Ogni volta che si avvicinano le elezioni per i vari sindacati (e per l’ordine stesso) dei giornalisti, si ripete il mantra dei numeri sui colleghi precari, disoccupati, sfruttati e schiavizzati ecc. Sono numeri che, al contrario di quanto sostiene il superficialotto di Firenze, rappresentano purtroppo la drammatica e deprimente fotografia del cosiddetto “paese reale”. Sono dati che, con o senza Ordine dei Giornalisti, esistono e stridono con la consueta propaganda renziana del #vatuttobene. Sono dati che, però, come sto per spiegarvi è del tutto inutile tirar fuori senza avere in mente un piano di riforma poderoso, credibile, competente e strutturato per il settore di riferimento.
Se da un lato è vero che diversi colleghi in gamba sono sottopagati, sfruttati e/o addirittura ricattati da editori senza scrupoli (e senza alcun vero controllo a frenarli), è anche vero che buona parte dei giornalisti precari e degli schiavizzati si trova in questa condizione perché ha accettato compromessi vigliacchi in passato, perché magari ha avuto il suo tornaconto nello scrivere gratuitamente o per due spicci al fine di far comparire la propria firma su un giornale blasonato e, in ogni caso, perché si è ostinatamente ed ottusamente limitata a vedere il nostro mestiere inchiodato negli anni pre-internet, quando per vivere di giornalismo dovevi saper fare molte meno cose di quelle che servono oggi e quando la concorrenza era molto minore (oggi ogni utente sui social può essere un piccolo “media” molto più influente e seguito di un professionista vecchio stampo).
LE COLPE E LE DIFFICOLTA’ DEI GIORNALISTI
Questi colleghi, anche se professionisti, non si sono mai preoccupati, cioè, di aggiornarsi, formarsi e di imparare a padroneggiare i nuovi canali ed i nuovi strumenti di comunicazione, oltre alla lingua inglese. Non sanno ad esempio cosa sia il “brand journalism” (che a me ad esempio ha permesso di girare un po’ di mondo, tra Brasile, Africa, Irlanda ed un po’ tutta Italia), né cosa significhi preoccuparsi di costruirsi una rete di relazioni online facendo personal branding, oggi ben più importante di una laurea, di un tesserino e di qualsiasi altro “pezzo di carta” che può essere un’ottima ed importante ciliegina sulla torta, ma non certo l’unica pietanza messa sul mercato ed offerta a chi dovrebbe assumerci e pagarci con stipendi degni di tale nome.
Questo, chi tra i miei colleghi ha mire sindacaliste, di solito evita accuratamente di dirlo, volendo far credere che ogni tesserato a spasso meriti in realtà un bel contratto da 2000 euro al mese di base.
LA VERA FORMAZIONE CONTINUA
Mi perdonere l’auto-referenzialità contingente, ma credo che la mia esperienza, proprio perché non sono il nuovo Montanelli, possa contribuire a motivare diversi colleghi che al momento sono un po’ spaesati e spaventati. Ho iiniziato a fare questo lavoro a 20 anni circa, nel giro di un paio ho imparato a fare anche video e foto professionali, a generare enorme traffico per gli articoli che scrivevo, studiando gli algoritmi di Google e Facebook e formandomi senza sosta e con enorme voracità sui principali temi del webmarketing e della comunicazione digitale. A 24 anni, dopo essere diventato professionista, senza avere mezzo santo in paradiso e senza aver frequentato nessuna prestigiosa “scuola di giornalismo” a suon di 10.000 euro annuali di tasse, ho capito che non avrei certo vissuto dignitosamente limitandomi a cercare lavori presso gli editori “puri”. Così ho deciso di provare la strada da free lance/consulente per le aziende e quella dell’editoria indipendente, con enormi difficoltà, tanti fallimenti ed altrettante soddisfazioni. Questo esperimento mi è servito per capire le ragioni di chi stava “dall’altra parte” e, da piccolo editore indipendente e senza fondi pubblici, guadagna in media 30 centesimi ogni mille visite e non può certo riempire d’oro i suoi collaboratori, soprattutto se questi ultimi sono analfabeti digitali e non sanno neppure cosa sia la SEO e come si utilizzi al meglio l’editor di WordPress.
L’editoria indipendente mi ha impoverito economicamente, ma arricchito umanamente e professionalmente, permettendomi di lavorare come digital e brand manager per realtà nazionali ed internazionali. Rimanendo sempre nall’ambito della comunicazione, ho lavorato anche come copy e ghost writer. In tal senso confermo quindi ciò che ha giustamente scritto Giampaolo Colletti su Che Futuro: già oggi, il mercato premia i giornalisti capaci di non essere solo professionisti che cercano e pubblicano notizie ma anche (e soprattutto) comunicatori a 360°, con professionalità duttili e sempre pronte ad affrontare i cambiamenti repentini della nostra società liquida. A quel punto, i famosi 4900 euro lordi annui, credetemi, potrete guadagnarli anche in un mese e facendo lavori molto più stimolanti ed entusiasmanti.
