Lo diciamo subito, prima di essere fraintesi: il sessantaseienne Jeremy Corbyn non sarà colui il quale cambierà radicalmente il sistema economico inglese, non attuerà nessuna rivoluzione e non sarà colui che sconfiggerà l’iperliberismo imperante nel mondo contemporaneo. Ma il fatto stesso che Corbyn sia il favorito per raccogliere la leadership del Labour Party e che considerato da molti come un possibile futuro candidato al posto di premier del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord rappresenta di per sé una svolta storica in quelle che sono le dinamiche della politica d’oltremanica.
Il personaggio di Corbyn non va ad intaccare il classico bipartitismo britannico, essendo inserito a sua volta all’interno del Labour Party, ma quest’attivista che vanta una lunga militanza politica nel silenzio rappresenta un’ala sinistra dello stesso partito che fino ad oggi non aveva mai avuto la possibilità di esprimersi realmente. La sua chance arriverà proprio quando, per la prima volta, fino al congresso del 12 settembre prossimo, i laburisti daranno vita alle primarie aperte non solo agli iscritti, ma a tutti i cittadini che vorranno recarsi a votare (questi ultimi dovranno però sborsare tre sterline). Questa sarà la grande occasione di Corbyn, che in un congresso chiuso ai soli iscritti rischierebbe di ottenere solamente una manciata di voti: “Cerco di captare le speranze del popolo di porre fine alle politiche di austerità”, ha spiegato il candidato, mentre a Londra continua a salire la tensione per i continui scioperi dei lavoratori della famosa metropolitana della città del Big Ben, ma anche di alcuni dei più noti musei come la National Gallery.
Se è tra le classi sociali più svantaggiate dalle dinamiche economiche capitaliste che Corbyn può trovare i suoi sostenitori, i suoi nemici sono un po’ ovunque. Naturalmente il primo in assoluto è l’attuale premier David Cameron, con le sue politiche di tagli ed austerità che farebbero quasi invidia a Margaret Thatcher, ma anche all’interno degli stessi laburisti non mancano i mal di pancia nel vedere l’ala sinistra del partito crescere a discapito di quei moderati di centrosinistra alla Tony Blair che fino ad oggi hanno sempre avuto la meglio. Sono gli stessi laburisti dell’ala destra del partito ad accusare Corbyn di “comunismo” e “marxismo”, parole che possono suonare come pesanti offese nella patria di Adam Smith e del liberismo, ma che in realtà dimostrano solamente come i laburisti fino ad oggi non abbiano avuto nessuna reale intenzione di opporsi a questo modello economico.
Per capire come i laburisti siano stati, almeno fino ad oggi, sempre funzionali al liberismo basta analizzare in breve la loro storia al governo di Londra. Il primo laburista a guidare il governo fu, nel 1924, Ramsay McDonald, che, non avendo una reale maggioranza a suo sostegno, dovette affidarsi anche ai voti dei liberali. Qualche sprazzo di antiliberismo si ebbe nella prima parte del governo di Clement Attlee (1945-1951), il quale nazionalizzò la Bank of England, fondò il National Health Service ed estese il sistema di sicurezza sociale. Allo stesso tempo, però, le dinamiche della nascente Guerra Fredda fecero sì che fosse proprio Attlee a cofondare la NATO assieme al presidente statunitense Harry Truman, prendendo dunque le distanze dall’Unione Sovietica e di fatto rinunciando a mettere in dubbio la legittimità del sistema economico vigente. Da allora, i governi laburisti dovettero sempre limitarsi a proporre degli aggiustamenti all’economia liberista presente nel Paese, rendendola più vivibile come nel caso del Contratto Sociale con le Trade Unions stipulato da Harold Wilson (al governo dal 1974 al 1976).
In una condizione di assoluta sudditanza nei confronti degli Stati Uniti, i governi laburisti britannici non solamente hanno dovuto rinunciare ad effettuare modifiche sostanziali nel sistema economico nazionale, ma non hanno mai messo in dubbio la posizione di Londra nello scacchiere internazionale. Il più grande esempio di ciò è proprio Tony Blair, vassallo di Bill Clinton e George W. Bush anche nelle più discutibili crociate di bombardamenti nei più disparati Paesi, dall’Iraq all’Afghanistan, senza dimenticare la Yugoslavia.
Insomma, il Labour Party britannico nel corso del novecento è stato l’archetipo della conversione al liberismo delle sinistre europee, strada poi seguita da molte altre forze del continente e fenomeno del quale abbiamo una perfetta testimonianza anche in Italia con l’evoluzione (o involuzione) che ha portato dal Partito Comunista Italiano al Partito Democratico. Corbyn potrebbe rappresentare proprio il tarlo all’interno di questo laboratorio di conversione della sinistra all’iperliberismo: “È molto interessante notare come i partiti socialdemocratici che hanno accettato i programmi di austerità ed hanno deciso di metterli all’opera nei loro paesi abbiano perso molti iscritti ed il sostegno da parte dei cittadini”, ha sottolineato lo stesso candidato alla leadership laburista.
Questa possibile svolta a sinistra dei laburisti in caso di vittoria di Corbyn ha persino avuto il potere di risvegliare dal letargo lo stesso Blair, a sua volta candidato alle primarie: “Non si vincono le elezioni con un programma a sinistra della sinistra”, ha dichiarato l’ex primo ministro, dimostrando per l’ennesima volta l’incapacità (o la mancanza di volontà?) da parte sua e dei suoi sostenitori di concepire una vera alternativa alla completa genuflessione nei confronti dell’iperliberismo.