L’arte come denuncia politica? Kabir Mokamel ne è certo. Con i suoi amici, un gruppo di artisti ma anche di comuni cittadini, politici locali, professionisti e simpatizzanti di ogni età, ha cominciato a riempire i muri della sua città con opere d’arte enormi: donne, uomini che lavorano, occhi, combattenti. Tutto a colpo di pittura e bombolette spray finisce nel mirino della sua street art. Solo che Kabir non abita in una grande metropoli occidentale, sebbene le sue opere siano state accostate a quelle dell’inglese Bansky. La sua città non è una città come le altre, non vive di turismo e di commercio, non gode di una frenetica vita metropolitana, anzi sì, ma secondo una filosofia molto diversa da quelle delle altre metropoli, perché la sua città è Kabul.
Il suo progetto è una vera e propria denuncia fatta dall’Afghanistan per l’Afghanistan. Una denuncia contro le guerre, contro i regimi, contro l’invasione nemica, contro i diritti violati delle donne, contro. Intervistarlo non è stato facile, e non per la disponibilità immensa che l’artista ha dimostrato fin da subito, ma per i suoi molteplici impegni, e per le difficoltà di connessione con quell’Afghanistan così lontano e così vicino. Un Afghanistan diverso, quello sognato da Kabir, che ha una convinzione e ce la racconta così: “Penso che l’arte possa cambiare il modo di fare, basta guardare l’arte commerciale nei paesi sviluppati e l’arte di propaganda attraverso la storia”, cos’altro è in grado di fare l’arte? Secondo Kabir : “Può evocare un cambiamento nel subconscio, e del resto ha cambiato società e culture già formate. Per questo cerco la street art ovunque io vada. L’ Arte di strada crea un nuovo spazio, che è uno spazio di dibattito”.
Che tipo di artisti possono aver influenzato la sua formazione? Abbastanza facile da intuire: “Personalmente mi piace l’arte surreale e grafica. Apprezzo il lavoro di Banksy, e questa influenza è la stessa che anima la squadra con cui sto lavorando, tanto è vero che in Occidente cominciano a chiamarmi il Bansky afghano” . Ma questo tipo di arte è a livello programmatico già una denuncia politica, per questo è importante anche sapere il punto di vista di chi la realizza sul nuovo Afghanistan – se vi è un nuovo Afghanistan – e come le persone possono far parte di questo cambiamento.
“Naturalmente – ammette Kabir – ci sarà un nuovo Afghanistan, ma credo che ci sia già. Io credo nel cambiamento e le cose stanno nascendo attraverso un vento nuovo di cambiamento. Prevedo che l’Afghanistan sarà un luogo di progresso in un futuro molto prossimo. Un’ondata di giovani dinamici con una nuova prospettiva sta prendendo forma. Le persone non sono soddisfatte dello status quo, per cui il cambiamento è inevitabile, anche se nessuno è disposto a ripetere gli errori del passato. Per questo credo che il cambiamento verrà per migliorare le cose. Vediamo la partenza delle truppe straniere e il loro personale civile come una buona occasione per gli afghani di essere responsabili del cambiamento che vogliono. Il cambiamento dagli stranieri era quasi imposto”.
Il sogno di chi ha visitato questo Paese è che la gente possa cominciare a sceglierlo come meta per le vacanze. Per Kabir, che vive questa realtà ogni giorno, è già così ora, in questo momento: “Penso che le persone possono visitare l’Afghanistan in qualsiasi momento. Non è così male come è dipinto dai media. Ero una settimana fa a Bamyan, e tutto era così pacifico, che mi sembrava surreale. Naturalmente ci sono posti in cui si evita di andare, come in qualsiasi città, ma in generale è un luogo pieno di posti accoglienti, e lo sono anche quelli che molti media dipingono come poco consigliati”.
Si irrigidisce a sentire che spesso, l’unica immagine che viene restituito nei giornali occidentali di questa nazione, è quella di un paese in cui vige il codice dei Talebani, in cui le donne sono nascoste dal burqa, in cui l’unica legge che conta è quella del pashuntwali.
“Le persone hanno una loro percezione del mondo attraverso i media, e spesso è nettamente suddivisa in due blocchi: Occidente o Oriente. Le persone sono le persone con le loro credenze e il loro credo, e l’idea che vogliono farsi. Poi c’è la realtà, ed è fatta di tradizioni, che i pashtun coltivano da secoli. Abbiamo arte, cibo musica, sport e feste come si fa nei vostri rispettivi Paesi. E nella nostra squadra di artisti non mancano le donne, che lavorano ogni giorno per strada, come nelle tante foto che ci ritraggono all’opera si può vedere. Conta cosa volete vedere, e la volontà di credere a idee precostituite o alla verità. Solo chi è stato davvero in Afghanistan può dire come si vive”.
E ha ragione, Kabir, con la sua arte di denuncia e l’amore per un paese così complesso e meraviglioso, che non può essere etichettato, non può contenersi tutto dentro le analisi degli esperti di politica, o nel racconto sporadico di tragedie che ci vengono consegnate da giornalisti troppo distanti, con le loro convinzioni e le loro certezze. La poesia di Kabir si riflette nelle sue opere, ma è una poesia più grande, è quella di un intero popolo, che merita rispetto e chiede di poter camminare sulle proprie gambe, finalmente, anche a costo di cadere, ma non più nei crateri lasciati dalle bombe troppo intelligenti, troppo sicure, troppo insensate.