appassionato di comunicare, eppure era timido e non gli piaceva stare in scena. Io andavo e venivo (questa volta di nuovo andavo) dalla mia prima esperienza americana. Adriano Olivetti mi mandava in America e in Giappone a cercare ingegneri e filosofi per il grande calcolatore Elea 2001 (il primo e l’unico in Europa) che stava nascendo tra Pisa, Ivrea e Milano sotto la guida dell’Ingegnere cinese Chou. Avevo letto anni prima ( suggerimento di Umberto Eco mentre ci stavamo laureando ) ” Il futuro è già cominciato” di Wiesner e, credevo di vivere un’avventura di fantascienza. Perciò ero esuberante e invadente, e anche felice di avere Aldo ( conoscenza breve e rapporto immediato in una casa milanese) come compagno di viaggio. A quei tempi dall’Italia si andava a Parigi col treno della notte per imbarcarsi al mattino sul primo e unico jet per New York (Pan American) che sarebbe arrivato alle 2 del pomeriggio, e ci appariva un prodigio.
Non credo che abbiamo mai smesso di parlare, la notte in treno, e poi in auto all’aeroporto di Orly e durante tutto il viaggio negli Usa, il Paese amato e scoperto che ognuno di noi raccontava all’altro. La sua America era civile e politica. La mia, benché esplorata all’interno di
una esperienza industriale era però segnata dagli intensi rapporti universitari ( dovunque dovevo cercare persone giovani e di talento per il computer che intanto stava nascendo ) e dall’accumularsi di esperienze nuove, la musica, il teatro, la pittura, la letteratura, il design. Metà delle persone che via via nominavamo le conoscevamo e frequentavamo entrambi. Metà ce le saremmo presentate a vicenda in un futuro intenso e prossimo. Aldo era malinconico e allo stesso tempo pieno di speranze, attese e progetti. Erano i doni di giovinezza che ci saremmo scambiati, anche solo con lunghe telefonate, per tutta la vita.
Il legame era forte ed è rimasto forte anche a distanza, perché Aldo aveva una sua dote che appena appena notavi una sorta di proselitismo affettuoso ma anche, a momenti, imperioso. Voleva che tu restassi nella sua vita pagando un obolo, come le opere buone in una religione. Con impegno politico, ricerca, cultura, sostegno a chi lo fa. Spero di non averlo deluso.
Furio Colombo ,è Giornalista e scrittore, ha diviso la sua vita fra Italia è Stati Uniti. È stato giornalista ed inviato di molte testate e direttore dei programmi culturali della Rai-Tv ed è autore di numerosi saggi e romanzi. Nel 1963 è tra i fondatori del Gruppo ‘63. All’inizio degli anni ‘70 partecipa alla fondazione del DAMS di Bologna dove insegna dal 1970 al 1975. Negli Stati Uniti è stato corrispondente de La Stampa e di La Repubblica. Ha scritto per il New York Times e la New York Review of Books.E’ stato presidente della Fiat USA, professore di giornalismo alla Columbia University, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura. Direttore storico de L’Unità. È stato senatore e deputato del Partito Democratico nelle ultime due legislature. E detiene il record parlamentare di voti ribelli in parlamento contro le indicazioni del suo partito. Furio Colombo, è stato uno dei Garanti Scientifici dell’ultima rivista finanziata, fondata e diretta da Aldo Rosselli , Inchiostri.
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il II° Canto del poema Lucus Feroniae di Nail Chiodo -alias Luigi Attardi- fu da esso dedicato, poeta, entrambi ancora in vita, ad Aldo Rosselli, suo grandissimo amico. Poi Neil Chiodo è scomparso, improvvisamente e prematuramente a poca distanza dalla morte di Aldo Rosselli, e sinceramente sembra che lo abbia seguito in un viaggio di mistero piuttosto. Infatti Luigi è stato alla fine l’amico più fedele di Aldo, l’amico più costante.
Per Anni, da quando Aldo Rosselli era ormai caduto in depressione senza più la polarità maniacale e tra queste due i più o meno lunghi intermezzi di normalità che Aldo chiamava le resurrezioni, che gli hanno permesso dai 20 ai 79 anni -durante ben 59 anni di malattia- di riuscire nonostante la sua ciclotimia a scrivere i suoi quasi 20 romanzi, a fondare e dirigere una casa editrice , 4 riviste e quant’altro, Luigi era andato tutti i giovedì pomeriggio, potesse cadere anche il diluvio universale, a trovarlo per conversare con lui , per sostenere la sua resistenza. per leggergli i libri ad alta voce, cosa che faceva assiduamente, con immenso affetto, per dargli motivo di un sorriso che improvviso increspava le acque immote della sua reclusione mentale illuminando la trasparenza incendiaria del suo sguardo chiarissimo. Erano intanto riusciti a completare la traduzione di alcuni racconti in inglese usciti in forma di e-book dal titolo “The Armchair in the sky”.
Per Aldo la presenza costante di Luigi Attardi era una vera e propria evasione dalla segregazione terribile in cui lo tratteneva la sua depressione e la perdita dell’uso delle gambe alla vita ancora, anche se resistenzialmente estrema, che solo i rapporti veri possono infondere. Nulla di più prezioso. Aldo aspettava quei Giovedì in cui Attardi sarebbe venuto, con intensità e speranza. Cosi molte volte ci siamo trovati insieme Luigi Aldo ed Io nel silenzio appena lambito dal riverbero del traffico tra le grandi mura del suo appartamento a via Torino 163, tappezzate di libri accalcati sugli scaffali persino in tripla fila, libri, i suoi , che sono stati per me la vera scuola, fino ai soffitti altissimi degli appartamenti di Palazzo Giolitti, di proprietà della Banca d’Italia, casa però , perciò Aldo ironicamente la chiamava il suo il suo bunker, da cui nessuna finestra guardava il cielo, sua ultima residenza e Redazione dell’ultima rivista che Aldo volle fondare, finanziare e dirigere, INCHIOSTRI, di cui Attardi fu ovviamente redattore insieme a Paris e ad altri, Furio Colombo garante , e io segretario di redazione, ragazzo tuttofare e apprendista stregone. In questo ricordo Luigi Attardi ha un assoluto posto d’onore. – D.C.
NAIL CHIODO (Luigi Attardi)
LUCUS FERONIAE CANTO SECONDO
Aldo – settantacinque anni – è il più vecchio
dei miei confrères, quello che più si è logorato,
battendosi con la malattia per quasi tutta la vita.
Il suo specifico disturbo – una sindrome
maniaco-depressiva – è particolarmente crudele
perché gioca con l’immaginazione,
alimentando l’illusione che si tratti solo
d’una malattia immaginaria.
Quando a esserne vittima è uno come lui,
così immaginoso, la pena e rovina che arreca
sono assolutamente atroci. Ma c’è sempre
una certa logica nella follia, e un po’ di follia
in amore, e – per quel che ne so –
non c’è amante più amante di lui.
Selvatica euforia e indicibile tristezza
son le due facce della stessa medaglia:
solo soffocando, spegnendo il fuoco
dei suoi lombi, ha impedito alla mente,
sia pure per poco, di vacillare.
“L’uomo è fatto per soffrire”, dice il proverbio,
“e la donna per provarne il dolore”,
aggiunge la storia, a volerla leggere tutta.
Senza dubbio, Aldo ha sedotto
entrambe le sue mogli e tutte le sue amanti,
creando – per quanto poté – una simbiosi
tra la sua e la loro vita, il che naturalmente
implicava metterle al corrente
del privato inferno in cui viveva
più dettagliatamente di quanto fosse opportuno.
Le sue molte donne, non poche delle quali
ho avuto l’onore d’incontrare,
erano praticamente intrappolate
da quando si aprirono a lui la prima volta,
tanta era la forza con cui le teneva.
Nessuna delle donne di Aldo
avrebbe potuto risolverne il problema—
prima o poi, ognuna si sarebbe arresa;
però, tutte insieme l’han tenuto in vita,
erculea impresa che,
col tempo, ha reso possibile
una delle maggiori riuscite letterarie
del secolo appena finito.
Infatti, il mio grande amico
è un vero principe Amleto,
le cui complesse opere celano il tentativo
di vendicare l’infame uccisione del padre.
Lui non poté accontentarsi delle scuse
di una società che continuava a generare
la stessa violenza interna che, per mano
dello Stato, aveva segnato il destino del babbo,
dello zio. Poi c’è stato un cambiamento
di regime, i fratelli massacrati
acclamati come eroi, e il nome di famiglia
avvicinato a quelli dei Padri fondatori della Patria
nella toponomastica di tutto il Paese.
Ma, essendo assetato di giustizia e avido
di quella libertà che vera onestà richiede,
non poteva accettare che tutto fosse cambiato
solo per restare uguale
nell’incubo seriale della Storia.
Ci siamo conosciuti circa trent’anni fa
grazie a Michael, grande maestro
– del quale fui discepolo – nell’arte
di usare il bisturi filosofico con i filistei,
i farisei e gli altri tartufes. Probabilmente
gli estranei ci avranno presi per tre finocchi
quando si andava a gozzovigliare insieme
per il diletto della reciproca compagnia.
Pure, la vera natura dei nostri rapporti
eludeva anche la comprensione
di chi ci era più vicino, perché
il reciproco legame di certi artisti
non è diverso da quello
tra fratelli e sorelle siamesi
sordomuti o ciechi dalla nascita.
Ancor più speciali per essere trigemini,
facevamo uso del nostro Braille privato
per conoscerci l’un l’altro con molto tatto
e congiuntamente imbastire il filo
di una condivisa coscienza e consapevolezza.
Ognuno di noi contribuiva all’impresa
di animare il nostro parlamento
con le sue svariate esperienze,
avvolte nella loro caratteriale confezione
che differiva come le rispettive età.
Con i nostri quaranta trenta venticinque anni,
rappresentavamo quegli stadi della vita umana
che normalmente, secondo
i vecchi pregiudizi femminili, si associano
al declino della potenza sessuale;
invece, noi tre eravamo ancora assai arrapati.
E non sfuggì alle nostre acute osservazioni
che l’aspetto conta – Aldo strinse persino
una relazione con il clone cisalpino
di Romy Schneider –, però mai nessuno
era meno insignificante della Musa,
ed era sempre lei a scegliere: noi
dovevamo solo dar ascolto attentamente
ai nostri desideri, per non finire
in una scuola di sopravvivenza.
Dopo aver sguazzato come trichechi
nella piscina romana, negli anni
in cui si poteva ancora farlo,
prima che diventasse sovraffollata
di pesci del tutto immangiabili,
ora cantiamo laudate nella rara scavata buca,
ma ancora abbastanza buca
da poterci galleggiare. Se solo potessimo dire
che le nostre convinzioni stanno vacillando,
e forse da principio si è sbagliato!
Le nostre zanne aguzze e la nostra pellaccia
scrissero la fine: nessuno, credo,
si sorprese granché il giorno in cui si sciolse
il coraggioso Davidsbund. Ma in cuor nostro
mai abbiamo potuto rinunciare
a esercitarci contro i lillipuziani Golia!
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Nail Chiodo è nato a Padova, Italia, nel 1952. figlio di biologi italiani immigrati negli Stati Uniti, è vissuto in America per più di venti anni, per un periodo di tempo che ha misurato da quando aveva l’età materna fino a 36 anni. Ha anche trascorso alcuni anni a Parigi, come studente universitario. Nel 1974, si è laureato in filosofia a Yale. Nel 1977, ha iniziato a fare un lungometraggio, “The Insignificant Other”, che è stato completato, dopo ogni sorta di vicissitudini, solo nel 2000. Dal 1978 in poi, tuttavia, la sua attività creativa primara è stata la scrittura di versi in Inglese. Più di recente, ha fondato e diretto “Lyrical Traduzioni”. Caduto malato terminale in primavera, Attardi ha deciso di morire serenamente a Zurigo, congedandosi dagli amici con una lettera – poesia, pubblicata dopo la sua morte sul suo sito in Svizzera, il 31 ottobre del 2014,.
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MARIO LUNETTA
UNO SCRITTORE NEL GORGO DELL’INCUBO QUOTIDIANO
Aldo Rosselli È morto il 2 Ottobre di tre anni fa a 79 anni il romanziere, figlio di Nello e nipote di Carlo, i due fratelli Rosselli, oppositori di Mussolini col gruppo Giustizia e Libertà, uccisi nel 1937 in Francia da una banda di sicari fascisti. Un evento che ha segnato profondamente sul piano personale ed esistenziale l’autore fiorentino e si è riverberato incessantemente in tutti i suoi libri, segnati da una ferita psichica che dà luogo ad una incessante nevrosi che si alimenta di costanti surrogati, per approdare ad un ineluttabile e decisivo scacco.
Nel 1983 Aldo Rosselli pubblicò da Bompiani quel libro struggente e tagliente (anche contro i suoi polsi) che è La famiglia Rosselli, e che in sé contiene almeno il mood centrale di tutta la sua opera: un invincibile stato di inaccettabilità di se stesso in un mondo senza rimedio opaco, che si risolveva in una difesa impossibile contro quell’estraneità vissuta come incapacità di adeguarsi, e alla fine di farsi veramente capire, che per lui precipitava soprattutto nella difficile ricerca di una comunicazione irrimediabilmente alterata, o sconnessa: comunque, come priva di una platform di sicura consistenza. Un notevole esercizio di scrittura, questo libro; che è, insieme, un gesto di consapevolezza dolorosa e quindi – inevitabilmente – un atto di grande coraggio intellettuale. Soltanto nella breve Premessa e nel capitolo conclusivo del libro, che si avvale di una Presentazione di Sandro Pertini e di una Prefazione di Alberto Moravia, il quale rileva che “La famiglia Rosselli apparteneva alla minoranza sinceramente liberale. Era una famiglia con tradizioni risorgimentali (Mazzini era morto in casa Rosselli, a Pisa, sotto il nome di Mr. Brown)”, l’autore adotta la prima persona. Il corpus dell’opera poggia su una terza persona che non rinuncia mai a un tono di distanza partecipe rispetto ad eventi che hanno segnato di un marker eccezionale e tragico non solo la storia di una famiglia straordinaria, ma un ventennio di storia d’Italia del Novecento. L’autore de La famiglia Rosselli era figlio di Nello Rosselli, terzogenito della coppia formata da Giuseppe (“Joe”) Rosselli e da Amelia Pincherle, e nipote di Carlo e del primogenito Aldo (morto nella Grande Guerra e insignito di medaglia d’argento), di cui ripeteva il nome.
