Domenica 22 ottobre si sono tenute in Giappone le elezioni generali per rinnovare i 465 seggi dello Shūgiin o Camera dei Rappresentanti, la camera bassa del parlamento nipponico. Da notare che il numero di seggi è stato ridotto di dieci unità rispetto al passato, mentre l’affluenza alle urne, nonostante un piccolo incremento rispetto al 2014, è stata pari al 53.68%, la seconda più bassa del dopoguerra.
ELEZIONI ANTICIPATE DI UN ANNO: LA QUESTIONE MILITARE
Secondo la Costituzione Giapponese del 1947, la durata del mandato per i deputati della camera bassa è di quattro anni, ma il Primo Ministro in carica, Shinzō Abe, ha iniziato già nella prima metà dell’anno a parlare circa la possibilità di andare al voto nel mese di settembre. Forte di un consenso dovuto anche alla mancanza di una solida opposizione, il leader del Partito Liberal-Democratico (Jiyū-Minshutō) ha deciso di chiedere all’Imperatore Akihito di sciogliere la Camera dei Rappresentanti per andare a nuove elezioni.
Il principale argomento che ha portato Abe a questa scelta e che ha caratterizzato tutta la campagna elettorale è stato quello della crisi coreana e della consequente opportunità o meno per il Giappone di operare un riarmo. Proprio la Costituzione del 1947, dettata per filo e per segno dalle autorità statunitensi che occupavano l’arcipelago nipponico dopo gli eventi bellici, prevede l’impossibilità per il Paese del Sol Levante di prendere parte ad operazioni di guerra (il rifiuto della guerra, anzi, il mancato diritto di belligeranza, è previsto dall’articolo 9).
Le uniche forze militari giapponesi sono infatti le Jieitai, le Forze di Autodifesa, operative dal 1954 ma solo di recente ammesse a prendere parte ad alcune “missioni di pace” sotto l’egida delle Nazioni Unite. Tuttavia, alcune prove hanno dimostrato come in realtà le Jieitai abbiano preso parte a vere e proprie operazioni belliche, in particolare nel Sudan del Sud, spingendo le autorità giapponesi a ripensare il ruolo di questa istituzione militare.
Al contrario di quanto accaduto in passato, oltretutto, gli Stati Uniti potrebbero vedere questa volta di buon occhio un riarmo del Giappone. La seconda guerra mondiale è oramai lontana, e Tokyo è diventato da decenni uno degli alleati più fedeli a Washington in Oriente, insieme alla Corea del Sud. Il Giappone non è più il rivale degli USA per il dominio dell’Oceano Pacifico, ma può piuttosto fungere da punto d’appoggio fondamentale nel caso di un acuirsi della crisi coreana, ma anche per continuare l’operazione di accerchiamento della Cina, che gli Stati Uniti stanno silenziosamente portando avanti nel caso di eccessive tensioni con Pechino.
Di fatto, dunque, Abe sapeva perfettamente che le elezioni anticipate non avrebbero modificato gli equilibri parlamentari, ma ha semplicemente voluto procedere al voto per ottenere una legittimazione popolare in vista delle possibili prossime riforme costituzionali circa il rapporto tra il Giappone e la guerra, considerando inoltre che per la modifica della Costituzione è necessario ottenere una maggioranza qualificata dei 2/3. In questo modo, inoltre, il Primo Ministro ha abilmente deviato l’attenzione dell’opinione pubblica dagli scandali che stavano colpendo la sua persona ed il suo partito.
I CANDIDATI E LE POSIZIONI DEI PRINCIPALI PARTITI
Il Partito Liberal-Democratico del Primo Ministro Shinzō Abe, in carica dal 2012, ha formato negli ultimi anni una solida alleanza di governo con Komeitō, partito di centro-destra di ispirazione buddhista e conservatrice guidato da Natsuo Yamaguchi. Insieme, le due forze possedevano già prima delle elezioni i 2/3 dei seggi nella Camera dei Rappresentanti, con la possibilità dunque di approvare qualsiasi tipo di riforma. Sono stati proprio loro a promuovere l’idea dell modifiche costituzionali, avendo posizioni fortemente allineate con quelle di Washington ed ostili alla Corea del Nord.
