Una celebrazione personale cum qualche souvenir del leader cubano arrivato sano e salvo a 90 anni. Fidel Castro è un novantenne ancora giovane dentro. Qualcuno dirà: “E chi se ne frega!” Beh, rispetto questa posizione, ma faccio subito notare, che al di là della retorica, delle mal o ben poste nostalgie e delle personali ideologie, questo statista (di sicuro non un ‘politico’) è riuscito a sopravvivere e a far sopravvivere il suo paese, Cuba, di fronte a un assedio economico e politico che dura da 57 anni, ovvero da quando lui e i suoi barbudos, tra cui Che Guevara, entrarono a L’Avana liberandola dalla spietata dittatura di Fulgencio Batista, notoriamente supportato dagli USA, che fuggì in esilio in Spagna con 50 milioni di dollari rapinati al paese. Un assedio che sembra stia per terminare, dopo che lo stesso Barak Obama ha riconosciuto quanto sbagliata sia stata l’attitudine del suo paese nei confronti di Cuba. E c’è da sperare che anche dopo la morte de El lider maximo, comunque già saggiamente defilatosi da un po’ di anni, i suoi solidi ideali di autonomia possano essere preservati, e che l’isola caraibica non diventi nuovamente quello che era stata fino alla revolucion del 1959: una colonia economica degli USA come tante altre in America Latina.
E ora, per il suo compleanno, vorrei ricordare la mia esperienza diretta di Fidel. Ero a L’Avana nel dicembre del 2000 per un reportage sul Festival del Cinema LatinoAmericano, una splendida rassegna che da spazio anche al cinema indipendente di molti paesi, tra cui proprio quello americano. Infatti, uno degli sponsor di questo evento, è proprio Robert Redford, creatore del Sundance Film Festival. La prima sera nella capitale, dove vivevo in una casa particular (opzione che consiglio a chiunque voglia visitare l’isola come viaggiatore e non come banale turista), me ne vado a fare un giro al centro.
Vedo improvvisamente un capannello di persone davanti a uno dei grandi hotel. Cosa succede? chiedo. E scopro che dentro l’hotel c’è proprio lui: Fidel! Motivo: per incontrare una missione commerciale tedesca. Subito mi fiondo dentro l’hotel e noto lo stato di eccitazione nella hall, popolata da turisti di tutto il mondo, tra i quali dei gringos lì con una “missione culturale” (unico modo per aggirare l’embargo). Improvvisamente ecco apparire Fidel da una balconata sopra la hall. L’uomo, famoso per i suoi interminabili discorsi (il più lungo, nel febbraio del 1997, di fronte al Paarlamento cubano, durò ben 7 ore e 15 minuti), si rivolge al “pubblico” internazionaale senza dire una parola: piega la testa da un lato e con le mani giunte accanto al volto fa capire con un sorriso una semplice cosa: è stanco.
Quel gesto mi comunica in un attimo tutto il carisma di questo leader. Fidel si avvia quindi verso l’ascensore. Forse il mio entusiasmo vi farà ridere, ma io instintivamente prendo la rincorsa, scavalco un divano, e lo becco a pochi metri da me mentre esce tranquillo dall’ascensore e si avvia all’uscita. La sera dopo vado all’Hotel Nacional per l’inaugurazione del Festival. Sono uno di quelli a cui piace sedersi a poche file dallo schermo, massimo 4, fedele a una precisa regola cinefila per cui questo è l’unico modo di vedere un film, ossia entrandovi dentro. Ed ecco che a poca distanza da me, sulla sinistra, in prima fila me lo rivedo: sì proprio lui, Fidel, tranquillamente in attesa dello proiezione. Senza fronzoli e senza fanfare: un uomo tra la gente. E mi viene subito in mente di quando, guidando per le strade di Los Angeles, ebbi occasione di ascoltare un programma della PBS (Public Broadcasting System, la radio più progressista negli USA). Si narrava dell’incontro tra Che Guevara, allora Ministro dell’Economia, e un emissario di John Fitzgerald Kennedy, allora presidente USA, a Montevideo, Uruguay. In quell’occasione, per uscire dall’impasse tra i due paesi, culminato nel famoso sbarco fallito nella Baia dei Porci, a opera di esuli cubani sostenuti dalla CIA, il Che fece tre proposte “diplomatiche” agli Stati Uniti: la fine dei tentativi di diffondere la revolucion in America Latina, un allentamento del rapporto privilegiato con l’Unione Sovietica e, last but not least, la compensazione graduale per le confische di ditte americane a seguito della nazionalizzazione. Insomma: un pacchetto abbastanza ragionevole.