“L’io che scrive queste pagine tra cronaca e biografia su alcuni personaggi della mia famiglia è un io particolare, incapace di tenere la penna in mano e tantomeno di ergersi a storico o giudice. Un io di nove anni, catturato nel vortice dell’esilio familiare nel 1945, agli sgoccioli della guerra e in quella stagione in cui il duce andava incontro alla sua ingloriosa fine. A nove anni, per ragioni non tutte analizzabili, si era coagulato in me il senso di storia e di morte che per decenni era stato il destino stranamente corteggiato dalla mia famiglia. Ero vissuto in un’atmosfera di sussurri e dialoghi in cui i nomi ricorrenti erano tutti scomparsi. Aggrapparsi alla mia realtà infantile significava, al di là delle fantasie e dei giochi, dare sostanza a quell’idealismo che, per quanto per me misterioso, doveva essere stata la causa dei nostri peregrinaggi e dei morti disseminati nella vecchia Europa.”
I più stretti compagni di strada di Carlo e Nello si chiamavano Pertini, Bauer, Parri, Calamandrei, Olivetti, Salvemini. Con quest’ultimo, che fu il loro maestro, fondarono nel 1925 a Firenze il primo foglio clandestino antifascista, Non mollare. Carlo, che sarà il capo della Colonna Italiana delle Brigate Internazionali nella guerra antifranchista in Spagna e sarà ferito a Guadalajara, aveva direttamente contribuito a far evadere il vecchio leader socialista Turati in Francia. Nel 1929, dopo aver scritto un testo significativo come Socialismo liberale, evade clamorosamente e raggiunge Parigi, dove fonda Giustizia e Libertà. Carlo e Nello, che nel frattempo rielaborava profondamente la sua tesi di laurea (Mazzini e Bakunin) e nel 1933 aveva pubblicato Pisacane con un’ottica tutta girata al presente, sono ormai nel mirino della dittatura del duce. Nel 1937 Nello raggiunge Carlo a Bagnoles-de-l’Orne, in Normandia. Lì vengono assassinati il 9 giugno su mandato di Ciano e Mussolini dai sicari della Cagoule, un’associazione politico-criminale della destra francese. Inizia per le vedove e per gli orfani un esilio decennale (Svizzera, Inghilterra, Stati Uniti) che avrà termine solo nel 1946. In quel libro singolare che è La famiglia Rosselli, l’autoanalisi vira costantemente, invincibilmente si direbbe, verso la tentazione impietosa di disegnare il proprio profilo di uomo e di scrittore ormai adulto, comunque impossibilitato a cedere alla doppia indulgenza verso il se stesso bambino e il se stesso uomo.
Lo sguardo è sempre saldamente, se non aspramente, disincantato: e anche quando affiora una bava sottile di contraddittoria nostalgia per i luoghi e gli ambienti, ciò che resta ineliminabile è la cicatrice di un’irredimibile diversità: “grassoccio e poco coordinato, da futuro intellettuale, combattevo già allora, nell’agosto del 1945, la mia privata guerra da vittima designata. Ebreo, figlio d’un morto ammazzato, raccoglievo tenerezza e stupore. Tuttavia, incapace di amarmi, da bambino ero già catalogatore espertissimo di tutti i più raffinati modi con cui gli altri ti possono ferire. Odiatore della mia identità, sognavo un ipotetico futuro ‘coito’ con cui congiungermi ai miei persecutori. Persecutori che, fin dai miei primi sogni di auto-annientamento, presero le sembianze di quelle minuscole malfattrici piene di lentiggini che, attraverso vertiginose crescite genetiche, sarebbero diventate le squisite manipolatrici della tortura che tutti chiamano donne.” (…) “Inoltre ero uno snob, come tutti i bambini solitari, sempre proponendo con estrema schifiltosità confronti col deludente mondo degli altri. Non scrivevo, no – per certe cose era troppo presto –, ma possedevo una mini-collezione di penne con le quali, solo che lo avessi voluto, avrei potuto buttar giù fior di libri. Una grammatica piena zeppa di errori, la mia, ma tagliente come una grattugia, qualche volo di quelli che ai tempi del nonno si chiamavano pindarici, e una manciata d’ironia con cui ricoprire il mondo di un incantato disprezzo.” Una dose massiccia di consapevolezza precoce, per una “vittima designata”.
La stessa che nei suoi racconti e nei suoi romanzi Aldo avrebbe dipanato (o nascosto, se si preferisce), in quella sua scrittura avvolgente, e di quando in quando improvvisamente isterica, che dietro la maschera dell’accusa o della recriminazione, finisce sempre per esaltare il predominio dei personaggi femminili: un predominio che, se non è genetico, è certo costruito e esercitato sulla coscienza della propria forza. Sì, perché l’intellettuale e lo scrittore Aldo Rosselli si costruiscono soprattutto sulla gelosa custodia dei propri traumi, delle proprie angosce, delle proprie fragilità, a partire dalle prime prove narrative: Il megalomane (1964) e il più maturo Ottoz (1968). Ma è col suo terzo romanzo (Professione: mitomane, 1971) che si può istituire un bilancio assai più che provvisorio. Vediamo. L’area nella quale si è sviluppato il lavoro dello scrittore ha una sua sicura delimitazione di motivi e di temi: la nevrosi, la consumabilità inesorabile delle certezze quotidiane, lo smarrimento dell’identità, il susseguirsi di una disperata ricerca di surrogati, fino allo scacco, che appare alla fine il solo obiettivo davvero perseguito, in una sorta di innaturale ghirigoro labirintico. Anche nel mondo di Rosselli la sconfitta è l’ultimo approdo di un viaggio nel buio costellato di stazioni che si chiamano menzogna, mistificazione e demenza. Il discrimine fra realtà oggettiva e proiezioni dell’inconscio obnubilato è sempre, nelle sue storie, così tenue da finire lacerato, invariabilmente: col risultato che i deboli paraventi dietro i quali i suoi personaggi-emblemi tentano di ripararsi, finiscono travolti e poi risucchiati coi loro incauti protetti nel gorgo di irreparabili miserie private: nella generale miseria dell’esistenza. Assunto pervicacemente gnoseologico, quello di Rosselli, prima ancora che rappresentativo: nel senso che ciò che soprattutto conta, in un universo disintegrato nel quale tutto quanto fu materia densa è ridotto a poltiglia o maceria, è ri-stabilire almeno la collocazione del proprio ombelico, del proprio naso, per tentare di ritrovare, come che sia, una possibile statica. Il resto è tenebra, assenti tutte le bussole e le carte orientative.
L’itinerario dei grigi personaggi di Rosselli comincia e finisce entro i confini della propria mente sperduta: ecco perciò la necessità di una lingua opaca, cocciutamente piatta, raramente eccentrica rispetto alle lente volute dell’analisi. Dei nove racconti che compongono Episodi di guerriglia urbana (1972) la prima terna possiede una compatta e tetra efficacia che i rimanenti raggiungono solo in certe parti, per offuscarsi in altre. L’America, e in genere l’american way of live esteso metaforicamente all’intera condizione dell’uomo d’Occidente, è il crasso, limaccioso sedimento in cui fruga la rabbiosa monomania dello scrittore, in un’ininterrotta operazione di attratta curiosità e di nauseato rifiuto. Il suo repertorio contempla esclusivamente casi clinici e miserande aberrazioni, quasi a definire perentoriamente la purulenta dissoluzione in cui siamo immersi senza rimedio, qui o altrove non importa poi tanto, dal momento che le “colonie” non possono che somigliare goffamente ai caratteri primari (magari anche travestiti da atteggiamenti pop) dell’Impero, sempre al tempo stesso lontano e presente. Di cinque anni dopo è La trasformazione, un romanzo col quale Rosselli, perfettamente consapevole della natura ”dannata” che pressoché inesorabilmente segna l’eros e la condizione psico-sociale della coppia moderna, costruisce all’interno del suo cerchio paralizzante un oggetto succoso e crudele, imponendogli quasi scaramanticamente un titolo “innocente” che riprende Moravia e allude a Butor.
La fatalità impossibile dell’amore vi è vista come il mutamento bloccato delle progressive fasi dell’odio, l’apparente variazione su una fissazione gelida e muta, come dire la malattia indispensabile alla vita stessa di un rapporto che si nasconde continuamente, si camuffa da oggetto neutro e ingombrante, cela vanamente la sua vera essenza di strumento di tortura reciproco. Il ”lui” e la “lei” anonimi che danno vita al durissimo duello sentimentale su cui si snoda il romanzo, funzionano come gli emblemi, monchi e speculari, di una perduta unità, stritolati negli ingranaggi di una dialettica impazzita: ma, a loro modo, affamati come sono di ferocia e di autopunizione, frantumano le ipocrite regole del rituale della coppia borghese radicalizzandone fino all’insostenibilità il codice esteriore. Stanno insieme, i due, solo per farsi male, il più gran male possibile, in un miscuglio viscoso di attrazione-repulsione che pare sciogliersi, dolorosamente, miserabilmente, con la morte violenta della donna per mano di improbabili guerriglieri coi quali lei, borghese viziata, s’è altrettanto improbabilmente imbrancata. C’è anche un cancro che l’affligge, negli ultimi tempi, e prima, ci sono spostamenti incongrui, viaggi “di piacere” che sono in realtà fughe dal presente e da se stessi, un bunker in rovina, un isolotto al largo delle coste africane, una villa toscana umida e spettrale, una New York molto livida. E intorno, la violenza dei nostri anni e di trent’anni fa, le guerre, le guerriglie, le paure, tutte tèssere sconnesse di un unico pannello che è l’Incubo Quotidiano della realtà e della memoria, della veglia e del sogno in una sospensione liquida e sinistra. Mutano i luoghi geografici della tragica farsa, ma i “trasferimenti” sono soprattutto della coscienza assente, della psiche malata che vegeta di rimozioni crudeli per l’incapacità di definire i propri desideri. In un mondo squilibrato e disfatto non c’è spazio per un rapporto che non sia spasmodico: e l’ascesi, cioè la rinuncia ai propri vizi, id est alle proprie abitudini, al proprio vero essere, è pura illusione. All’uomo rimane la viltà, alla donna la velleità battuta di una rigenerazione ”politica” tentata soprattutto come ultima chance vitalistica e vanitosa. Ogni “sogno di pace”, come dice Rosselli, è davvero “insano”.
Per praticare sevizie feroci occorrono strumenti adeguati, di raffinata sottigliezza. Bene: la lingua di Rosselli, per rappresentare una storia di sevizie, si è fatta agevolmente, in questo caso, strumento acuminato e sottile, freddo e lucido. Sotto le sue frizioni esplodono scintille brucianti, e una sorda, nauseata pietà. Credo sia questo, in fondo, il nucleo più significativo del lavoro narrativo di quello scrittore, di quell’intellettuale tormentato e integro che, per ragioni di dna e per drammatiche ragioni di educazione familiare è stato Aldo Rosselli.
Tra lui e chi scrive c’è stata un’amicizia disinteressata, pulita, fatta di reciproca simpatia, di adesioni e ancor più di divergenze sempre superate da un fiato forte di solidarietà e di intransigenza nei confronti di tutto ciò che ci pareva contravvenire a quei princìpi di Giustizia e di Libertà che, al dilà delle diverse coloriture ideologiche e delle diverse scelte culturali, abbiamo sempre considerato irrinunciabili. Ecco perché, ora che Aldo Rosselli non è più tra noi, anche in nome di quelle diversità posso dirgli con spirito fraterno: Addio, Aldo. Ti sia lieve la terra.
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A Mario Lunetta scrittore poeta saggista e drammaturgo impegnato in questo giorni in una difficile lotta va tutto il nostro affetto e la nostra speranza; tra alcune sue opere ricordiamo, Invito alla lettura di Italo Svevo, Milano, Mursia, 1972, Dell’elmo di Scipio, Venezia-Padova, Marsilio, 197, I ratti d’Europa, Roma, Editori riuniti, 1977, La presa di Palermo: poesie 1972-77, Manduria, Lacaita, 1979, Chez Giacometti: 13 poesie 13, Roma, Carte segrete, 1979, Flea market, Napoli, Guida, 1983, Puzzle d’autunno: romanzo, Milano, Camunia, 1989, Le dimore di Narciso, Roma, Rai-Eri, 1997, Montefolle: romanzo, Roma, Quasar, 1999, Roulette occidentale: poesie 1991-1997, Lecce, P. Manni, 2000, Cani abbandonati: racconti, Roma, Odradek, 2003, Doppio fantasma: 91 poesie per 91 artisti, Roma, Fermenti, 2003, Figure lunari, Roma, Robin, 2004, La notte gioca a dadi, Roma, Newton Compton, 2008, Metasintassi, Alfio Di Bella/Mario Lunetta, Roma, Onyx, 2012. Lo scritto su rosselli , Uscì nel novembre del 2013 su – le reti di dedalus
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ANGELO MAINARDI
INCHIOSTRI, AFFETTI E IDEE
Gli Antichi parlerebbero di premonizione. La notte precedente la telefonata di David che mi ha raggiunto nella Praga magica, per chiedermi questa testimonianza, avevo sognato per la prima volta Aldo che mi parlava – seconda coincidenza – del progetto di una rivista in carta stampata, e si sa che David è stato il cofondatore con Aldo Rosselli del quadrimestrale Inchiostri a cui ho collaborato.
Aldo era convinto dell’impatto che l’oggetto-libro aveva ancora, anche per un periodico, nella vita letteraria, quando il mondo della comunicazione già virava verso Internet, e si era impegnato totalmente nella produzione della sua rivista che presentò in pile consistenti di copie al Salone di Torino.
Ci eravamo conosciuti nel 1986 dopo la pubblicazione del mio primo romanzo La stanza chiusa per il quale scrisse la prefazione Attilio Bertolucci e che ottenne il Premio Mondello, ed era stata amicizia e stima a prima vista. Un anno dopo, uscì il suo romanzo Il naufragio dell’Andrea Doria, che presentai nella storica libreria Croce. Scoprimmo presto una consonanza di idee. Andavo a trovarlo nella casa di piazza in Priscinula dove abitava allora, a fianco del palazzo di un altro amico di gioventù, Nicola Caracciolo. Mi colpiva sempre il disordine del suo appartamento, con libri e carte sparsi dappertutto sul pavimento e la poltrona verde malandata che immagino fosse il luogo delle sue meditazioni. Poi uscivamo a mangiare in qualche “buco” di Trastevere. Ricordo il suo assoluto silenzio, da statua di pietra, in un giorno di depressione di cui soffriva e dalla quale inutilmente cercai di distrarlo. Ma negli altri giorni era ironico e loquace. Più tardi, quando si trasferì in un palazzo elegante di via Torino nel chiasso un po’ volgare del quartiere Esquilino, il disordine scomparve di colpo, ma rimase l’accumulo nel suo studiolo e sul suo letto di carte e di quotidiani dei quali era accanito lettore. Qui riuniva spesso gli amici letterati e una volta venne anche Alberto Moravia che ci raccontò con scettica arguzia dei suoi viaggi.