La principale coalizione di opposizione al governo in carica è guidata da Yuriko Koike, ex ministro del governo Abe ed attuale governatore della capitale, che ha formato ex-novo un nuovo partito, Kibō no Tō, noto anche come il Partito della Speranza. I principali punti del programma di Koike prevedevano il congelamento dell’aumento delle tasse voluto dal governo Abe ed un dibattito pubblico circa la possibile revisione costituzionale, senza dunque assumere una posizione definita sul tema. Al contrario, Koike si è detta favorevole ad un’uscita dal nucleare nel 2030. Ad appoggiare Keiko c’è anche Nippon Ishin no Kai, il partito guidato dal governatore di Osaka, Ichirō Matsui.
A schierarsi decisamente contro la riforma costituzionale è stata la Coalizione Pacifista promossa da Kazuo Shii, segretario del Partito Comunista Giapponese (Nihon Kyōsan-tō), che si è unito per l’occasione con il Partito Costituzionale Democratico (Rikken Minshutō) e con il Partito Socialdemocratico (Shakai Minshu-tō). Il primo è stato fondato nel mese di ottobre da Yukio Edano, fuoriuscito dall’ormai defunto e sepolto Partito Democratico (Minshintō), mentre il secondo è guidato da Tadatomo Yoshida.
Infine, il partito Cuore del Giappone (Nippon no Kokoro) di Masashi Nakano è tra i più importanti partiti minori, composto da nazionalisti di estrema destra, e non ha preso parte a nessuna alleanza.
I RISULTATI: IL GOVERNO ABE MANTIENE LA MAGGIORANZA QUALIFICATA
I risultati delle urne hanno dato ragione al Primo Ministro in carica, Shinzō Abe, al quale va riconosciuto il merito di aver saputo tastare alla perfezione il polso del Paese. Il suo Partito Liberal-Democratico resta nettamente la prima forza politica del Paese, conquistando 284 seggi che, uniti ai 29 dei fedeli alleati di Komeitō permette alla coalizione di governo di mantenere una maggioranza dei 2/3, quella necessaria per approvare le riforme costituzionali. Certo, volendo fare le pulci ad Abe, si può dire che i due partiti insieme hanno subito una perdita di undici seggi, ma l’obiettivo di ottenere la legittimazione popolare in vista delle suddette riforme è stato pienamente raggiunto, seppur con una bassissima affluenza alle urne che pone alcune questioni.
Il neonato Partito Costituzionale Democratico ha comunque ricevuto un buon appoggio, divenendo a sorpresa la prima forza d’opposizione con i suoi 55 seggi, sottraendo però consensi soprattutto agli alleati del Partito Comunista, che perde nove rappresentanti e si ferma a dodici seggi. Due, invece, i rappresentanti eletti dal Partito Socialdemocratico, stabile rispetto alla precedente tornata elettorale.
La coalizione di Koike perde invece consensi, con il Partito della Speranza che ottiene cinquanta seggi, da unire agli undici di Nippon Ishin no Kai, per un total di 61 contro i 69 della Coalizione Pacifista, che quanto meno avrà una certa voce in capitolo nel campo dell’opposizione, anche se difficilmente potrà fermare l’avanzare impetuoso delle riforme costituzionali.
Nessun altro partito è riuscito ad ottenere seggi, mentre il sistema elettorale misto giapponese ha permesso a ventidue candidati indipendenti di entrare nella Camera dei Rappresentanti. Da notare, inoltre, che il Giappone si conferma come uno dei Paesi con la minor rappresentanza femminile in parlamento: solamente il 9% degli eletti sono donne, piazzando il Paese asiatico al 165mo posto nel mondo sui 193 stati presi in considerazione in questa classifica.
Con una maggioranza qualificata dei 2/3 in entrambe le camere, Shinzō Abe si prepara dunque a far passare le riforme costituzionali, interpretando il sentimento anti-Pyongyang che serpeggia in gran parte dell’arcipelago nipponico. In questo modo, il Giappone sarà autorizzato sia a prendere parte ad operazioni militari insieme ad altri Paesi che a dichiarare guerra unilateralmente. Il sessantatreenne è inoltre diventato il primo leader del Partito Liberal-Democratico a vincere tre elezioni consecutive, ed è destinato a diventare il più longevo Primo Ministro della storia nipponica.