di Luca Marinelli
Almeno una volta nella vita tutti si sono posti questa domanda: Dio esiste? Questa entità astratta che si suppone abbia compiuto un gesto, quello della creazione, che ci ha permesso di essere qui, ora, e che accoglierà le nostre anime tra le sue braccia alla fine di questo nostro rapido giro di giostra sul pianeta terra. Anche tu che mi stai leggendo te lo sei chiesto, vero? Ecco perché non ve ne parlerò oggi. Piuttosto preferisco incalzarvi con un altro interrogativo: “Perché siamo gli unici esseri viventi a credere in Dio?”.
Perché siamo portati a considerarci individui così speciali da ipotizzare esista un genitore altrettanto speciale? O si tratta semplicemente di una codifica della realtà, conseguenza naturale dell’essere coscienti? Propendere per la seconda ipotesi renderebbe il dibattito meno interessante o meglio, renderebbe automatico il nesso tra l’essere coscienti e il credere in un Dio. Sappiamo che ciò non è necessariamente vero ma sappiamo anche che gran parte degli esseri umani tende spontaneamente a sviluppare una simile convinzione, a spostare la responsabilità della scelta tra il bene ed il male ai piani alti.
Non è un quesito di facile soluzione: hanno provato a rispondere psicologi cognitivi, filosofi e neuroscienziati senza arrivarne a capo. Ma il focus di questo post non è trovare e sbandierare la tanto agognata risposta univoca. Né comprendere perché il cervello umano abbia bisogno di proiettare fuori da sé il senso della vita. Intendo analizzare il fattore evoluzionistico alla base di questa attitudine e indagare sul perché ci risulti così difficile concepire un altro tipo di razza umana di coscienza ma radicalmente atea.
A un certo punto, da quanto ne sappiamo, alcune scimmie hanno acquisito la capacità di discernere. Dal discernimento al libero arbitrio è questione di attimi. L’istinto naturale cede il passo all’infinito spettro delle possibilità dell’agire , il che però non conduce necessariamente all’affidarsi ad una entità metafisica superiore.
E’ pur vero che un gruppo di proto-umani disomogenei e caotici risulti in netto contrasto con l’idea della società organizzata che conosciamo. Caos è la parola chiave. Ricomporre il caos parrebbe la soluzione e la risposta all’interrogativo dal quale sono partito. Organizzarsi in società implicherebbe il passo successivo verso la civiltà. Riconoscere l’autorità di un capo ci avrebbe portato ad estendere questa organizzazione in un’ipotetica piramide senza fine al cui apice risiede un’autorità instancabile e immortale. Un’autorità le cui caratteristiche non siano riconducibili ai limiti insiti nell’essere umani. Un occhio superiore che ci monitori e il cui monito ci impedisca di fare pasticci. Un boss celeste per il quale lavorare contribuendo a mantenere in vita l’organizzazione di cui facciamo parte. Una necessità nata dall’inclusione ma che, gradualmente, ci ha portato ad escludere tutti coloro che non si fossero riconosciuti in un certo codice di valori. Una prevaricazione umana alla selezione naturale. Si, perché gli outsider finivano per essere emarginati dalla comunità e, dunque, veniva loro tolta la chance di riprodursi, condannandoli ad un’estinzione indotta.
Questo è almeno uno dei motivi per i quali l’essere umano si è evoluto come un animale metafisico, un animale che sembra naturalmente predisposto a seppellire i propri morti, a compiere riti, ad affidarsi ad un Dio. Citando Schopenhauer:
Se l’animale è ancora legato alla natura, l’uomo è invece capace di stupirsi di fronte alla realtà. Da questo stupore ha origine il bisogno della metafisica, che nasce da “uno svolgimento superiore dell’intelligenza”