Su Inchiostri ho pubblicato un racconto, La casa liberty, e un saggio su Boris Vian dal titolo paradigmatico “Come si distrugge uno scrittore”, ricostruzione della vicenda di censura ed emarginazione di cui Vian fu vittima a opera dei “comitati di redazione” politicamente gestiti durante il dopoguerra. Li cito perché illustrano la consonanza di idee di cui ho accennato. In letteratura, il rifiuto comune della manichea contrapposizione tra realismo e avanguardie, tra cronaca e sperimentalismo, o (come si diceva) tra eredi (e nipotini) di Moravia e di Gadda. Entrambi guardavamo a una narrazione di storie – con tutte le funzioni del discorso narrativo: trama, personaggi, consequenzialità e motivazione delle azioni, durata temporale, punto di vista – che fossero insieme metafore esistenziali, ricerca di significati trascendenti la semplice rappresentazione degli avvenimenti. In politica, il rifiuto delle ideologie, che sono poi dogmatiche governate da gerarchie di potere in nome dell’ortodossia, per una scelta “laica”, di responsabilità della coscienza individuale, di libertà del pensiero sottratto a ogni autorità.
Dei suoi libri mi affascinava l’aria di mondanità alla Scott Fitzgerald di cui i personaggi, attrici in crisi e seduttori insicuri, mostrano una dichiarata nostalgia, non estranea all’autore, quanto più forte è in loro, e in lui, la consapevolezza del dramma degli eventi storici. Com’è per Zefiro, raffinato intellettuale in esilio dal fascismo sulla Costa Azzurra, che si avventura nell’impresa disperata di lanciare su Roma manifestini contro Mussolini da un improbabile monoplano pilotato da lui e in cui trova la morte – simbolo dello scacco dei sentimenti, congiunto con l’impossibilità dell’azione, che è motivo di fondo della narrativa di Rosselli.
C’era dietro il suo pensiero, e direi piuttosto nel suo stile umano, un lungo passato, di famiglia e di esperienze politiche, che risalivano ad anni in cui egli non era ancora nato, un filone nobile della storia italiana che vantava i nomi di Gaetano Salvemini e di Piero Gobetti, ripreso come proposta politica attuale dal Socialismo liberale di Nello Rosselli. Ancora Aldo era un bambino piccolo quando scoppiò la tragedia dell’assassinio in Francia di Nello e Carlo per mano di sicari fascisti, a cui seguì l’esilio familiare in Svizzera e negli Stati Uniti. Aldo non ne faceva mai parola, forse per un pudore della tragedia, e così anche della tradizione ebraica che pure era viva in lui, ma tutto questo, eredità di pensiero e traumi storici, di cui aveva avuto una consapevolezza precoce già a nove anni, si avvertiva come i segni originari incisi profondamente nella sua personalità. Proviene da qui l’idealismo degli eroi delle sue storie, proteso verso l’azione ed esposto al fallimento nel duro confronto con il mondo, che assume talvolta il volto del Fato greco, della condanna di una forza oscura contro la volontà dell’individuo, come avviene nella narrazione del viaggio transatlantico sull’Andrea Doria e nella vita dell’autore.
La nostra amicizia è stata un sodalizio di affetti e di idee. Aldo ha recensito più volte i miei libri, sempre con un’acuta lettura; e io quando ho diretto collane di letteratura ho ripubblicato alcuni dei suoi romanzi: Zefiro e (col titolo Il naufragio) Il naufragio dell’Andrea Doria, che considero tra gli esiti più validi della narrativa italiana del secondo Novecento.
La malattia è un altro capitolo della nostra amicizia. Io non credo assolutamente che abbia diminuito in qualche modo il suo talento di scrittore. Al contrario, ha aggiunto una dimensione altra alla sua conoscenza della psiche e ha contribuito a definire la nevrosi, la sensibilità inquieta delle sue creature letterarie, che si trasferisce anche nella sua scrittura.
Ma ricordo la grande barba bianca “tolstoiana” che si era fatta crescere durante un ricovero nella corsia di un ospedale col letto schermato solo da un labile paravento, le terapie violente alle quali lo sottoponevano. Poi capitò che lo inducessi a consultare un mio cugino psichiatra di Firenze il quale gli prescrisse cure farmacologiche che ebbero successo, tanto che i due rimasero legati di amicizia fino all’improvvisa morte del medico. Infine ho avuto il privilegio di illustrare la sua opera di narratore in una delle sue ultime uscite, in occasione della serata dedicata a lui nella sede delle edizioni di Empiria, presso le quali aveva pubblicato diversi suoi libri, trascurati dai grandi editori.
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Angelo Mainardi, Roma 1932, vive attualmente a Berlino. Giornalista, critico letterario, traduttore dal francese, ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti, due saggi biografici su Giacomo Casanova tradotti in Francia, un’Antologia dell’humour nero, e ha curato una Storia dell’editoria italiana. Ha fondato le edizioni Kami e diretto alcune collane di narrativa.
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RENATO MINORE
ALDO ROSSELLI SCRITTORE DI RACCONTI
Caro David, mi è capitato almeno due volte di presentare i libri di Aldo , ed erano libri di racconti. Ho ritrovato appunti di alcuni discorsi e li ho distesi in un testo unico insieme a quello pubblicato costruendo un unico discorso in tre tempi. Credo che per l’anniversario possa essere un contributo ad accostarsi a lui, o almeno a una parte di lui , quella di scrittore di racconti, che mi sembra assai poco ricordata.
1) Che cosa è la letteratura, quale gioco di luci e di ombre la intreccia indissolubilmente e la separa definitivamente dalla vita? Forse alla letteratura spetta «un’impossibile quanto luminosa parola finale, immersa in una distante e cotonosa coltre onirica», si legge in “A pranzo con Lukacs” di Aldo Rosselli. Un lungo racconto immerso in un’atmosfera di struggimento giovanile, d’interrogazioni quasi impalpabili sul senso della vita, su come lontani segnali possono improvvisamente rifrangersi nel presente, creando il disagio di una richiesta (comunque impossibile) di riconciliazione tra ciò che si è letto e costituisce il proprio alimento spirituale e ciò che appare davanti ai nostri occhi, con l’opacità dell’evidenza, senza altre leggi se non quelle della propria visibilità.
Ecco, il tema che sta a cuore a Rosselli sembra proprio la “trasparenza” intellettuale di fronte all’ “ostacolo” improvvisamente proposto dalla vita. L’ostacolo è György Lukács piovuto sorprendentemente nella sonnacchiosa Firenze degli Anni Cinquanta vestendo i panni (invero modesti o comunque ridotti rispetto alla propria immagine mitica) di un «piccolo professore, stretto nei suoi grigi abiti borghesi». Ma la figura è, a suo modo, enigmatica: il ventenne che ha con lui rapporti occasionali (a tavola, in un salotto cittadino, durante una breve gita a Siena in Topolino), lo fiuta come un sorprendente resto della propria immaginazione di lettore. Lukàcs, infatti, non è soltanto quell’anziano turista che rivede i posti di un suo lontano soggiorno toscano, fa sfoggio di signorili maniere e di un’impeccabile cultura classica capace di parlare in perfetto latino. E’ anche lo scrittore di “Storia e coscienza di classe”, il più grande pensatore marxista, protagonista di un’eccezionale stagione della rivoluzione mondiale. E’ anche un famoso personaggio manniano, Naphta, l’implacabile interlocutore di Settembrini ne “La montagna incantata”. Che cosa resta del pensatore? Cosa si rispecchia in lui di Naphta? Forse sul viso del professor Lukács si è sovrapposta “una maschera”, un invisibile sdoppiamento. La Rivoluzione, la lotta clandestina, l’avanzamento della classe operaia, il complesso tessuto dialettico del marxismo mal si adattavano a certi riti borghesi».
Rosselli segue analiticamente i turbamenti del suo protagonista immerso in un colpevole torpore borghese dentro cui covano i semi di un’impossibile rivolta, di un riscatto comunque difficile perché tutto (la città «spazzata dalla tramontana», l’idillio piuttosto lacunoso con Brigida, la pigrizia delle letture che cercano disperatamente un punto intorno a cui ruotare, un ubi consistam) congiura contro la riconciliazione tra il dato sensibile e quello intellettuale, tra l’apparenza della vita e la sostanza della cultura. Il fascino del racconto è nella soffice identificazione con i turbamenti dell’io-narrante che sulla propria pelle, attraverso le sorprese della vita, scopre lo smacco, non solo personale, di essere condannato a vivere dentro il «colpevole estetismo borghese». Lukàcs, in fondo, resta un pretesto per avvoltolarsi ancor meglio in quella spirale di colpa e di espiazione. Proprio nel momento in cui celebra la sua impotenza a sciogliere gli enigmi dell’esistenza, la scrittura si esibisce in un virtuosistico assolo che è anche un pertinente strumento di conoscenza. In poche pagine, Rosselli si dimostra fortemente ammaliato dalla sua materia e ci dà un libro di intensa bellezza, come lo struggente ripensamento su cosa significa vivere nel clima di colpevole dolcezza che soltanto la grande letteratura può ancora suscitare in chi la pratica da lettore e tenta di farne i suoi modelli alti.
2) Non so quanto siano davvero «racconti» i sei lunghi racconti che Aldo Rosselli raccoglie ne “L’apparizione di Elsie”. In ognuno c’è continua spezzettatura di capitoletti, stringati e incalzanti, come per centrare un obiettivo che sulla distanza sfuma, si evapora. Incalzano nel delineare lo sfondo di una monotona provincia americana dove un marito separato fa quello che deve fare un ex: «visitare» in «vacanza» (ma è una visita o una vacanza?) la moglie e il figlio, tra ricordi, recriminazioni, l’inevitabile acredine delle rotture definitive illusoriamente considerate provvisorie. Incalzano nel rappresentare con crudezza la lenta estinzione di un rapporto adulterino, con un lui sempre più immobile, vago e giudicante, e una lei sfuggente ma inquisitrice secondo un principio di realtà (anche, e soprattutto, erotica) che lui ormai fatica ad accettare. Incalzano mentre si lasciano catturare dall’atmosfera malinconica di una visita nell’antica casa materna, complicata dall’inatteso tepore provato dal protagonista nello scoprirsi nonno e in affettuosa sintonia con un’altra ex-moglie, la prima, nel giusto affetto di una maturità ormai acquisita.
Gli altri racconti sono più frantumati. Resoconti di viaggi o di «azioni diverse» come quella di un marito che ha ucciso la moglie durante l’ultimo alterco, e le dieci pagine di testo sono occupate dalla consapevolezza quasi gioiosa del fatto cui egli lentamente arriva. O l’altra del pensionato di banca grafomane, ennesima variante di un tema classico in Rosselli: l’interrogazione sul senso e il destino della scrittura alla luce di un fatto della più recente cronaca mondiale, l’anatema lanciato da Khomeini a Rushdie. Ma sia dove Rosselli lavora sulla materia compatta sia quando divaga in periferia, circola nei testi la stessa feconda insoddisfazione per il frammento narrativo, per il «racconto» che esso dovrebbe costituire.
Dall’una all’altra delle schegge rimbalza la stessa immagine forte di un io debole, attratto inevitabilmente da ciò che è «oscuro, sgusciarne come una biscia in uno stagno». E’ la difficoltà, anzi la quasi completa impossibilità di un rapporto di comunicazione tra il maschile e il femminile, appena addolcito dalle immagini della vecchia madre ostinatamente rivolta al futuro (mentre l’io narrante si avvoltola nei ricordi), della prima moglie percepita in un’affettuosa distanza di riconciliazione, di una fugace, fragile, dolcissima Franca, vero «uccellino scaruffato», «dolce approdo» appena intravisto. Nella metafora ossessiva dell’incontro che genera incomprensione e rancoroso fiutarsi, si annidano soprattutto le capriole dell’ io logorato da se stesso, condannato alla tortura della immobilità (la poltrona fin troppo, volutamente, simbolica), allo scarto tra l’ambizione dei progetti e la loro povera realizzazione quotidiana: un «io che ritmicamente medita sul suo essersi limitato, per decenni ormai, a rimanere seduto e melanconico» e che appare alla fine più serenamente disposto a sperarsi «invecchiato, sì: ma anche stagionato». L’impressione sarebbe di incompiutezza, di una frammentarietà che non riesce a collocarsi dentro le non molte pagine che distinguono il racconto da tutto ciò che, estendendosi o prolungandosi, lo negano alla radice. Ma per nostra fortuna, e soprattutto a discarico del narratore, Rosselli ha aggiunto una lunga «introduzione», un metaracconto – se così si può dire -che riprende i temi qua e là affioranti, con l’impudico coraggio di citarsi, come per stabilire il palinsesto che permetta di leggere i testi che seguiranno.
Lasciamo le intenzioni dichiarate, sempre pericolose in uno scrittore. Il momento “forte” del racconto è – appunto – l’apparizione di Elsie, segretaria appena intravista in un campus americano che, nell’unico incontro chiarificatore, vomita sul balbettante corteggiatore una sequela di improperi, segnandolo per sempre nella sua «diversità» («piccolo-borghese», «fesso, imbecille, sprovveduto, arteriosclerotico»). Elsie rappresenta il massimo di «avventura» che l’intontito professore del racconto nella sua vita cartacea, e lo scrittore nelle sue scelte progettuali, possono concedersi. Lo smacco di quella gratuita violenza verbale riconduce il professore alla nevrotica introspezione di sempre e Rosselli alla sua scrittura di lancinante approfondimento dentro l’esiguo spazio dell’interiorità, vera dannazione ma vera forza trascinante del suo ambizioso destino di narratore. Per quella sorta di affinità sotterranea che lega tutte le pagine di questo libro aumentandone l’agio della lettura, a questo smacco corrispondono le tragicomiche peripezie del protagonista di “Affacciato su un abisso”: vero Buster Keaton sfrattato e patetico che rivendica il diritto a «non essere nessuno», rintanato nella cuccia di una perenne indisponibilità al mondo che per di più sembra aver perduto l’entusiasmo della socialità e la spinta alla trasformazione politica. Un mito da cui non solo Rosselli è stato abbagliato. Grazie al racconto-introduzione, capiamo le ragioni più vere di questo libro così difficilmente necessario cui augurammo a suo tempo anche quel «successo» che Aldo Rosselli meritava davvero, oltre la stima critica che lo aveva sempre accompagnato. “L’apparizione di Elsie” (scrissi a suo tempo) era “ la prova generale, l’allestimento di quel romanzo, un grande romanzo di maturità, che ci aspettiamo da Rosselli ora che, con occhio straziato e impietoso, ha saputo intrecciare la naturalità di una «nascita» alla «oscurità» della memoria”. Non è stato così, lo sappiamo: ma “L’apparizione di Elsie”resta il libro di racconti più intenso di Rosselli che spero proprio torni a circolare in una nuova edizione, per far conoscere anche ai più giovani lettori questo autore il quale altrimenti rischia di essere un altro desaparacidos della nostra storia letteraria del Novecento che più conta.
