Cinque mesi fa, nella giornata di domenica 2 aprile, i cittadini dell’Ecuador sono stati chiamati ad eleggere il nuovo presidente del Paese sudamericano. In ballo c’era la successione al cinquantaquattrenne Rafael Correa, giunto oramai alla fine del suo terzo mandato. Tra i leader progressisti più amati dell’America Latina, Correa aveva infatti deciso di rispettare fino in fondo i dettami costituzionali, che gli vietavano di chiedere agli elettori un nuovo mandato presidenziale, essendo già stato eletto in tre occasioni (2006, 2009 e 2013), posizione ribadita anche quando i suoi sostenitori si sono mobilitati per raccogliere le firme al fine di indire un referendum costituzionale per modificare questo limite.
L’EREDITÀ DI RAFAEL CORREA
Gli undici anni di presidenza di Correa si chiudevano in quel momento con un bilancio positivo dal punto di vista degli indicatori macroeconomici: sia gli indici di povertà che quelli di diseguaglianza hanno infatti registrato ottimi miglioramenti nell’arco dell’ultimo decennio. Secondo i dati della Banca Mondiale, negli anni della cosiddetta Revolución Ciudadana, la povertà in Ecuador è passata dal 36.7% al 22.5%, mentre la diseguaglianza misurata con l’indice di Gini è scesa dallo 0.55 allo 0.47.
Le nuove elezioni presidenziali rappresentavano dunque un test importante sia per le politiche interne che per l’equilibrio nella regione: un vero e proprio esame per il fronte del Socialismo del XXI Secolo, quello che aveva il suo massimo esponente nel venezuelano Hugo Chávez, e che ora proprio in Venezuela deve resistere ai continui attacchi dell’opposizione. Lo stesso Correa, del resto, ha dovuto resistere in passato a tentativi di colpi di stato, il più importante dei quali è stato sventato nel 2010.
Per succedere al presidente uscente, l’Alianza PAIS (Patria Altiva y Soberana / Patria Orgogliosa e Sovrana) ha scelto il sessantaquattrenne Lenín Moreno, già vicepresidente dal 2007 al 2013 e noto attivista per i diritti delle persone diversamente abili, essendo egli stesso paraplegico in seguito ad una sparatoria della quale rimase vittima nel 1998. Sostenuto dallo stesso Correa come suo erede politico diretto, Moreno ha ottenuto la maggioranza delle preferenze nel corso del primo turno delle presidenziali, raccogliendo il 39.36% delle preferenze, ma restando lontano dalla soglia del 50%, necessaria per l’elezione diretta. Il candidato del partito di governo ha dovuto allora affrontare al secondo turno il sessantunenne Guillermo Lasso, che si è classificato al secondo posto con il 28.09% dei voti.
Già sconfitto nettamente nel 2013 da Correa, che allora vinse in maniera schiacciante al primo turno superando il 57% delle preferenze, Lasso era sostenuto dalla formazione di centro-destra CREO (Creando Oportunidades), che ha sempre osteggiato le politiche di Correa e difeso l’economia di mercato nella sua versione più liberista. Un’eventuale vittoria di Lasso avrebbe creato però forti contrasti con il Parlamento, già saldamente in mano all’Alianza PAIS, che in base ai risultati del primo turno aveva ottenuto la maggioranza assoluta di 74 seggi sui 137 complessivi. CREO aveva invece ottenuto 34 rappresentanti, mentre la terza forza politica del Paese, il Movimiento Social Cristiano di Cynthia Viteri aveva collezionato quindici posti per la nuova legislatura.
L’ELEZIONE DI LENÍN MORENO
Nei giorni successivi alla consultazione elettorale, le urne hanno emesso il loro verdetto: il sessantaquattrenne Lenín Moreno è stato eletto come nuovo presidente dell’Ecuador per succedere a Rafael Correa, un passaggio di consegne ufficialmente avvenuto in data 24 maggio. Espressione della stessa forza politica del capo di stato in carica, l’Alianza PAIS, Moreno si è imposto al secondo turno con il 51.15% delle preferenze, battendo di misura il rivale Guillermo Lasso, che ha ottenuto 48.85 punti percentuali. Con la vittoria di Moreno, si pensava in quel momento, sarebbe proseguita dunque l’esperienza della Revolución Ciudadana iniziata con la prima elezione di Correa, risalente al 2006.
