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Sulla democraticità del Venezuela bolivariano

Postato il Giugno 20, 2018 Giulio Chinappi 0

Per leggere questo articolo ti servono: 6 minuti

Non si placano gli attacchi contro il Venezuela di Nicolás Maduro da parte della stampa e dei governi occidentali, gli stessi che in questi giorni stanno festeggiando la vittoria del candidato Iván Duque Márquez alle presidenziali colombiane. Ancora una volta, andiamo a rispondere alla propaganda antivenezuelana, mettendone in risalto le contraddizioni, già di per sé evidenti.

Come noto, il Venezuela è stato più volte accusato di non essere un Paese democratico da parte degli “esportatori di democrazia” statunitensi e dei loro alleati, tanto europeo quanto latinoamericani. Il discorso dominante mostra come al solito l’applicazione della sua doppia morale, a seconda del Paese in questione e di chi sia al governo. Dimenticando, per una volta, il nome del Paese del quale stiamo trattando, chi potrebbe azzardarsi a tacciare di antidemocraticità uno Stato nel quale si organizzano ben quattro consultazioni elettorali nell’arco di un anno?

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Dal 30 luglio dello scorso anno, giorno delle elezioni per l’Assemblea Costituente, infatti, in Venezuela si sono svolte anche le elezioni regionali in data 15 ottobre 2017, le elezioni municipali il 10 dicembre dello stesso anno e, cronaca di non molti giorni fa, le elezioni presidenziali, il tutto con la libera possibilità di partecipare da parte delle opposizioni che, tuttalpiù, hanno deciso di autoescludersi sapendo già di andare incontro a sicura sconfitta.

Quello che il realtà fa infuriare Washington ed i suoi alleati sono semmai i risultati di queste consultazioni, che hanno sempre visto la vittoria della maggioranza governativa che fa capo al presidente Nicolás Maduro ed al suo partito, il PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela). Nelle elezioni regionali, ad esempio, le forze favorevoli a Maduro hanno accumulato diciannove vittorie sulle ventitré entità federali che compongono il Venezuela, mentre alle comunali le coalizioni chaviste hanno collezionato 308 vittorie su 335, compresa la capitale Caracas, dunque imponendosi in più del 90% dei comuni.

Nessun Paese al mondo può vantare un numero di elezioni così elevato nell’arco di un tempo così breve, neppure le più “civili” democrazie occidentali che tanto amano fare la morale al Venezuela. E nessun governo al mondo sarebbe probabilmente riuscito a vincerle tutte nonostante gli attacchi subiti dai media nazionali ed internazionali, con l’appoggio tanto della borghesia venezuelana quanto della grande borghesia globale. Le stesse “civili” democrazie occidentali, tuttavia, si sono rifiutate di riconoscere la legittimità delle elezioni presidenziali venezuelane addirittura prima che queste si svolgessero, rifiutandosi di mandare dei propri rappresentanti per verificarne la validità.

Se queste sono le posizioni ufficiali, ciò non toglie che alcuni importanti rappresentanti di Paesi occidentali si siano comunque recati in Venezuela, ed abbiano potuto constatare come il sistema di voto utilizzato nel Paese sudamericano sia tra i migliori al mondo, potendo contare sia sul tradizionale voto con carta e matita che sul voto elettronico. Tra i presenti c’erano anche José Luis Rodríguez Zapatero, ex primo ministro socialista della Spagna, ed il sindacalista bolognese Giorgio Cremaschi, ed il processo elettorale venezuelano è stato in passato elogiato anche dall’ex presidente statunitense Jimmy Carter, che nel 2012 scrisse: “In base alle 92 elezioni che ho monitorato, posso affermare che il processo elettorale del Venezuela è il migliore al mondo“.

Per capire la tattica utilizzata per attaccare il Venezuela, vale la pena di sposare l’analisi di Ignacio Ramonet, giornalista spagnolo già direttore del periodico francese Le Monde diplomatique dal 1991 al 2008. In un articolo apparso sul sito Venezuela Infos, Ramonet spiega che il Venezuela si trova oggi sotto attacco su ben quattro fronti, in un assalto senza precedenti nella storia:

1) l’insurrezione interna, che però trova le sue radici organizzative al di fuori dei confini venezuelani e che spesso vede l’uso di mercenari;
2) la guerra mediatica attraverso una propaganda mirata, che grazie ai mezzi di comunicazione moderni è la più vasta mai messa in piedi contro uno Stato sovrano;
3) la guerra diplomatica, attraverso le organizzazioni internazionali fedeli agli Stati Uniti d’America, come l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), già utilizzata in passato per delegittimare Cuba, o il “Gruppo di Lima”;
4) la guerra economica e finanziaria, che si esplica attraverso la carenza artificiale e sistematica di cibo e medicine per la popolazione venezuelana, la manipolazione del tasso di cambio, l’inflazione indotta ed un pesante blocco bancario ai danni del Paese, cercando di addossare la colpa del tutto al governo di Maduro.