3) Piace seguire Aldo Rosselli partendo proprio da dove egli ha fissato il suo momentaneo approdo. Cioè dalle pagine finali dell’intrigante (e per nulla disarmato come potrebbe far pensare una sua veloce lettura) scritto posto come luminosa postilla ad “Abitare questi anni”, uno dei quattro racconti di “Una limousine blu notte. Piace partire da “quel silenzio insistente, diffuso, da quella stanza vuota dove s’aggira il fantasma di un io che si chiede: “Di chi scrivere, adesso? Assenti, partiti, morti”. Lo scrittore che, grosso modo, corrisponde a questo io che scrive, ha fissato i termini del suo tortuoso camino giocando apertamente con la propria biografia, accettando in pieno il rischio del fallimento attraverso un’autoanalisi spietata, per nulla compiaciuta. Ha chiamato a raccolta “uno qualsiasi dei suoi tanti io” che grosso modo formano l’io che scrive. Ha seguito le piste dell’intellettuale che esce in limousine blu notte dalla casa della sua ultima fiamma; della voce che ha affidato a un telefono le sue responsabilità conoscitive nei confronti del mondo; dello scrittore alla disperata ricerca dell’ultimo epos letterario, “la mia Africa della Blixen”; del suo collega improvvisamente succhiato dal demone della riconoscibilità politica. Questo ironico e bruciante “serrate le fila” mostra le crepe dell’intero edificio. La vita resta mortificata in qualsiasi forma essa tenti le proprie tecniche di adattamento o di sopravvivenza. E il ridicolo turgore virile che sente l’uomo della limousine; è la voce riprodotta pronta alla mistificazione che la tecnologia legittima; è la passività senza riscatto dell’inquilina che ha visto la Blixen; è il dissennato e mitomane sogno di grandezza dell’intellettuale che “va al potere”. Avanza mostruosa, ipertrofica la letteratura nella forma di una traduzione corretta che non può concedere nulla se non un’estensione alla vita. Nella forma di un racconto che sedimenta lentamente, a fatica, proprio dove la biografia, la vita battono sul muro della loro impotenza. In fondo il rapporto tra l’intellettuale della limousine e la sua amante non è che il casuale rapporto tra uno scrittore e la sua traduttrice. In fondo l’inquilina è sempre più enigmatica e muta, il suo amante deve interpretare i suoi silenzi, deve inventarseli. A lui, lettore incantato di un mito letterario che ha trovato nella Blixen l’ultimo appassionato cantore, non resta neppure il piacere del rapporto con un involontario testimone. Quel testimone è davvero “involontario”, chiuso nella sua disattesa trasparenza, mima l’ennesimo impossibile rapporto d’amore. E chi attraverso la letteratura cercava l’amore illudendosi forse circa una possibile circolarità che dall’una porta all’altra e viceversa, annaspa nella palude senza più eroismi né grandezze di una voce letteraria sopravvissuta a se stessa, “ percorsa dalla mostruosa vitalità della metastasi insieme mimesi della morte e dell’allarmante esuberazione della vita quando essa si esaspera nella forma paradossale della malattia”.
Credo che in questo azzeramento finale, in storia, in questa ripresa della scrittura letteraria come indispensabile automatismo di cui ormai non si possono più prevedere né i percorsi né gli esiti, risieda il fascino segreto, l’enigma di questo libro , la ragione per cui esso effettivamente ci tocca e ci turba. Con questo enigma ha fatto i conti più volte Aldo Rosselli, e ogni volta la partita è sembrata che fosse chiusa e definitivamente. Questo enigma fa parte di Aldo, della sua tenera inquietante persona, dei fatti familiari e privati che ha alle spalle, della sua scrittura che cosi modernamente e ambiguamente si è incuneata in quel destino per porsi come impossibile misura di rappresentazione e di chiarezza. Ma lo smacco era previsto. La letteratura non consola né risarcisce, può al massimo rinviare all’infinito quella consolazione e quel risarcimento. Sullo scenario di un mondo privo di affetti e di personaggi (i cari personaggi in cui a volte può sopravvivere un’ ironica presenza stendhaliana) c ‘è soltanto, allucinante e beckettiano miraggio, un io che parla, cerca i suoi interlocutori, cerca di assestarsi in un gesto ,in una parola, in una frase.
Tutto, al termine della notte, è ancora in moto. Dopo le tante peregrinazioni dei tanti io che potevano coincidere con la vita che lo scrittore s’era trovato a vivere (e a deriderla, circuirla, distanziarla all’infinito) ora la maschera è davvero caduta. L’io è proprio quella voce di scrittore che vive rintanato in una piazza di Roma, nell’appartamento decrepito non c’è più “l’andirivieni di una volta”. E ci voleva tanto tempo e tanta letteratura per arrivare a questa estrema identificazione, tanta fatica esistenziale dentro gli utopici anni Sessanta? Con la condensata allusività dei suoi quattro racconti, riflettendo su di essi e quasi impastandosi in essi, Aldo Rosselli dice che sì, erano necessari tanto tempo e tanta letteratura per arrivare proprio la dove qualcosa appare finalmente, e drammaticamente, immodificabile.
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Renato Minore, critico letterario del «Messaggero», alla poesia ha dedicato moltissimi articoli e saggi nonché programmi radiofonici e televisivi. Ha pubblicato i romanzi Leopardi. L’infanzia, le città, gli amori (Bompiani, 1987), Rimbaud (Mondadori, 1991), Il dominio del cuore (Mondadori, 1996) e le raccolte poetiche Non ne so più di prima (Edizioni del Leone, 1985), Le bugie dei poeti (All’insegna del pesce d’oro, 1993), Nella notte impenetrabile (Passigli, 2002), I profitti del cuore (Scheiwiller, 2005). Per i suoi libri, tradotti in più lingue, ha vinto il Premio Campiello, il Premio Estense e il Premio Flaiano.
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ELÈNA MORTARA
RITRATTO DI ALDO ROSSELLI
Tre anni fa dopo lunghi anni di malattia sopportata con coraggio, moriva a Roma lo scrittore Aldo Rosselli, intellettuale sensibile e raffinato la cui opera di narrativa e acuta riflessione critica meriterà di essere studiata e inserita nella storia della letteratura italiana più di quanto non sia avvenuto finora. Nato a Firenze nel dicembre 1934, era figlio di Nello Rosselli, lo storico del Risorgimento, antifascista, assassinato in Francia insieme al fratello Carlo da sicari del fascismo italiano nel 1937.
La nonna paterna Amelia Pincherle Rosselli, lei stessa scrittrice e madre amatissima di ben tre figli morti “per la patria” (il maggiore, Aldo, era caduto volontario nella I Guerra Mondiale, e di lui il nostro portava il nome), fu influenza fondamentale e figura di riferimento per tutta la famiglia anche negli anni a seguire, durante il lungo esilio dapprima in Svizzera e Inghilterra e poi negli Stati Uniti, e infine nel ritorno in Italia nel dopoguerra. Nel 1956, a poco più di vent’anni, Aldo fu socio fondatore insieme all’amico Roberto Lerici della rinnovata casa editrice Lerici, che fino ad allora si era occupata di opere scientifiche, e che i due amici trasformarono in casa editrice letteraria, aperta alle letterature del mondo. Grazie alla sua sensibilità di lettore e ai suoi contatti americani, nella sua veste di editore il giovane Rosselli diede un contributo di straordinaria importanza alla conoscenza italiana di grandi scrittori quali Henry Roth e Isaac Bashevis Singer, che fu appunto la Lerici a pubblicare per la prima volta in Italia all’inizio degli anni sessanta: “Satana a Goray” di Singer uscì da Lerici nel 1960, “Chiamalo sonno” di Henry Roth nel 1964. I molti ammiratori di questi scrittori, tra cui chi scrive questa nota di addio, non possono che essere grati alle edizioni Lerici e ad Aldo Rosselli per questa opera pionieristica, finora poco a lui riconosciuta. Nel breve arco di vita della rifondata casa editrice, 1956-1967, molte altre furono le voci importanti a cui la Lerici diede ospitalità per la prima volta in Italia: basti pensare tra gli scrittori di lingua italiana a Edith Bruck (come noto di origine ungherese, i cui primi due romanzi uscirono appunto da Lerici) e a Dacia Maraini, e tra gli stranieri a Roland Barthes, Witold Gombrowicz, Norman Mailer, per citarne solo alcuni.
Negli anni sessanta, con il graduale esaurirsi dell’attività editoriale, aveva inizio la produzione narrativa (e talvolta anche saggistica) di Aldo Rosselli scrittore, a partire dal romanzo “Il megalomane” (Vallecchi, 1964), seguito da “Ottoz” (1968), “Professione: mitomane” (Vallecchi 1971), “Episodi di guerriglia urbana” (Marsilio,1972), “La trasformazione” (Coop. Scrittori, 1977); “Psichiatria e antipsichiatria nel sud” (Lerici, 1978); “Zefiro” (Rizzoli, 1982); “La famiglia Rosselli” (Bompiani, 1983), “Una limousine blu notte e altri racconti” (Belforte, 1984), “A cena con Lukacs” (Theoria, 1986), “Il naufragio dell’Andrea Doria” (Bompiani,1987), “L’apparizione di Elsie” (Theoria, 1989), “Una favola a metà” (Giunti, 1994), “La mia America e la tua” (Theoria, 1995), “Dalla parte opposta della strada” (Empirìa, 1995), “Prove tecniche di follia” (Empirìa, 2000); “Boston, l’Aventino” (Empirìa, 2007): non soltanto romanzi, ma anche racconti lunghi e saggi-racconti, spesso segnati da una straziante ispirazione autobiografica, sovente narrazioni di nevrosi individuali, di coppia e collettive, che, come detto, meriteranno una lettura più attenta da parte della critica; così come la meriteranno le sue generose battaglie civili e iniziative culturali, inclusa quella più tarda di fondazione del quadrimestrale di cultura “Inchiostri”.
E’ noto il ruolo storico di Nello Rosselli, padre di Aldo, nel dibattito giovanile ebraico-italiano degli anni venti del Novecento. Il sentimento ebraico fu molto forte anche in Aldo, seppur spesso nascosto nelle pieghe della scrittura. Per chi voglia seguirne alcune espressioni, segnalo in particolare due testi: innanzitutto, nella bella raccolta “Una limousine blu notte”, il saggio-racconto di riflessione autobiografica sulla propria scrittura “Abitare questi anni”, in cui lo scrittore ha confessato in modo struggente i problemi posti ad un narratore ebreo italiano dall’assenza di una lingua dell’ebraicità analoga allo yiddish degli scrittori ebrei americani, in cui manifestare linguisticamente il proprio rapporto con il proprio ebraismo interiore; e, nel più recente volume “Boston, l’Aventino”, il racconto “L’anno 1938 del Professor Zabban”, storia del viaggio di ritorno di un giovane ebreo da Parigi alla città natale di Firenze, nell’anno delle Leggi Razziali anti-ebraiche emanate dal fascismo e dell’inizio delle persecuzioni.
Venerdì mattina, 4 Ottobre 2013 nel cimitero ebraico del Verano di Roma, si sono svolti i funerali di Aldo Rosselli. Il feretro è stato deposto nella tomba di famiglia, ove riposa anche la nonna Amelia, e dove Aldo desiderava poter giacere nel suo ultimo sonno. La tomba si trova all’ombra di un maestoso cedro del Libano, circondata da fitta vegetazione, ed è sovrastata da una grande pietra nera dalla forma selvaggia in cui sono incisi altri nomi di famiglia. All’ultimo saluto erano presenti tutti i fratelli, Paola, Silvia e Alberto, due dei tre figli, Giacomo e Monica, la prima moglie Emilia Noventa, rappresentanti dei Circoli Fratelli Rosselli di Firenze e Torino, il critico Renato Minore, insieme ad altre persone di famiglia ed amici: in tutto una trentina di persone. Alcune parole in ricordo sono state pronunciate da alcuni, all’ombra del grande cedro in una limpida giornata di sole.
Chi ha conosciuto Aldo Rosselli difficilmente potrà dimenticarne il lieve sorriso (“in quei sorrisi tenui”, ha scritto anni fa Igor Patruno, “brucia la complicità dell’adolescente con le tasche piene di disobbedienze e ‘giuste’ riserve mentali”), l’arguzia della conversazione, la dolcezza dei modi, la libertà di pensiero, il sostanziale anticonformismo, l’autoironia e l’intelligenza, e il modo in cui questi tratti e i traumi sottostanti si sono travasati nella scrittura e nell’azione culturale di colui che è stato felicemente definito (dal sociologo Carlo Bordoni) “uno scopritore perfido delle pieghe ambigue della realtà, e della mente umana” e un coraggioso “profanatore dei luoghi comuni”. Nel commemorare la morte dello scrittore, la Fondazione Circolo Fratelli Rosselli di Firenze ha scritto che questi “ha portato con onore il cognome dei Rosselli testimoniando nella sua vita i valori di Giustizia e di Libertà”. Pur senza enfasi, che mal si addice allo stile di questo uomo raffinato e gentile, questo giudizio può essere serenamente sottoscritto.
Elèna Mortara Di Veroli
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Elèna Mortara, la cui nonna paterna Emilia era cugina prima di Carlo e Nello Rosselli, è docente di Letteratura angloamericana nel Dottorato in Studi Comparati dell’Università di Roma Tor Vergata. Tra le sue molte pubblicazioni vi sono il libro Letteratura ebraico-americana dalle origini alla shoà. Profilo storico-letterario e saggi (Roma, Litos, 2006), decine di saggi su scrittori ebrei americani del Novecento, alcune traduzioni, studi su autori americani e inglesi dell’Ottocento, e il volume, uscito in America, Writing for Justice: Victor Séjour, the Kidnapping of Edgardo Mortara, and the Age of Transatlantic Emancipations (Lebanon NH, Dartmouth College Press, 2015), cui nel 2016 è stato conferito il premio europeo “American Studies Network Book Prize 2016”. Il suo ricordo di Aldo Rosselli, qui rivisto solo nelle sue indicazioni temporali, è uscito per la prima volta il 6 ottobre 2013 sul quotidiano online “Pagine ebraiche-24”, edito dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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RENZO PARIS
RICORDO DI ALDO ROSSELLI
Ho sulla mia scrivania “La mia America e la tua”, appena ristampato da Fahrenheit. Aldo racconta la sua traversata dell’atlantico da ragazzino insieme a Amelia, mentre i siluri dei sottomarini nazisti erano puntati su tutto quello che muoveva quelle acque. Si salvarono perchè il capitano aveva spento i motori e al buio fitto i piccolo Rosselli erano tutto un sudrore, Poi, arrivati a N.Y la sorpresa dei compagni di scuola che lo appellavano “sporco ebreo”e lo strattonavano. Il libro parla anche della sua America da adulto, quando conobbe gli scrittori più in voga del momento, inseguendo donne meravigliose che lo fecero soffrire.