LE COLPE E LE DIFFICOLTA’ DEGLI EDITORI
E se parliamo poi di colpe e responsabilità degli editori, c’è subito da fare un netto distinguo tra grossi editori oligopolisti e sostenuti da fondi pubblici diretti ed indiretti ed editori indipendenti ed auto-finanziati che, ad oggi, non posso trovare alcuna reale sostenibilità economica sul web perché, come detto, il mero modello adv non è assolutamente adatto a mantenere la macchina aziendale e a permetterle di fare la cosa più importante: investire su bravi collaboratori e sullo sviluppo tecnologico della propria piattaforma proprietaria.
Gli editori noti e sicuramente più facoltosi, invece, hanno la grossa colpa di essere clamorosamente allergici al rischio ed all’innovazione concreta e continuata. Quando ci provano, come hanno fatto in maniera un po’ goffa il Gruppo RCS ed il Gruppo Caltagirone, in ogni caso tendono ad “esternalizzare” il rischio e producono nella migliore delle ipotesi dei grossi nulla di fatto e nella peggiore dei veri e propri danni (vedi il caso di Youreporter). Del resto, se per realtà come il Corsera “innovare” significa mettere delle faccine per indicare lo stato d’animo dei lettori e per Wired inserire la fiammella rossa per i pezzi molto condivisi, non c’è da meravigliarsi se i salti di qualità ed i modelli di business alternativi non si scorgono ancora.
LA VERA INNOVAZIONE CONTINUA
Nessuno qui dice sia facile. Non lo è per niente e non a caso la problematica è sentita a livello globale e di difficile risoluzione definitiva. Tuttavia, a parte essere oramai diversi i progetti editoriali di successo nel mondo, è sul serio intollerabile continuare a parlare di “crisi” quando in realtà esiste in maniera evidente un mero cambio di paradigma al quale è del tutto auto-lesionista imporsi. Il cambiamento tecnologico, sociale ed economico è come un’onda: non puoi certo fermalo, ma solo cercare di cavalcarlo al meglio e prima possibile. In caso contrario, bevi fin quando non affoghi e non c’è nessuno contro il quale puoi frignare.
Altro concetto chiave riguarda l’innovazione, che è anch’essa un’attività che presuppone dinamicità perpetua. Chiedete ad aziende come la Apple se smettono di fare ricerca sull’innovazione, poi guardate il vostro bel sito di news e chiedetevi: perché per voi dovrebbe valere la regola statica del fare ciò che si è sempre fatto, magari cambiando banalmente il layout ogni due anni, senza mai provare a puntare sullo sviluppo tecnologico dei vostri portali che, a mio avviso, dovreste pensare come veri e propri siti di e-commerce, con i quali dovete trasformare i vostri lettori in clienti.
Noi con YOUng ci abbiamo provato, lanciando un modello misto di sostegno/partnership ed andando oltre il concetto di cashback, con utenti che donando 5 euro ne risparmiano fino a 10. In questo modo, quindi, abbiamo offerto anche dei servizi per i nostri lettori e non solo notizie di qualità con la formula dello “slow journalism”. Certo è che, con un budget pari a zero per marketing, collaboratori e miglioramenti necessari alla user experience della piattaforma, non si può arrivare lontano e si è destinati a rimanere a galla senza mai emergere. Ma l’altro dramma del nostro settore è proprio questo: trovare chi investe su idee sul serio innovative e coraggiose, che tra l’altro hanno già trovato riscontri concreti.
QUELLO CHE DOBBIAMO CAPIRE, TUTTI
Concludendo, quindi, non me ne vogliano i pur volenterosi Iacopino e company, se dico loro che apprezzo lo sforzo che fanno ma lo trovo abbastanza inutile e lontano dalla comprensione profonda delle dinamiche di mercato che oggi stiamo affrontando, volenti o meno. Non sarà una legge sull’equo compenso a ridurre i precari ed i disoccupati nel luogo periodo, anzi. Non sarà la rivendicazione di diritti nati a tutela di lavori che o sono del tutto morti o si sono completamente evoluti (tra l’altro per diversi aspetti anche in meglio) a dare nuove e concrete opportunità a giovani e meno giovani desiderosi di mettersi in gioco. Questo devono capirlo tutti: politici, sindacalisti, giornalisti, presidenti del consiglio twittaroli ed editori.
Servono riforme anche per il mondo digitale, magari con un sostegno pubblico finalmente trasparente e meritocratico garantito a progetti innovativi e virtuosi e servono corsi di alfabetizzazione digitale di massa non organizzati però dalla solita cupoletta degli amici e degli amici degli amici ma, in maniera alternata, da più professionisti con diverse competenze in diversi settori.
Questa è la strada che io indicherei come sindacalista, presidente dell’Ordine dei Giornalisti, capo del Governo e via dicendo. Peccato che nessuno mi abbia mai pagato per suggerire queste cose a chi invece intasca generosi compensi proprio per proporre soluzioni nuove e giuste per la maggioranza della gente.