Il successo di Moreno sembrava dover avere dei risvolti non solamente entro i confini ecuadoregni, ma in tutta l’America Meridionale, in un periodo di fondamentale importanza per quel fronte bolivariano che era stato lanciato dall’ex presidente venezuelano Hugo Chávez. Nell’ultimo decennio, l’Ecuador ha fatto parte – insieme alla Bolivia di Evo Morales ed allo stesso Venezuela – del nucleo centrale di questo fronte – certamente variegato e per nulla monolitico – di governi progressisti sudamericani, che hanno avuto un ruolo importante nel limitare l’espansione dell’imperialismo statunitense nel continente. Non dimentichiamo, del resto, che l’Ecuador è il secondo produttore di petrolio in America del Sud, proprio alle spalle del Venezuela.
I detrattori, naturalmente, non mancarono l’occasione per far notare come le preferenze in favore dell’Alianza PAIS avessero subito un calo rispetto alle ultime elezioni, stravinte da Correa, che ottenne il 57% dei suffragi addirittura al primo turno. Il calo numerico innegabile poteva essere letto come legato al cambio di leadership rispetto ad un Correa che con il suo carisma e le sue politiche popolari ha saputo raccogliere voti da tutte le fasce della cittadinanza. Le fasi di transizione, come accaduto in Venezuela tra Hugo Chávez e Nicolás Maduro, sono sempre delicate, e Lenín Moreno sembrava aver superato il suo primo esame, potendo godere dell’appoggio del parlamento, rimasto in mano all’Alianza PAIS.
IL TRADIMENTO DEL NUOVO PRESIDENTE
Se, durante la campagna elettorale, Moreno si era autoproclamato erede diretto della linea politica di Correa, descritto dallo stesso candidato come “il miglior presidente di sempre”, poco dopo la sua elezione il neopresidente ha completamente cambiato rotta. Il nuovo capo di stato ha sollevato dall’incarico il vicepresidente Jorge Glas, accusandolo di corruzione, per poi accusare tutto il precedente governo di essere altamente corrotto e di aver portato il debito pubblico oltre il limite prestabilito.
Contro il presidente si è subito sollevato José Serrano, presidente dell’Asamblea Nacional – il parlamento del Paese – ed esponente dell’Alianza PAIS. Ma non si sono fatte attendere neppure le reazioni dell’ormai ex capo di stato Correa, che ha duramente apostrofato Moreno: “Quando avevo bisogno di me ero il miglior presidente della storia. Ora siamo una mafia di inutili. Nessun dovrebbe avere fiducia in una persona del genere”.
In effetti, alcuni dati forniti successivamente hanno dimostrato come le statistiche sventolate da Moreno circa le spese pubbliche del governo Correa fossero false. Carlos de la Torre, attuale Ministro dell’Economia, ha dimostrato come il debito pubblico sia ben al di sotto del limite stabilito dalle leggi ecuadoregne, e come negli anni del governo Correa sia nettamente diminuito: nel 2000, infatti, il debito pubblico ammontava al 65.1% del PIL, mentre oggi è pari al 27.9%. Secondo l’ex presidente, la propaganda di Moreno sarebbe volta a giustificare delle misure economiche neoliberiste e di privatizzazione, in particolare nel settore petrolifero, campo fondamentale dell’economia ecuadoregna. L’attuale capo di stato sta cercando infatti di dimostrare gli sprechi e le inefficienze di Petroecuador (Empresa Pública de Hidrocarburos del Ecuador), azienda pubblica che dal 1989 si occupa della gestione delle risorse energetiche del Paese, e che Correa aveva rafforzato, lasciando poco spazio ai privati. L’impressione è che dunque Moreno stia preparando un’inversione di rotta, riaprendo le porte alle multinazionali petrolifere: del resto il mantra neoliberista è noto, quando il pubblico è “inefficiente” bisogna ricorrere al privato.
Molti personaggi chiave dell’Alianza PAIS hanno deciso di abbandonare il presidente Moreno, dimostrando la propria fedeltà a Correa ed alla Revolución Ciudadana. “Se fosse vero ciò che dice Moreno”, ha ancora accusato Correa, “l’incompetente e corrotto sarebbe proprio l’attuale presidente. In sei anni come vicepresidente ed altri quattro come delegato non si è mai reso conto di questo grande disastro. Continuerà a riversare questa valanga di calunnie per camuffare la sua incapacità e la consegna del Paese nelle mani dei soliti noti”.
Dopo il Venezuela, ecco dunque l’attacco sferrato all’Ecuador: questa volta non con un’opposizione costruita ad arte come quella contro Nicolás Maduro, ma addirittura con una talpa che, una volta raggiunto l’apice del potere, ha tolto via la maschera svelando il suo vero volto di pedina della classe dominante.