Sulla scrivania ho anche “Prove tecniche di follia”( Empiria) dove c’ è un capitolo strepitoso dedicato a Amelia Rosselli di cui ho iniziato a scrivere la vita. Tra questi libri si affaccia il ricordo del giorno dei suoi funerali al Verano, nella cappellina ebraica, tra zanzare ferocissime che assalivano le gambe nude delle poche donne presenti. Mi colse una malinconia terribile quando mi accorsi che il discendente dei fratelli Rosselli, barbaramente uccisi dai fascisti in Francia, non era stato degno nemmeno della presenza di uno straccio di politico italiano, anche di quelli stipendiati come antifascisti. C’erano i figli, i familiari e pochissimi amici.
Aldo era una persona squisita, un amico fedele che ti stupiva con gli inviti alla parca cena solo per conversare. La prima rivista a cui mi invitò a collaborare e ad essere redattore si chiamava “Tabula”, che, come le altre che seguirono, dopo pochi numeri chiuse. Vi collaborarono le migliori menti del tempo, da Porta a Raboni a Tabucchi. Il titolo lo aveva trovato Amelia e ne andava fiera. La prima volta che l’ho visto fu a via Galluppi in Prati, dove ero andato ad abitare appena sposato. Mi portò il suo romanzo “Ottoz”. Aveva una conoscenza della letteratura anglosassone di prima mano. Quando lo incontravo a casa di Moravia, era tutto un citare nomi e luoghi, americani, ma anche oggetti, come un orologio Patè che aveva al polso e di cui si vantava di averlo comperato a Londra.
Conosceva i migliori alberghi delle metropoli del globo. Dopo lunghi silenzi di anni, in seguito all’assassinio dei Rosselli, Aldo era tornato amico del grande romanziere Moravia, così come sua cugina Amelia. Ogni volta che rileggo un libro di Aldo ammiro il suo stile interiore, dettagliato fino all’ossessione. Era l’interpretazione della realtà che lo interessava. Poi spariva per qualche tempo, ricoverato in cliniche sui colli romani. Com’erano veri quei baci sulle guance che dava a ogni saluto.
La sua conversazione era piena di aneddoti gustosi su personaggi leggendari che aveva incrociato nella sua turbinosa vita. Aveva fatto l’editore , stampando autori importanti. Aveva il culto dell’amicizia e dei giovani letterati di cui da ultimo si attorniava. Peccato che il nostro paese si sia dimenticato di tutto il suo migliore passato. Perché non c’è ancora un meridiano dedicato alle sue opere complete? Quando ancora dobbiamo attendere?
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Renzo Paris è nato a Celano nel 1944. Poeta, narratore e critico, ha pubblicato diversi romanzi, da “Cani sciolti” a “Il fenicottero”a “Pasolini ragazzo a vita”. Ha pubblicato due libri di poesie: “Album di famiglia” e “Il fumo bianco”. Su Moravia ha scritto “Una vita controvoglia” ,”Alberto Moravia” e “Ritratto dell’artista da vecchio”.
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SANDRA PETRIGNANI
L’UOMO CHE SCAMBIO’ IL SUO CALZINO PER UN CAPPELLO
Il nome di Aldo Rosselli evoca subito in me la giovinezza. Per la ragione ovvia che, quando l’ho conosciuto, tanti e tanti anni fa, io ero giovane, sui venticinque anni più o meno, ma soprattutto perché anche Aldo – pur contando quasi due decenni in più – era giovane. Sì, da lui la giovinezza sprizzava come il getto allegro di una fontana, perché era giovane dentro, aveva uno spirito eccentrico, esuberante, generoso. Era maniacale ed entusiasta. La sua vasta cultura non pesava come un macigno che frena, ma invece lo spingeva verso la ricerca, il nuovo, l’inusuale.
Così come la tragedia della sua famiglia non pesava mai nelle sue parole e sulle sue amicizie; era una crepa segreta, che accendeva in lui stranezze e malinconie, ma per niente al mondo ne avrebbe fatto un vanto e tantomeno una croce.
Quanto poco sappiamo delle persone che incrociamo nella vita, e adesso – se devo scrivere di Aldo, della persona Aldo, non dello scrittore di cui diranno meglio i critici – mi si affolla in testa la schiera dei ricordi confusi e frammentari senza che io riesca ad allinearli in una sequenza coerente. Aldo che legge le prime cose che vado scrivendo e m’incoraggia, Aldo che mi trascina a teatro a vedere gli spettacoli più interessanti, Aldo circondato da donne bellissime, Aldo sempre un po’ innamorato di queste donne bellissime e da loro amato pazzamente, Aldo che contribuisce con i suoi libri al successo della giovane casa editrice Theoria che un manipolo di giovani intellettuali senza una lira e pieni d’ingegno ha fondato a Roma nei primissimi anni ’80: A cena con Lukàcs 1986, L’apparizione di Elsie 1989, La mia America e la tua 1995. E improvvisamente mi sento invasa dalla nostalgia, nostalgia di Aldo e insieme di quel periodo promettente e disordinato dove una persona come lui, una persona capace di potenti dissipazioni e totalmente incapace di calcolo, era la benvenuta.
A casa sua, in piazza in Piscinula, uno dei cuori dell’antica Roma, in Trastevere, s’incontravano scrittori e intellettuali delle più diverse inclinazioni, italiani e stranieri, tanti americani, soprattutto tanti americani, e le solite bellissime donne, e le finestre che davano sulla piazza erano illuminate e da sotto vedevi e sentivi l’allegra baldoria di quegli incontri dove si mangiava in piedi con distrazione condiscendente e invece accanitamente si parlava si parlava si parlava, di letteratura, di teatro, di cinema, e passava Moravia, trascinando la gamba zoppa su per le scale senza ascensore, sbuffando con la sua aria annoiata di sempre e i suoi dolcissimi occhi attenti di sempre.
Un giorno Aldo mi raccontò, forse proprio dentro una di quelle feste, di una passeggiata su un ponte nei suoi amati Stati Uniti, non so più in quale città, ma qualcosa mi dice che fosse il ponte di Brooklyn, perché il nome risuonava mitico e desiderabile alle mie orecchie – non l’avevo ancora mai visto se non su uno schermo – e la città quindi doveva essere New York e ora riesco a visualizzare la scena come allora: vedo quel piccolo uomo rotondetto, tentato forse dall’acqua, in mezzo all’immensità della natura e alle giganti strutture d’acciaio. Si era, infatti, fermato a guardare il fiume, l’East River certo, scorrere sotto e d’improvviso si era accorto, nell’infuriare del vento, di essersi infilato in testa, invece del solito berretto, un calzino! Per distrazione, per allegria, e ora quel calzino non lo proteggeva per niente dalle raffiche: ed era questo il problema che stava cercando di comunicarmi, non la città e i suoi simboli, non la memoria di una passeggiata speciale, ma l’elemento buffo del ricordo, che tanto precisamente lo rappresentava. Mi stava dicendo qualcosa di profondo di sé.
C’è tutto Aldo Rosselli in questa scena, uomo piccolo e tondo, solo sul Ponte di Brooklyn, con un calzino in testa. C’è tutta la sua naufraga allegria, quella che possiedono i veri disperati, le persone intelligenti e ferite, anticonformiste e troppo argute per lasciarsi cogliere da un estraneo, o persino da un amico, mentre si leccano le ferite. Quell’uomo, che aveva scambiato il suo calzino per un cappello, era uno che non sapeva e non voleva fingere, era se stesso sempre, e sempre si dava autentico nelle sue rappresentazioni di sé. Con la mitezza dei suoi occhi chiarissimi, del suo volto pieno e pallido, del suo ciuffetto ribelle in cima al capo che perdeva i capelli.
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(Nata a Piacenza nel ’52, vive in tre posti per lei imprescindibili, la campagna umbra, Roma e la Maremma toscana. Ha scritto un po’ di libri cui non dà più molta importanza. Comunque il catalogo è questo: E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma (Laterza): dove compare anche Aldo Rosselli. La fiaba illustrata Elsina e il Grande Segreto (Rrosélavy), Dolorose considerazioni del cuore (nottetempo), Ultima India, Care presenze, Addio a Roma, Marguerite, Il catalogo dei giocattoli e, appena uscito in tascabile, La scrittrice abita qui: tutti editi o riproposti da Neri Pozza).
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SANDRO PERTINI E ALBERTO MORAVIA
DUE IDEE STRIDENTI
A seguito di una recente conversazione con Giacomo Rosselli su questa tema, poiché mi ero consultato con lui dicendogli che avevo deciso di inserire i due testi in questo speciale , anche perché il libro “Famiglia Rosselli” è espressamente stato dedicato da Aldo “a Monica, Giacomo e Niccolò” i suoi tre figli, e dunque rientra in una loro particolare “giurisdizione” per chi la voglia riconoscere, e avendomi Giacomo espresso le sue idee riconoscendomi nel contempo piena libertà, con ciò stimolandomi a una ulteriore riflessione sulla questione, ho deciso di scrivere una nota sul perché di queste due testimonianze in questo speciale su Aldo.
Ho voluto riportare in questo Omaggio ad Aldo Rosselli due testimonianze scritte per il suo libro “Famiglia Rosselli” da due Giganti del 900. Innanzi tutto perché la statura di queste due persone può servire in qualche modo per misurare la statura di Aldo Rosselli stesso: Sandro Pertini e Alberto Moravia. Ma di questo confronto sullo stesso oggetto mi interessava altro. Dunque Perchè? Perchè le due riflessioni sul libro e sulla vicenda “Famiglia Rosselli” sono antipodiche e stonatissime, stridenti direi l’una con l’altra, e specialmente quella Moraviana è ferocemente distruttiva di ogni dimensione Eroica che invece è costitutiva della testimonianza di Sandro Pertini sul libro “Famiglia Rosselli” e rappresentano insieme una scelta editoriale perfettamente consapevole da parte di Aldo, dimostrando con ciò l’altezza del suo ethos politico, del suo anticonformismo autentico e militante, assolutamente spurio da ogni forma di autocompiacimento, e della sua rara forma mentis in cui autoironia e autocritica erano processori inarrestabili dell’esistente capaci però di estrarre infine l’essenza più pura della tragedia storica. Infatti qualsiasi persona che avesse voluto in qualche modo speculare sulla fortuna delle proprie disgrazie – mi si permetta questo ossimoro- beandosi nella figura di vittima della storia, avrebbe certamente evitato di lasciare la parola a una dissacrazione feroce e quasi isterica, tuttavia contenente cruciali precisazioni sul rapporto ideologico tra fascismo e nazionalismo risorgimentale borghese, quale quella, quasi sfuggita, verrebbe da dire, alla penna di Moravia sul libro, cosi riduttiva soprattutto sulla vicenda realmente Eroica, non immaginata, non appartenente a figure create dall’arte, narrata dal libro di Aldo Rosselli e sulle figure di questa storia che Moravia, verrebbe da dire , con la massima cautela e rispetto, quasi appiattisce in modo semplicistico disegnandoli come personaggi diretti da mere pulsioni interiori a cercare fuga nell’azione. Riflessione dunque quella di Moravia, che acuta sul piano della storia, sembrerebbe invece sporcata da un rumore di fondo dell’inconscio senso di colpa che Moravia, molto probabilmente, cosi andavamo riflettendo con Giacomo, si era dovuto portare dentro per tutta la vita sulla vicenda dei due Eroici cugini assassinati, soprattutto rispetto al suo essere scomparso, al suo essersi defilato dal sostenere, anche solo moralmente, una famiglia restata ormai solo di donne e bambini circondati da nemici pronti a tutto, quando qui riflette sul piano di quelle figure umane che lo coinvolgono , lui si invece, psicologicamente in un disagio da cui evade con la semplificazione e con la sottovalutazione, ponendo a origine di tutta questa tragedia –che ha invece coinvolto il mondo intero tanto poco personalistica era e semmai profeticamente vissuta in anticipo sui tempi dai Rosselli, per poi sfociare nel secondo conflitto mondiale- semplicemente un rapporto fallimentare e problematico, quasi trattasse di personaggi di un suo romanzo.
Dunque la decisione presa di pubblicare insieme queste due testimonianze sul libro più dolente di Aldo, vista la materia palpitante di una ferita non rimarginabile, (la categoria della ferita non rimarginabile, o irreparabile, attraversa come figura tutta la scrittura di Aldo rosselli) e tragica, della portata di una moderna Orestiade, dimostra come un esperimento scientifico, la natura della Weltanschauung di Aldo Rosselli. Amelia Pincherle Rosselli fu profondamente ferita dal silenzio, dalla distanza e dal comportamento di Alberto Moravia, che ella aveva profondamente amato e di cui si era sempre presa cura come un quarto figlio, nei confronti dell’assassinio dei suoi figli, cugini carnali di Alberto Moravia. E questo “tradimento” di Moravia della famiglia Rosselli, ancora oggi, come mi esprimeva Giacomo, figlio di Aldo, nella contemporanea famiglia Rosselli, è appunto ricordo doloroso e presente.
Ben presente , egli tuttavia di Moravia ammirava realmente il genio, e a questo dava priorità assoluta nel senso di una profonda amicizia intellettuale con il cugino, lo era dunque anche ad Aldo, il tradimento. Le due figure di questi redattori di una riflessione su “Famiglia Rosselli” però, posti come due leoni di pietra di opposta polarità sulla monumentale tomba eroica di questa narrazione, innescano un dialogo strutturato secondo le fondamentali leggi della dialettica, quella dialettica professata dai massimi esponenti della scuola di Francoforte, di cui Aldo era un catacombale adoratore – essendo essi cosi invisi alla ortodossia sociale dei salotti culturali contemporanei– e costruiscono nel campo di forze, che generano tra i loro segni completamente opposti, una energia di redenzione integrale del passato non come rimozione né come mero perdono, ma come presentazione del contemporaneo esistere degli opposti e della multidimensionalità del reale, per la cui rivelazione Aldo Rosselli rinuncia qui volontariamente a straordinari guadagni speculativi alla borsa, sempre in attivo, della retorica.