L’emissario di Kennedy tornò a Washington per riferire su queste proposte. Il “buon” John riflettè un attimo e come risposta cosa fece? Lanciò l’Operation Mangoose (Operazione Mangusta), in pratica una missione segreta con l’unico scopo di assassinare Castro. Da allora si contano ben 637 tentativi, tra cui il mettere esplosivo nel suo sigaro o cianuro nei mojito che beveva. Grazie ai fedeli membri dei servizi di sicurezza, e forse grazie alla propria buona stella, Fidel e sopravissuto e oggi possiamo celebrare i suoi 90 anni. Questo compleanno sarà probabilmente visto come una maledizione dalla nutrita schiera di esuli cubani in Florida, quelli che i loro connazionali fedeli a Fidel chiamano los gusanos americanos (gusano in spagnolo vuol dire verme). Ma proprio a queste persone mi verrebbe da riportare le parole del mio padrone di casa a L’Avana. Costui, persona gentilissima, che m’invitò a cena diverse volte e che mi permise di visitare la scuola dove andava la figlia, era un ex agente nelle forze di sicurezza. Aveva poi aperto una scuola di karate, così modesta che non aveva nemmeno i tappeti di gomma per gli allievi. Inevitabilmente, parlammo di politica e mi disse risolutamente: “Io non sono comunista, ma non mi piace che qualcuno mi venga a dire quel che devo fare a casa mia”.
Una non velata allusione al gigante norte- americano, come vengono chiamati gli USA a Cuba. Quel gigante che dopo aver dato lezioni d’indipendenza al mondo liberandosi dagli inglesi nel 1776, ha poi sviluppato e applicato tenacemente la Dottrina Monroe, trasformando l’America Latina nel proprio cortile. Quello stesso gigante che, nonostante l’apertura a Cuba (anche per interessi economici), ora appoggia più o meno apertamente l’ondata di riflusso che va dall’Argentina al Venezuela passando per il Brasile. Sì, sappiamo tutti che Fidel Castro, al di là del carisma, non è esattamente un modello di leader democratico (almeno nell’accezione classica occidentale), ma oltre a dare al proprio paese uno dei sistemi educativi e sanitari più avanzati nel mondo è riuscito a mantenere, unico nell’emisfero occidentale, un’invidiabile autonomia nazionale, nonostante l’ostinato embargo dei gringos, sopravvivendo a tanti presidenti americani che cercavano di liberarsi di lui.
Gli stessi presidenti a cui non davano certo fastidio dittatori ben più efferati, come Pinochet in Cile, tanto per citarne uno. E c’è da domandarsi, restrospettivamente, come avrebbe potuto svilupparsi sia politicamente che economicamente Cuba, se il liberal John F. Kennedy avesse accettato illo tempore le proposte del Che, invece di comportarsi come un boss mafioso qualsiasi e cercare di far fuori Fidel tramite i suoi mandanti. Poi il socialismo Cuban style è riuscito in qualche modo a evolversi nel tempo, diventando più libero e aperto, soprattutto dal punto di vista culturale – i film cubani che conosco, in qualche modo critici del regime, ne sono una prova. E non è certo paragonabile al socialismo grigio che ho conosciuto nei paesi dell’Est Europa: è un socialismo caraibico, dove, nonostante la relativa povertà, in parte imposta proprio dall’embargo, rimane un’essenziale joie de vivre. Più che mai viene quindi da parafrasare in terza persona la famosa dichiarazione che il giovane avvocato Castro proferì nell’arringa a proprio favore durante il processo subito per aver assalito la Moncada nel luglio del 1953, sotto il regime di Batista, e che segnò l’inizio della Rivoluzione Cubana: “La storia lo assolverà”.