C’era una volta la Turchia fondata Mustafa Kemal Atatürk, il primo stato a maggioranza musulmana a dichiararsi laico ed a dare il via al processo di secolarizzazione, un percorso storico che ad porterà Ankara a sfiorare anche l’ingresso nell’Unione Europea. A quasi cento anni dalla salita al potere del “padre dei turchi” (Atatürk è stato presidente dal 1923 al 1938), che risollevò il Paese dopo il crollo dell’Impero Ottomano, Recep Tayyip Erdoğan sembra aver dato il colpo di grazia all’ambizioso progetto del suo illustre predecessore, attraverso un contestato referendum costituzionale.
GLI ANTEFATTI E LE CRITICHE AL REFERENDUM
Che le politiche di Erdoğan fossero di stampo conservatrice e che il suo orientamento fosse piuttosto rivolto al mondo musulmano, erano fatti già fuor di discussione. Sin dalla sua ascesa come primo ministro nel 2003, l’attuale capo di stato turco ha tentato, in forma velata ma non troppo, un processo di “reislamizzazione” della società, al quale ha fatto seguito una svolta autoritaria culminata con il referendum di domenica scorsa. Sostenuto dal suo partito, l’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – Adalet ve Kalkınma Partisi) e dagli alleati dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista – Milliyetçi Hareket Partisi), Erdoğan ha messo in piedi delle modifiche costituzionali tali da svuotare di poteri il parlamento, accentrando invece le competenze nella figura del presidente, che non a caso è la posizione da lui attualmente occupata. Il tutto sulla scia del colpo di stato – o presunto tale – del luglio 2016, dal quale la Turchia è in costante stato d’emergenza: un pretesto perfetto per far accettare una svolta autoritaria al popolo.
Il punto cardine del referendum sta nell’attribuire il potere esecutivo – e dunque di capo del governo – allo stesso presidente, sopprimendo di fatto la figura del primo ministro nelle funzioni attuali, posizione attualmente occupata da Binali Yıldırım, e trasformando lo stato in una repubblica presidenziale. Modifiche che dunque mettono a repentaglio il principio democratico di divisione dei poteri, teorizzato, come noto, dal filosofo francese Montesquieu, figura molto influente nella fondazione dello stato turco e nella redazione della sua costituzione da parte di Atatürk. È questa, del resto, la principale critica mossa al referendum da parte dell’opposizione, capeggiata da Kemal Kılıçdaroğlu, leader del CHP (Partito Popolare Repubblicano – Cumhuriyet Halk Partisi), messo in piedi proprio dal padre della Turchia moderna nel 1923. “Se qualcuno dovesse sopprimere gli standard democratici, sarebbe andare contro ciò che sperava Mustafa Kemal Atatürk”, ha ammonito Kılıçdaroğlu. Contro il referendum si è schierato anche l’HDP (Partito Democratico dei Popoli – Halkların Demokratik Partisi), partito filo-curdo guidato da Selahattin Demirtaş, arrestato nel novembre del 2016 con il pretesto dell’autobomba esplosa davanti alla sede della polizia di Diyarbakır.
I RISULTATI: VITTORIA DI MISURA PER ERDOĞAN
I risultati del referendum – al quale ha preso parte più dell’86% degli aventi diritto – hanno dato ragione, seppur di poco, al presidente Erdoğan: con il 51.4% delle preferenze, a vincere è stato infatti il “SÌ”. Il capo di stato ha esultato promettendo di mettere subito in piedi il processo per la trasformazione dello stato in repubblica presidenziale, condendo il tutto con la pronta riesumazione della pena di morte, abolita nel 2004 in quanto condizione necessaria per l’ingresso nell’Unione Europea – e di fatto non utilizzata già dal 1984. Scontato dire che la vittoria della linea di Erdoğan deriva soprattutto dalle vaste aree conservatrici dell’entroterra, mentre il “NO” ha avuto la meglio nelle grandi città come Istanbul e la capitale Ankara.
L’opposizione, dal canto suo, ha fatto notare come circa metà del Paese si sia mostrata contraria alla riforma, ma soprattutto ha sottolineato diverse irregolarità nella campagna elettorale e nelle operazioni di voto. Il fronte del “SÌ” ha infatti potuto beneficiare del sostegno delle istituzioni statali, che hanno invece boicottato la campagna dell’opposizione, mentre sono state contate circa un milione e mezzo di schede senza timbro, che possono essere considerate come un chiaro indizio di brogli. Secondo altri fonti, in alcuni seggi i votanti sarebbero addirittura stati filmati all’interno delle cabine.
GLI SCENARI FUTURI: PIENI POTERI AL PRESIDENTE
Ad ogni modo, la riforma non entrerà in vigore in maniera integrale prima delle prossime elezioni, previste nel 2019: come voluto da uno dei punti del referendum, da quella data le consultazioni per l’elezione del presidente e per il rinnovo del parlamento si terranno sempre simultaneamente. Nel frattempo, Erdoğan potrà riprendere la sua tessera di partito, che aveva dovuto abbandonare vista l’imparzialità richiesta al presidente dalla vecchia costituzione, e potrà modificare la composizione del Consiglio dei giudici e dei procuratori, acquisendo un ruolo sempre più influente anche sul potere giudiziario.
L’altro possibile scenario è che Erdoğan decida di sciogliere immediatamente il parlamento, la Grande Assemblea Nazionale Turca (Türkiye Büyük Millet Meclisi), per approfittare del successo referendario e della debolezza di alcune delle forze d’opposizione, in particolare dell’HDP, fiaccato dagli arresti a sfondo politico, ed erodere parte della base elettorale dell’MHP, che è stato vittima forti divisioni interne proprio a causa del referendum. Infine, grazie alla riforma costituzionale, Erdoğan potrà puntare a restare in carica come presidente fino al 2029, visto che dal 2019 il conteggio dei mandati presidenziali verrà di fatto azzerato, e dunque quello attuale non verrà preso in considerazione all’interno del limite di due mandati previsto dalla stessa costituzione. Qualunque sia la strada che deciderà di intraprendere, Erdoğan si è garantito i poteri che potrebbero permettergli di riportare la Turchia indietro di un secolo.
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