Pertini uomo d’azione ed eroe, esattamente come Carlo e, in modo diverso, anche Nello, sottotenente nella prima guerra Mondiale, insieme ad Aldo il primo dei tre fratelli Rosselli: concretamente eroi ed eroe, capace di rinunciare alla vita in un carcere speciale e al confino rifiutando di “sporcarsi” chiedendo grazia al duce, e poi combattente partigiano e Moravia sedicente scrittore del decadentismo, che con il fascismo ha scelto giocoforza , come la maggior parte degli intellettuali italiani di allora –importante, sulla vicenda, il bellissimo libro di Ruth Ben Ghiat sul rapporto tra intellettuali, artisti e fascismo: “La Cultura Fascista” Il Mulino anno 2000– di intraprendere con il regime , almeno nei primissimi tempi, una liaison dangereuse, e non aderente d’altra parte a nessuna forma sacrificale per uno scopo di liberazione, badante soprattutto nelle tempeste della storia a salvaguardare se stesso e la propria compagna, si, ma insieme a se stesso anche un patrimonio collettivo costituito dall’avere egli coscienza del proprio essere il romanziere e l’intellettuale Moravia appunto e marito della romanziera Elsa Morante, altro patrimonio, vivente allora, della nostra cultura; e che accede a altre ragioni esistenziali, lontanissime da quelle di Pertini, tuttavia importanti, se non necessarie, oltre che a mappare altre sfere e altre dimensioni dell’esistenza, specialmente quella psicologica, da cui partono impulsi che diventano anche terribili azioni storiche all’opposto dell’eroismo individuale, di violenza di massa, quali appunto i fascismi e i totalitarismi, le cui materie antropologiche erano già state isolate, con buon anticipo, dalla sua scrittura nel nichilismo amorale dei personaggi de “Gli indifferenti” e ancor più ne “Le ambizioni sbagliate”- e che è fondamentale sapere, ma anche importante contrappeso a bilanciare la forza dell’eroismo, come uno stabilizzatore di una materia altamente instabile quanto pericolosa quale è la dimensione e la sostanza arcaica delle azioni eroiche.-
E’ ovvio che in questo accostamento voluto da Aldo di due testi come questi, quello di Pertini come Presentazione e quello di Moravia come Prefazione, nell’aver deciso di pubblicare il testo di Moravia, che segue quello di Pertini, e quindi ha l’ultima parola, lasciando la più forte impressione, il proprio gusto, anche con ciò incontrando il favore inconscio della moltitudine, come Moravia, incapace per lo più di abnegazione di sé , si compie una scelta morale univoca, di matrice fortemente illuministica , eco di quella haskalah mendelssohniana che impresse le sue luci nell’intelletto Kantiano, ovvero sia di riconoscere una priorità alla necessità della conoscenza della complessità e della verità anche a discapito dei propri interessi e credo personali, ma soprattutto , in questo caso, anche dovendo perciò riattivare e sopportare il dolore di inguaribili ferite del proprio essere. Una scelta questa di Aldo di offrire la propria carne come campo di battaglia tra queste due completamente diverse Weltanschauung alla base di questi testi che è la dimostrazione vivente del coraggio tout court e della nobiltà sua e dei Rosselli. Amore della conoscenza. Si chiama filosofia. Ma è anche, attenzione, una sottile benevola e ironica vendetta su Moravia stesso, per chi lo capisce, messo in un confronto abbastanza imbarazzante a pensarci bene, su queste pagine con Pertini, entrambi viventi al momento di questa pubblicazione, alla cui sola azione – il primo fuggente in cerca di salvezza personale tra i monti della ciociaria, negli stessi giorni in cui il secondo, Pertini, già compagno di lotta degli assassinati fratelli Rosselli, affrontava con le armi in pugno, rischiando nuovamente la propria vita, il Nazifascismo- Moravia era debitore, come italiano, come ognuno di noi rispetto alla nostra storia patria, della propria dignità sociale e storica e della propria libertà.
David Colantoni
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SANDRO PERTINI
PRESENTAZIONE A FAMIGLIA ROSSELLI
Questo singolare libro di Aldo rosselli ha sollevato in me una profonda emozione. Ho rivissuto periodi interi della mia stessa vita: al fronte, nella prima guerra mondiale, ove fui sottotenente come il più anziano dei tre fratelli Rosselli, Aldo, caduto sul Pal Piccolo nel 1916, medaglia d’argento al valor militare; a Firenze, città in cui studiai e ove più vile ed infame fu la violenza fascista, più immediata e decisa la risposta antifascista di Carlo e Nello Rosselli, Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei e tanti altri confratelli e compagni di lotte e di esilio, di carcere e di confino; in quella Francia infine che ci fu seconda patria, pur essa scossa dalla febbre fascista diffusa da gruppusculi di una destra durissima ed omicida come quella italiana, costituita da Action Francaise, dalle croci di fuoco e soprattutto dalla tenebrosa e perversa Cagoule.
Credo che raramente coraggio e intelligenza, amor di patria, culto delle tradizioni civiche, fede nell’avvenire democratico si accomunarono in egual misura come nella personalità dei fratelli rosselli. A casa del loro nonno paterno, a Pisa, aveva chiuso gli occhi per sempre, sotto falso nome, Giuseppe Mazzini: il loro avo materno aveva difeso con Manin Venezia italiana nel 1848; Carlo e Nello, allievi di Gaetano Salvemini si segnalarono assai presto per un ingegno pronto e vivacissimo: dobbiamo infatti a Carlo la prima seria riflessione critica sul socialismo italiano scritta negli anni Trenta e a Nello alcuni saggi fondamentali per l’interpretazione del Risorgimento italiano.
Pari al loro livello intellettuale fu la dedizione alla causa della libertà : Carlo fu compagno con me, con Riccardo Bauer, Ferruccio Parri e Adriano Olivetti nell’organizzazione dell’evasione di Filippo Turati in Francia, evasione che partì da Savona, la mia città, ove avevo predisposto, con gravi rischi, i tempi e i modi dell’operazione.
Successivamente egli fu tra i principali promotori della colonna dei volontari italiani nella guerra di Spagna, nella quale cadde ferito a Guadalajara. Nello fu imprigionato e sorvegliato speciale, apparentemente meno esposto, ma saldamente legato al fratello e al movimento antifascista. La Cagoule, su madato dei servizi segreti, assassinò con ferocia a colpi di pugnale Carlo e Nello a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno 1937, così come i fascisti italiani, tredici anni prima, avevano massacrato a Roma Giacomo Matteotti.
La narrazione di questa straordinaria storia di famiglia, che spesso raggiunge accenti di raro pregio letterario, ruota attorno al personaggio di Amelia Rosselli Pincherle, la madre dei Rosselli, che sembra uscire dal turbinio degli eventi come l’eroina di una tragedia di Corneille. Fu sposa, madre, nonna sempre esemplare, scrittrice finissima, veramente meritevole di essere ricordata tra le grandi italiane di questo secolo.
Questa eccezionale vicenda familiare, che oggi sembra quasi costituire l’intreccio di un appassionante romanzo, resta nell’epistolario dei protagonisti, nei ricordi degli amici, nel sacrificio cosciente ed accettato con virile coraggio dai fratelli Rosselli, nella testimonianza alta, serena e nobilissima di Amelia Rosselli Pincherle, una delle pagine più belle e commoventi del secondo Risorgimento Italiano.
Sandro Pertini, Roma 11 ottobre 1983.
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ALBERTO MORAVIA
PREFAZIONE A FAMIGLIA ROSSELLI
Il Risorgimento era stato fatto da una borghesia che si illudeva di essere liberale ed era invece nazionalista. Il liberalismo , certo, c’èra, ma era anche gracile e privo di tradizioni, ristretto in pochi gruppi familiari. Dopo l’unità e fino alla prima guerra mondiale, la borghesia martellò il popolo con una propaganda agiografica di tipo nazionalista delle più illiberali. Dunque: molto irredentismo, alcune guerre coloniali perdute o vinte, e la fissazione che l’Italia un giorno doveva diventare in Europa, dopo la Francia, l’Inghilterra e la Germania, la nazione egemone.
Cinquant’anni di nazionalismo fanno si che quando esplode il fascismo, esso trova masse perfettamente preparate a riceverlo, cioè del tutto impreparate sul piano politico. Bisogna vedere il fascismo come un fenomeno di immaturità politica delle masse che per la prima volta si affacciavano, come si dice, alla ribalta della storia. Questo non toglie che Mussolini e i fascisti dicevano in piazza le stesse cose che per mezzo secolo la borghesia aveva detto nelle scuole nelle scuole coi libri di storia patria.
La famiglia Rosselli apparteneva alla minoranza sinceramente liberale. Era una famiglia con tradizioni risorgimentali ( Mazzini era morto in casa Rosselli, a Pisa sotto il nome di Mr.Brown) e il loro liberalismo aveva l’ingenuità politica che è propria di tutte le minoranze sprovviste di base popolare. Così quando venne il fascismo, essi non riconobbero in quella dittatura borghese che si serviva della esperienza socialista il frutto avvelenato dell’albero del nazionalismo risorgimentale. Ritennero di trovarsi di fronte ad una tirannide. Avevano ragione, era una tirannide, ma di carattere inedito, moderno, quella invocata e voluta dalle masse nel momento del loro apprendistato politico. Di qui la tragedia dei fratelli Rosselli, assassinati in Francia perché si erano opposti, in nome del liberalismo, alla demagogia fascista.
Questo libro di Aldo Rosselli ci mostra in queste pagine lucide e amare che alla origine della tragedia dei Rosselli c’è il rapporto dei loro genitori, di una donna rigida e sentimentale e di un uomo debole e artista. Il libro è anche per l’autore una specie di educazione sentimentale, cioè la storia della sua rivolta e finale liberazione dalla educazione familiare. Con intrepida analisi Aldo Rosselli ci mostra come dal giusto possa venire l’ingiusto, dal bene il male. Ma soprattutto da una temperie tutta privata una tragedia pubblica. La memoria ha assistito questo libro avvolgendo in un alone di fatalità le figure di Joè e Amelia, di Carlo e Nello, visti tutti quanti al tempo stesso fuori e dentro le mura.
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DAVID COLANTONI
ORAZIONE FUNEBRE PER UN MAESTRO
-Testo della orazione funebre per Aldo Rosselli che ho letto presso la casa editrice Empiria (ultima casa editrice di Aldo) l’11 novembre 2013 durante la serata di ricordo con amici intimi e familiari, il testo riprende i temi dell’orazione da me profferita il giorno della sua sepoltura al Verano.-
Noi siamo tante persone. Siamo tutte quelle persone, anche, che nascono dall’incontro con gli altri, e specialmente che nascono dalle domande che gli altri ci pongono, sia in senso letterale, sia come questioni più ampie concernenti lo stile della nostra e della loro vita, sia come desideri che ci chiedono di realizzare o che invece ci accendono dentro. Cosi possiamo meravigliarci ascoltando il racconto che altri fanno di quelli che noi conosciamo anche benissimo.
Può capitarci allora di udire cose che non corrispondono affatto alla nostra esperienza. Chiunque creda che la sua conoscenza coincida con il possesso dell’identità dell’altro sbaglia. Il cuore umano, diceva la dolce Hannah Arendt, è insondabile. Dico questo perché voglio che sia chiaro di quanto sono consapevole della peculiarità del mio rapporto con Aldo Rosselli, e che questo rapporto offre della storia dell’individuo solo una delle tante sfaccettature di cui sono capaci le persone.
Il mio discorso con Aldo è stato fondamentalmente incentrato sulla dimensione politica della condizione umana, La nostra prima discussione seria e profonda , e da cui germogliarono le radici di una lunghissima amicizia, avvenuta un pomeriggio del 1982 in una casa di Monteverde vecchio, fu intorno alle “Origini del totalitarismo” di Hannah Arendt, che io avevo appena iniziato a leggere, e in questo nostro dialogo politico, poi proseguito per tutto il resto della nostra esperienza di amici, la famiglia Rosselli e tutto ciò che intorno a essa aveva gravitato o con essa collimato, aveva ovviamente una grandissima rilevanza.
Questo perché quando 17enne sono arrivato a contatto con Aldo, –per la semplice casualità che egli allora era il compagno della madre di una mia compagna di classe al liceo– , percepivo l’asfissia della mancanza di una vera libertà che non fosse la libertà di spaziare nello sconfinato universo della merce della nostra era, dove finiamo per trovare sugli scaffali persino noi stessi. Ero asfittico ma inconsapevole e l’incontro con Aldo è stato il respiro e l’incontro, attraverso la sua narrazione storica anche con la gioventù , con un’altra modalità di essere giovani, che mi aveva preceduto al tempo dell’antifascismo e che poi generò, tra le molte cose, il movimento di Giustizia e Libertà. Ero avido di questo contatto, tramite Aldo, con la storia del mio paese. E ciò mi ha aperto una via di fuga.
Aldo non avrebbe mai scritto “famiglia Rosselli” se questa eredità non fosse stata un suo sentire cruciale la questione della condizione politica della vita, che egli aveva ereditato dal suo essere orfano di un padre assassinato dal fascismo. Perciò io credo che nella mia sete di questa dimensione politica, tramite la sua storia personale –dimensione quella biografica a cui Aldo attribuiva una importanza fondamentale nella questione della cultura e dell’arte , come voi tutti sapete e come la sua stessa letteratura testimonia– Aldo avesse trovato una importante corrispondenza ; che nella necessità di un giovanissimo di attingere formandosi alla sua biografia, che è ovviamente una cosa viva rispetto a un mero catalogo di fatti e date, anche come modello di resistenza e di esistenza, a sua volta egli vi avesse trovato l’apertura di uno spazio vitale alla realizzazione di questa sua dimensione a cui la nostra era, sordida di consumo e spettacolo, non offriva più nessuna relazione.
E’ cosa acclarata che oggi qualsiasi ragazzo sa’ chi è e quali gesta magnifiche ha compiuto un mafioso come Toto Riina, provate però a chiedere, fuori di un qualsiasi liceo o di una facoltà universitaria quanti conoscono i Fratelli Rosselli, Valiani, Rossi o Calamandrei, Lauro de Bosis e via dicendo. Provate. toglietevi questa curiosità. La cultura degli sconfitti, mi diceva sovente Aldo , era la cultura sotto il cui vessillo si erano battute le vite dei suoi cari padre e zio. Una cultura affine in terra alla siderale utopia, lotta sconfitta si , che non si trasforma mai nel suo opposto, nel potere, ma che tuttavia è capace di condizionare il proprio tempo con una fondamentale controspinta alle forze che lo vorrebbero crollare nei vari disastri della storia.
La serietà profonda con cui Aldo mi ha sempre compreso nel suo dialogo, fin da quando ero ancora adolescente, anzi soprattutto quando ero adolescente, questa solennità nel dialogare culturalmente con l’altro di cui egli era maestro spirituale, è stata il calcio delle mie ossa di uomo politico, di cittadino. Egli per me era come una radio libera durante il nazismo, una voce che faceva da bussola per orientarsi in questa vigente menzogna integrale di cui i pensatori di Francoforte aveano redatto una terrificante mappatura in “Eclissi della ragione”, o nella ” dialettica dell’illuminismo”per esempio.
Aldo di questa immaginaria radio libera, emittente da un altrove che indicava la libertà, aveva le stesse caratteristiche poi, sia per le cose cruciali, che potevo udire da lui, sia per la difficoltà a volte del comprenderlo a causa delle interferenze che la malattia mentale emanava sovraccaricando il suo logos di fantastico e incubi i quali si interconnettevano con il reale, nel suo streaming of consciousness, finendo per confondere chi non fosse stato attentissimo navigatore dei mondi che dalla sua spettacolare loquacità scaturivano, ibride dimensioni figlie di esperienza storia e di altri misteri.E tuttavia, anche durante le tempeste magnetiche delle crisi maniacali, si stagliavano come segnali morse, nitide nel rumore di fondo, cose di cruciale valore culturale e intellettuale sulle cose del nostro mondo e sulla nostra condizione di uomini.