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Proprio quest’ultima modalità di assalto è quella che grava maggiormente sui venezuelani, ed infatti è quella sulla quale Donald Trump ha puntato maggiormente, rincarando la dose con le sanzioni ufficiali e sperando di gettare il popolo nella disperazione a tal punto da insorgere contro il governo, ma senza riuscirvi. La tattica messa in atto da Trump non ha nulla di nuovo, ma fu già spiegata da Lawrence Eagleburger, ex Segretario di Stato di George W. Bush, che pianificò un attacco contro il Venezuela di Hugo Chávez. In un’intervista a Fox News, Eagleburger dichiarò: “Dobbiamo usare gli strumenti economici per far peggiorare l’economia venezuelana in modo che l’influenza di Chávez nel Paese e nella regione diminuisca. Tutto ciò che può essere fatto per far sprofondare l’economia venezuelana in una situazione difficile, è ben fatto”.

Naturalmente, ai tempi di Chávez il piano non ebbe successo, in quanto il Venezuela era sostenuto dall’elevato prezzo del petrolio sul mercato internazionale, ma si è invece rivelato effettivo quando il prezzo del barile ha raggiunto i suoi minimi in tempi recenti, considerazione che – ancora una volta – ci porta a sottolineare come la sopravvivenza della rivoluzione bolivariana passi per la capacità del governo di differenziare l’economia e le fonti d’entrata del Paese, fino ad oggi eccessivamente condizionate dal valore del greggio sul mercato. Chávez, inoltre, poteva contare su un assetto geopolitico favorevole nel continente, quando in tutto il Sud America imperversavano governi progressisti, ad eccezione della solita Colombia e dell’ambiguo Perù.

Nonostante tutto, il Venezuela continua comunque a resistere e, nell’ultimo anno, quello di Caracas è stato il governo latinoamericano che ha ripagato la più elevata somma di debito estero, mentre negli ultimi anni Maduro ha restituito ben 74 miliardi di dollari ai suoi creditori internazionali. Secondo i dati ufficiali, il rapporto debito estero/PIL del Venezuela è la metà rispetto a quello di altri Paesi sudamericani come la Colombia, mentre il rapporto debito/PIL è del 25.8%, tra i più bassi al mondo, e certamente inferiore al 41% dell’Ecuador, al 53% della Colombia o al 78.4% del Brasile.

Nonostante degli indicatori macroeconomici di questo tipo, le agenzie di rating continuano a considerare il Venezuela come un debitore inaffidabile, aspetto che naturalmente fa parte della guerra economica di cui sopra. Con un debito estero del 25.2%, dunque praticamente pari a quello del Venezuela, il Cile può godere di un fattore di rischio quasi quaranta volte inferiore rispetto a Caracas, dato che naturalmente porta gli investitori esteri ad effettuare scelte che danneggiano il Venezuela.

All’ostilità nei confronti del Venezuela, fa da contraltare il matrimonio che da decenni lega Washington con la Colombia, Paese nel quale avvengono i crimini più efferati per mezzo dei paramilitari e del commercio di cocaina, ma contro il quale non viene scatenata nessuna campagna mediatica. Unico Paese del continente ad aver concesso il proprio territorio per la costruzione di una base militare statunitense, la Colombia ha un ruolo fondamentale proprio nella destabilizzazione del confinante Venezuela, con bande paramilitari che hanno spesso varcato il confine nei giorni più critici dell’insurrezione antichavista.

Alla Colombia, dunque, tutto è concesso, anche avere un’astensione pari o superiore al 50% che si protrae da anni in ogni consultazione elettorale, cosa che invece è considerata come prova di antidemocraticità se accade in Venezuela per una volta, dopo che il chavismo ha contribuito a portare alle urne tanti cittadini che prima non votavano in quanto non si sentivano rappresentanti da nessun candidato. L’Importante è che il nuovo governo di Bogotà, presto guidato dal presidente eletto Iván Duque Márquez, non provi ad affrancarsi dal guinzaglio ben stretto che lo lega alla Casa Bianca, e continui a svolgere il suo ruolo di guida dell’antichavismo in America Latina.

di GIULIO CHINAPPI

#Chávez#Ignacio Ramonet#Maduro#Venezuela#Zapatero

Pubblicato da

Giulio Chinappi

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato in "Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale" all'Università "La Sapienza" di Roma, e successivamente in "Scienze della Popolazione e dello Sviluppo" presso l'Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate online. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, "Educazione e socializzazione dei bambini in Vietnam", Paese nel quale risiede tuttora.


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