Egli era per me con ciò un Maestro a tutti gli effetti. Una persona a cui sento di dovere la vita al cospetto di una pluralità di nemesi che la vita hanno tentato e continueranno a tentare di squalificarmela, cercando di farla cadere nelle segrete degli oscuri sensi di colpa di aver fallito qualcosa. Non dico questo per personalismo, dico questo per far comprendere come uomini come Aldo, sono uomini che possono generare salvezza, dico questo per far capire cosa ha sprecato questa ingenerosa nazione, che diventa sempre più idiota e moralmente imbecille, avendo relegato i suoi migliori nelle periferie resistenziali intorno alle sue orge spettacolari.
Dico questo per sottolineare la civica opera di formazione che egli fece con me, in quanto giovanissimo amico, per formarne un cittadino politico. Mi considero, ebraicamente parlando, la vita che egli ha salvato. Come ho fatto in tempo a scrivergli ringraziandolo di tutto prima che morisse. Aldo ebbe in serbo per la nostra 30 ennale amicizia una inesauribile eleganza, a cui farmi attingere per edificare un minimo di decenza personale, eleganza che non è affatto una condizione o materia dell’effimero, ma è il lato visibilmente bello della contemplazione attiva dell’altro, della compartecipazione all’umanità altrui, perche è effusione di un piacere che considera l’altro come destinatario di ogni suo sforzo, di ogni sua capacità di essere quella giusta misura tanto amata dai greci e mai l’eccesso plebeo dell’avventurismo capitalista.
Poter sedere con Aldo, parlare con Aldo, era sempre aver presente da dove egli venisse, ma anche da dove venivamo in quanto essenti un Noi, e comprendere che non era affatto spenta la radioattività delle conseguenze dell’assassinio dei suoi cari, e che questo assassinio aveva travolto anche il mio destino di giovane italiano, a cui il nazifascismo, come altrove queste stesse cose le aveva fatte lo stalinismo, aveva sottratto la possibilità di aver potuto avere quella classe dirigente che, come scrisse Calamandrei in “Uomini e citta della resistenza” uscito nel 1954, avrebbe trasformato la capacità del sacrificio della vita per la libertà, espressa nell’antifascismo e nella resistenza, parlo di chi avrebbe voluto l’epurazione del fascismo dalla vita politica post bellica, non di chi ci scese a patti per governare comunque, ma questa è altra e complessa questione, in una capacità di governo dall’altissimo profilo morale, incapace per vocazione della bieca corruzione che rappresenta lo stato di panico della nostra contemporaneità. E che la dittatura aveva voluto con omicidi estirpare ed estinguere dal futuro della nazione, come una vendetta preventiva sulla propria sconfitta, immanente nel suo carattere di nuda violenza: che Aldo fosse anche lontanissimo da tutto tutto ciò e anche oppresso da questo è certamente anche verissimo ma fa parte di altre sue figure, reali in altri rapporti.
Per me stare in rapporto con Aldo era stare presso il carattere terribile della storia, le sue non dissimili dalle pene di Oreste, per le implicazioni morali e politiche dell’essere egli un orfano di un cruento assassinio politico, la sua profondissima e interiormente lacerante pena appena percettibile sulle increspature azzurre della sua grazia mondana. Guardandolo a volte io sentivo nitidamente che il crimine che aveva mietuto quelle vite ormai antiche seppur tangibili, aveva come generato un muro d’aria distruttivo che aveva mandato in frantumi tutte le possibilità di ordine anche solo psicologico dei discendenti di questa famiglia come anche del presente storico in cui io avrei vissuto.
Il padre e lo zio di Aldo, se viventi, avrebbero avuto offerto dalla nazione il seggio della presidenza della repubblica ancora più di quanto la nazione lo aveva offerto a uomini come Sandro Pertini. Essi erano stati tra i primissimi a battersi contro la tirannide, a denunciarla, a insegnare con i processi che affrontarono in tutta europa contro il fascismo che le aule giudiziarie erano un luogo principe della politica, per la solennità che le parole hanno in un processo essendo iscritte d’ufficio nella storia di un paese. Nella prima schiera tra quelli che pagarono subito e con la vita. Ancora prima Mazzini, come tutti ricordate Repubblicano, ricercato dalla polizia regia, era stato nascosto dai Rosselli, protagonisti di primo piano anche del Risorgimento, in casa loro a Pisa, e li si era spento.
Questa memoria di fatti, questo monumentale vortice storico, tra Risorgimento e Resistenza, vorticava nell’essere di Aldo, ne faceva alzare la frequenza del suo sguardo interiore fino alla incandescenza, generando come un polo di antimateria che lo spingeva con la propria potenza nell’universo del presente in modo dialettico. Da questa mia passione per la mia e sua storia, mia come italiano e sua come membro di una famiglia ebraica, altra implicazione questa di cui avrei voluto parlarvi se avessimo avuto tempo, che politicamente aveva agito per costituire la nostra identità nazionale, io credo egli fosse in qualche modo chiamato, o meglio richiamato a essere quella persona politica intensa e serissima che egli era nella sua più intima essenza, che egli è stato con me in questo suo raccontarmi la storia, in questo suo spiegarmela e in questo suo accettare che io la mettessi in discussione ogni volta che ne avevo bisogno. Così come da altri rapporti suppongo sia stato chiamato a essere anche tutte le altre persone che noi siamo , persino il malato tout court.
Aldo mi ha offerto l ‘esperienza unica e straordinaria di passare negli anni scorsi , molto tempo insieme a lui in quella che fu la casa di suo padre a firenze, l’Apparita. Dove ho potuto studiare nella immensa e incredibile biblioteca di Nello Rosselli, potendo aprire le prime edizioni di Cavour, sulle quali si era formato lo storico del risorgimento che fu suo padre e passando le notti , a guardare con incanto le fotografie di Maria e Nello appena sposi, pochi anni prima di essere raggiunti dalla devastazione della criminale esecuzione a morte del fascismo, ancora nei cassetti dei comò, documenti e biblioteca oggi acquisiti dalla Fondazione Rosselli. E Ricordo Maria Rosselli, che ho avuto il privilegio di conoscere, chiusa, come in un’altra dimensione, restata come congelata in un tempo remoto indelebile, nella sua camera, come aspettando l’appuntamento con l’uomo bellissimo e puro che era stato suo marito, che si sarebbe realizzato nel morire finalmente.
Insomma Aldo mi ha letteralmente cresciuto e per me è stata la figura più importante della vita in rapporto alla dimensione della cultura e dei sensi che da essa discendono nella vita stessa. La cultura dovrebbe trainare la politica, mai il contrario diceva sempre. L’ ultima rivista che ha fondato inchiostri, nata nel XX° secolo e morta nel XXI°, in cui ho potuto, insieme agli altri, esistere e restare storicizzato come giovane scrittore e intellettuale, fu questo tentativo di suggerire , di parlare culturalmente alla vita politica del paese.
Questa consapevolezza della cultura come costruttrice di mondo politico e sociale, come arma di lotta , come generatrice dei desideri della volontà, Aldo la aveva avuta trasmessa appunto da tutta questa dimensione, dal retaggio di cui ho fin’ora parlato, pensiamo alla rivista gobettiana “la rivoluzione liberale” , a cui collaborò giovanissimo Carlo, avanguardia assoluta dell’antifascismo, al «Circolo di Cultura» intorno a Gateano Salvemini in cui insieme ai Rosselli pensarono e agirono Alfredo Niccoli ed Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Gino Frontali e Piero Jahie , Enrico Finzi e Ludovico Limentani, e altri ancora, o pensiamo al foglio clandestino “Non Mollare”.
Ecco pensiamo a questi semi piantati nella più profonda sostanza morale di Aldo se vogliamo capire l’ostinazione caparbia con cui egli, tenendo testa per quasi 60 anni alla malattia psichica, oltre ai suoi quasi venti libri scritti in 50 anni, ha avviato la casa editrice Lerici quando poco più che ventenne venne in possesso dell’eredità paterna, e diverse riviste, ultima quale appunto Inchiostri, e se vogliamo capire la necessità inderogabile che Aldo aveva di fondarle, e di costruire con ciò dei collettivi di pensiero, in cui avere un vita inter homine esse, come esseri politici , vere e proprie sfere pubbliche, piccole e intense democrazie ateniesi.
Ecco i miei quasi 30 anni di fitto rapporto con Aldo, hanno avuto come zenit tutta questa dimensione. E intorno una costellazione di altre esperienze culturali e esistenziali e sempre per me costitutive. Probabilmente con calma ognuna delle persone che gli sono debitrici delle molte cose ricevute, costruiranno una più solida e dettagliata testimonianza della loro rapporto con lui, che oggi è appena e soltanto l’inizio di una riflessione, come avrebbe potuto egli dire , vista con “il binocolo rovesciato”.
Io ci tenevo particolarmente a dire questo, a ricordare la grande dorsale storica e tragica che ha attraversato e conformato, anche in maniera carsica e segreta, tutto il tempo delle sua esistenza.
Ottobre 2013
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LA QUESTIONE DELLA MANCANZA DELLE ISTITUZIONI ALLE ESEQUIE DI ALDO ROSSELLI – UNA MISERIA ITALIANA
“Caro David, ti ringrazio per avermi inviato il tuo testo ( credo uno dei molti ) dedicato ad Aldo Rosselli. E’ bello e ricco come una borsa strapiena e ho cercato di non perdere nulla dei pensieri- ricordi – attese che scorrono come un torrente di convinzioni appassionate. Per quanto riguarda la Storia e la persona ( e le persone, le vicende, le immagini, le occasioni, gli eventi, le evocazioni ) per me è facile condividerne il senso e, credo, il valore. C’è, d’altra parte qualcosa di molto più personale che riguarda l’accendersi e il durare di un rapporto unico, che è un privilegio non facilmente comunicabile. Di qui la tensione e lo sforzo che sento nell’impeto del tuo scrivere. (…) “
da una risposta ricevuta da Furio Colombo nel 2013 rispetto alla vicenda della morte di Aldo
Purtroppo il mio, nonostante l’ottimismo positivo di Furio Colombo, fu allora uno dei pochissimi e non dei “molti” testi su Aldo, cosa che oggi con questo speciale in sua memoria cerchiamo di riparare. (segnalo tra i pochissimi testi in sua memoria allora quello di Carlo Bordini “Aldo Rosselli, par Carlo Bordini“)
E certamente la ignobile questione dell’assenza istituzionale alle sue esequie renderebbe tutt’oggi necessarie esposizioni morali e politiche contro chi ha mancato ai propri doveri, soprattutto di formazione, con ciò, delle giovani generazioni a quei valori ai quali soltanto possiamo affidare la missione di una qualche salvezza, un vero è proprio tradimento questo, esposizioni per cui i soggetti pubblici del nostro tempo purtroppo non hanno la minima tempra necessaria ad affrontare, essendo la passione morale e civile, ormai vista piuttosto come follia e asocialità, come registrava Adorno 70 anni or sono già in “Minima Moralia”, da evitare come la peste quando non sia chiaro il loro essere invece strumento per arrivare al potere, cosa quest’ultima che gli animi e li rende disponibili, quanto meno aperti a vedere se possono fare un qualche commercio…
Ho interrogato –senza mai ricevere uno straccio di risposta– con decine e decine di mail, a dire il vero, il Comune di Roma, Il Sindaco ( meritevolissimo del suo cattivo Karma politico per questo) e l’allora Assessore alla Cultura (Flavia Barca) su questa omissione di memoria, su questa assenza, su questo gesto di disprezzo, e ho scritto credo a chiunque in Italia, certamente a tutta la stampa, fino al Presidente della Repubblica e al Presidente della Camera, anche qui senza mai lo straccio di una risposta, uno spettacolo di disprezzo del cittadino che non ha pari nei paesi civili, degno solo di un regno di trucida mafia.
Aiutato in questa battaglia di civiltà unicamente dalla giovane giornalista e filologa classica Silvia Buffo, a cui va la mia eterna gratitudine, che su un quotidiano on line ( unici luoghi dove oggi ancora succede qualcosa che non sia pianificato a tavolino dall’apparato dell’industria culturale) pubblicò allora, storicizzando tutto ciò, una nostra conversazione , nella speranza, rimbalzata sui muri di gomma, di smuovere una qualche coscienza, dove spiego le ragioni politiche morali e culturali della gravità della mancanza della presenza istituzionale a quel funerale –mentre lo stesso giorno, attenzione, veniva allestita al Campidoglio una camera ardente con picchetti di onore a Giuliano Gemma, restato ucciso in un incidente, e dove i rappresentanti istituzionali fecero passerella mediatica finendo su tutti i giornali. Mio Dio, non ho veramente parole per questa plebe della suburra politica. Per chi voglia approfondire ecco il testo di quella riflessione qui di seguito
«Assenza istituzionale ai funerali dello scrittore Aldo Rosselli, sepolto il 4 ottobre scorso nella tomba di famiglia al cimitero ebraico del Verano» articolo integrale 11 novembre 2013
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Ai tanti a cui ho scritto sulla questione della sua morte offesa dalle istituzioni assenti e che hanno fatto orecchie da mercante, dedicò Il Poeta questi versi a loro eterno epitaffio:
« E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?”.
Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.
E io: “Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?”.
Rispuose: “Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. »
(Dante Alighieri, Inferno III, 31-51)
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ALDO ROSSELLI
IL DELTA DEL DANUBIO
Racconto pubblicato sul numero 2/3 – anno 2000, seconda serie della rivista Inchiostri , diretta e fondata da Aldo Rosselli
Anche se appartenesse il Danubio ( e dovrebbe essere privatizzato in suo nome al grande triestino Claudio Magris…), all’autore, appunto dello straordinario racconto saggio “Il Danubio”- su quell’ineguagliabile serpente blu che magicamente striscia dalla sua sorgente fino ovviamente al suo Delta, ho ugualmente da dire qualche autobiografica parola ; per l’appunto…
Non un mero racconto, ma neppure soltanto una cronaca intorno a tre giorni e quattro notti, partendo dal porto brulicante e operoso di Tulcea per addentrarci in quell’enorme mappa acquatica di migliaia di minuti vicoli liquidi che tutti immettono in vasti e solenni corsi fluidi.
Forse un anno dopo la falsa “rivoluzione rumena” l’allora mia compagna Maries dagli zigomi distanti, quasi mongoli, un grande benché bistrattato poeta, di lei vecchio compagno universitario George Tarnea, l’ormai caro e quasi troppo intimo amico Ulic, presidente dell’Unione Scrittori e una bella e arrogante e spudorata quanto, dicevano, potente parlamentare e tenace sostenitrice dell’onnipresente presidente Lliescu, in realtà numero due dell’appena troncato regime di Ceausescu, avremmo preso il largo su una rumorosa barca a motore bialberi lunga una quindicina di metri.
Barca ambiguamente mitica, regalata in piena guerra, nel 1942, da Hitler al furher rumeno Antonescu: generoso dono che si immetteva nel delirio dei sommi nazisti quando, anche a causa dell’eroica difesa di Stalingrado, la loro macchina bellica cominciava seriamente ad incepparsi. Adesso di proprietà dell’unione scrittori, fornita di un cuoco-capitano e due marinai, oltre alle stranamente sontuose cabine immerse in ormai antiche ferrugini e scrostamenti in mezzo a cui tuttavia sopravvivevano parvenze di bucherellati quanto polverosi tappeti persiani, testimonianza di antiche sanguinose glorie.
Maries , vitale e imprevedibile quanto il cuore stesso della terra, si era, come al solito, impadronita di uomini e donne, e ( in questo caso) ferraglie, e praticamente danzava per i ponti, ilare ed elettrica, con noi ammirati spettatori mentre scomparivano alla vista gli ultimi futili trambusti del gonfio eppur depresso porto fluviale di Tulcea.
Seduto accanto alla parlamentare fedelissima di Lliescu, la interrogavo sullo stato del Paese, dell’industria, dell’agricoltura ai primi possibili fantasmi di democrazia. Lei, muta, mi guardava come si osserva un pazzo, impaziente quanto indifferente. Mentre io, infine, esasperato: “Lei deve rispondermi, io sono pur sempre un ospite ufficiale del suo Paese. Sono domande più antropologiche che politiche: quando tornerò in Italia dovrò pur riferire qualcosa”:
la parlamentare stringeva gli occhi, accarezzandoli con le mani ben curate. Murata in un silenzio di non più diplomatica ostilità. Andavo alzando la voce, causando in Maries, il poeta, Ulic, fibrillazioni di ansietà ora divenuti moti repressi di ilarità.
Intanto eravamo entrati nelle acque vere e proprie del Delta. Tutto intorno elegantissime piante di papiro ed altre esotiche che non riuscivo a riconoscere. Sulle acque quasi ferme sebbene limpidissime stazionavano a centinaia, placidi cormorani con i loro piumaggi delicati, da pastello. La barca giunse a pochi metri da loro , poi con un rumoroso schiamazzo s’alzarono rapidamente in volo. Lo stesso accade con torme di altri uccelli a me sconosciuti, acquattati sulle acque immobili: lo stesso senso di inusitato panico in quei piumaggi a volte multicolori. Tutt’intorno, a brevissima distanza, le grandi foglie preistoriche della migliaia di papiri e dei verdi intensi oppure lievi di fogliame d’altri alberi mai riscontrati su questa terra. La barca, rumorosa per un motore anch’esso quasi preistorico, ma ancora affidabile, procedeva nel violare le acque ferme e trasparenti da millenni. Piccoli canali le cui rive erano costituite da approdi di fanghiglia, e sui ponti della barca noi soliti come irrigiditi in una sembianza di eternità attraversata da inquietudini e smorzate vivacità, bipedi da sempre ruminanti pensieri senza mèta, fisiognomicamente unici eppure quasi identici visti dalle lontananze di altri occhi.
La tensione tra me e la parlamentare ( di una grezza eppure appetibile bellezza drappeggiata da foulard e blusa raffinata di seta) andava assolutamente aumentando: forse erano trascorse quasi due ore nel mezzo di questa bellezza extraterrestre. Poi forse lei non potendone più oppure timorosa di spezzare il suo testardo silenzio collegato da un invisibile filo a un suo ineludibile senso di diplomazia, avvistò un natante assai più grande del nostro pieno di turisti festosi. Con un imperioso gesto della mano lo fece arrestare. E con una impensabile agilità salto dalla nostra hitleriana barca sulla prua del natante che ravvicinato sembrava grandissimo. Eravamo anche noi al momento nel mezzo di un corso d’acqua assai più vasto e la agile sparizione ci restituì un quasi festoso sollievo. Maries rideva ( le turgide labbra incredibilmente allargate) come un monello. Tutti insieme iniziamo a parlare, sproloquiare. Solo il poeta, pallido, color di gesso come sempre con il suo dignitoso naso aquilino, continuava a guardare lontano, quasi ancora temesse il peggio, forse contemplando interiori ferite non più guaribili. Ulic gridò qualcosa nella sua lingua aspra al capitano. Forse avvertimenti per la cena ancora di la da venire. Spegnendo i motori ferruginosi in poche decine di metri eravamo fermi, gettati in un silenzio insieme paradisiaco e inquietante. I marinai emersero da uno stretto ponte inferiore, estraendo in un batter d’occhio lenze ed esche. Appena al di sotto del pelo delle acque adesso verde melmose abboccarono grossi pesci. Storioni, mi informarono, che con poche flessioni di polsi erano già sulla plancia della barca, in preda a mortuari movimenti di durata quasi minimale. Carne e uova di storione: una grande delicatezza, da grigliare per la cena. Ancora pesci, diversi, in straordinaria abbondanza, anch’essi caricati sulla barca, mentre nella cucina erano allineate bottiglie del più squisito bianco rumeno.
Il cielo appena accennava al crepuscolo, il convivio era ancora lontano. Ulic e Maries intavolarono un fitto conversare che indovinavo imperniato su letteratura e i cosiddetti “massimi sistemi”. Ridevano, poi azzittivano, momentaneamente pensosi, le guance arrossate per il piacere dell’affabulazione. Georges stentava ad uscire dalla sue sterminate solitudini silenti: gli misi il braccio intorno al collo, forse volevo dirgli: “tutto è tornato alla normalità, non temere”.
Ma la bellezza, concordavo con lui, tutto è fuorché normalità. Torme intere di uccelli rarissimi acquattati sicuri sulle acque indisturbate del mondo. Intorno come corona appena frusciante vegetazioni scomparse pressoché ovunque dagli occhi degli uomini, oltre ai papiri dolcemente allungati oltre ignote verzure come scenario d’intangibilità primigenia.
Col braccio sempre intorno al collo di George, colto da dolorosi turbamenti, sentivo che la nostra umanità insincera e inutilmente tentennante tra pensieri di morte e fatue ambizioni d’immortalità da vivi colpiva come dolcissime gemme le nostre iridi.
Claudio Magris, pur sempre in modi sottili ed irripetibili, padrone incontestato del der Blaue Danub, in seguito alle catastrofiche cronache dei giorni scorsi ( forse più dello stesso scrivente sinceramente addolorato e ferito) trasmetteva ai lettori probabilmente indifferenti di un grande quotidiano i dettagli della tracimazione del letale cianuro sopra le pareti fangose al centro della miniera aurifera terza per importanza in Europa.
E, come non tutti sapevano, mentre lo stesso Magris scriveva il suo capolavoro, Il Danubio, sua moglie si ammalava di una malattia mortale, lasciando il marito affranto, svuotato. Da allora, probabilmente, in lui laico, s’insinuava una dolorosa vena di credente che avrebbe sconvolto la austera esistenza di studioso.
Per me il pur bello e ancora giovane Magris per il dolore si era lasciato penetrare da una vena mistica, in stridente contraddizione con la sua precedente visuale del mondo.
Proprio come con la mia bionda Maries a un certo punto, come dal niente, mi ero lasciato possedere da una prepotente vena di perversione, in nessun modo preannunciatasi.
Una ricchissima joint-venture rumena-australiana che, ignara e sprezzante, si accingeva a distruggere per sempre l’ultimo paradiso terrestre ancorato alla crosta del nostro pianeta: traendo in un mortale inganno l’inedia colpevole dei bipedi che ancora si affannano a vivere la loro mediocre quotidianità e produceva nelle poche coscienze che ancora rimangono una ferita definitiva, non più guaribile.
Per Magris, forse, tutto ciò era materia di erudizione filtrata dall’orrore oggettivo di un sogno che svaniva; per me, invece, avveniva una pericolosa quanto inquietante commistione tra il privato e il pubblico, tra ciò che profondamente legava i passeggeri della barca di Hitler donata ad Antonescu e la quasi incredibile fauna e flora circostante che alterava le nostre psichi in un modo che a nessuno di noi era ancora capitato.
Per Maries e me, convinti ormai di essere alla fine della nostra parabola amorosa, si riaccendevano inattese scintille che ai nostri corpi invasi da un desiderio indefinito ridonavano vitalità e trascendenza di carne e di spirito. Sorpreso, ritrovavo appoggiati alla mia spalla i suoi capelli striati di diverse sfumature di biondo. Inevitabilmente piombatoci addosso un brulicante buio dopo il lungo ed estenuante crepuscolo, le nostre corporalità ancora una volta si mischiavano, come se fossero dirette verso un obiettivo misterioso e denso di indefinibile speranza.
Anche gli altri si accorsero che Maries, sciolta in una dolcezza che non sempre le era propria riempiva non soltanto metaforicamente l’universo di un lustro turgore che pareva dire “riempirò le vostre pelli aride di una nuova e diversa liquidità imparentata a questa, che ci circonda e che è il segno impalpabile che il Delta costituisce il futuro che non più speravamo di vivere.” Maries, riservata e femmina come mai l’avevo vista prima, sfiorò con i sensibilissimi polpastrelli delle sue dita affusolate la mia fallicità quasi spenta e cinerea. Reagii da maschio quale non avrei più voluto essere nuovamente contemplando una conjunctio allungata e tenera come il filo dell’orizzonte. Solo George, ancora una volta, di un pallore kafkiano si ritraeva in sé nel suo io –ahimè- sanguinoso per avere percorso gli anni della tirannia ineguagliata di un Ceaucescu giunto alla sua finale, terrificante demenza. Tutto ciò si andava rimescolando sotto la superficie dell’ampia fronte del poeta che negli anni a venire avrebbe versificato intorno a ciò che non soltanto era indicibile ma anche ripugnante quanto la carcassa di una mucca scuoiata. In Ulic prendeva il sopravvento una sguaiata quanto ambivalente cordialità, che gli faceva scoprire i canini.
E all’improvviso, attraccati come eravamo sulla fanghiglia di pece del canaletto l’appetito ci colpì come certi artigli di rettili, non lasciandoci altra scelta che di coniugare pesci, caviale e verdura grigliata con la nostra coscienza ormai permanentemente sporca, incapace di intravvedere un sia pur minimo spiraglio nel muro opaco delle nostre pesanti carni irte di occhiolini ciechi e vogliosi.
Avevamo, tuttavia, intuito che il Delta, non più luogo geografico, costituiva un fremente rossore che attanagliava le nostre viscere in attesa spasmodica di una succulenta cena che null’altro sarebbe stata che una tesa, protratta metafora della nostra ascesa al paradiso terrestre. All’improvviso mi sentii dire a voce alta, quasi stridula “E’ così che avrà termine la nostra giovinezza? Valeva la pena di aspettare tanto a lungo per essere felici di una felicità a noi totalmente ignota?” Soltanto Maries ebbe la prontezza di reagire. “Per te tutto diventa vischiosità metaforica, non accetti che la semplicità che la natura ha donato possa rimanere tale. Unicamente l’esagitazione, la continua fibrillazione perversa equivale all’esistere: vuoi tenacemente rimanere pusillanime nella speranza che all’improvviso scoppi una grandezza che ovviamente non può neppure alla lontana essere imparentata con te: molto di più fanno parte del tuo percorso umano questi straordinari pesci allineati sui lunghissimi vassoi di porcellana. Molto di più scorre nel tuo sangue l’appetito per qualcosa che si può mangiare, digerire, espellere. Da sempre, forse dalla stessa nascita sei stato espulso dall’utero materno impreparato agli agri eppur dolcissimi combattimenti che connotano la vita. Mi disgusti, amore , anche se a te ancora mi legano le flatulenze e le indesiderate agglutinazioni che distinguono le ore notturne di un qualsiasi letto coniugale.”
Il capitano annunciò, quasi timidamente: “la cena è servita. Sarà di vostro gradimento. Ne sono certo. Ogni sforzo al riguardo è stato compiuto dai marinai miei sottoposti.” Prima che avvicinassimo alla bocca le prime forchettate del grande storione grigliato trascorsero alcuni secondi di assoluto silenzio.
Silenzio che inspiegabilmente mi fece retrocedere all’infanzia, quando inutilmente inseguivo la piccola ma agilissima Deborah attraverso il fittissimo faggeto sotto cui il sottobosco muschioso offriva un invitante tappeto. Il suo corpicino ansimante riusciva sempre a restare, in piena corsa a pochi passi davanti al mio appesantito ed ansioso desiderio. Di tanto in tanto lei voltava la piccola testa per constatare che questo iato fosse rimasto uguale, negli occhi blu degli strali perduti tra paura e inconfessabile voglia di essere raggiunta. Campeggio estivo tanti decenni fa nel pieno e lussureggiante Vermont.
Ed ora, a mia volta, raggiunto da adulto il paradiso terrestre che mai avrei creduto che potesse materialmente esistere, lo sguardo fremente della memoria mi riportava ad un altro paradiso per sempre sfuggitomi. Maries, intuendo il mio infinito distanziamento da un presente pur perfetto, mi baciò sull’angolo della bocca. Poteva, questo bacio -che sentivo di vero amore – causare la mia definitiva caduta dall’Eden? Il rischio estremo, che sentivo sempre più certo nel suo avvicinamento al mio corpo adulto ed inetto circa le cose che veramente contano, ero pronto, nella mia corazza di inutile coraggio , ad affrontarlo, anzi a dolorosamente subirlo. Maries, femminilmente consapevole di queste mie lacerazioni interne, continuò dolcemente a premere, accostando la sua delicata mano al mio membro certamente non insensibile. Con ciò avevo (come sempre nel mio ormai breve percorso esistenziale) accettato lo scacco matto.
Ulic, ricoprendo con la sua cordiale –forse ignara- ilarità lo smembramento della crosta terrestre che finora ci aveva accuditi, cominciò a trasmetterci una fitta serie di informazioni circa questa nostra inusitata tappa della nostra esistenza che coincideva ( e lo ripeto per l’ennesima volta) col Paradiso Terrestre che non stava scritto neppure con scrittura incerta in nessuno dei nostri diari di bordo,
il poeta, temendo giustamente il peggio, ma anche più crudelmente sublime, aveva serrato le sue strette labbra bluastre. Dai suoi occhi dardeggiava il terrore che sottostà ad ogni verso che si avvicini al vero e al bello. Era come se egli implorasse un requiem, certo che non gli sarebbe stato concesso, terrorizzato che la vita lo avrebbe costretto a viverla, privo di ogni memoria, privo anche di ciò che noi chiamiamo in via consolatoria il cuore. Pareva a noi amici caritatevoli, sull’orlo di un collasso. Non è escluso che già allora, in quei giorni e in quelle notti di totale felicità, che misteriosamente prevedessimo l’estinzione del Delta, della sorgente stessa che ci stava fornendo emozioni che non riuscivamo né a definire né a controllare.
Maries mi gettò uno sguardo, i suoi occhi appassionati a meno di un centimetro dai miei in cui stava infuso un sentimento privo di oggetto, che in seguito mi avrebbe trascinato in terra di nessuno fin troppo riconoscibile. Le stelle, improvvisamente chiarissime, avevano perforato la leggera bruma sotto i papiri che proteggevano i nostro diritto di esistere.
Aldo Rosselli.