Barack Obama resterà nella storia per essere stato il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti, ma anche per essere stato il primo inquilino della Casa Bianca a visitare Cuba dalla rivoluzione del 1959 e dalla caduta del dittatore-fantoccio Fulgencio Batista. Un evento – preceduto dalla riapertura delle rispettive ambasciate di Washington e L’Avana – che è stato letto in maniera molteplice, ma che in realtà non ha segnato la fine delle politiche discriminatorie attuate dagli Stati Uniti nei confronti dell’isola caraibica sin dal 1960.
A chi, poco informato sui fatti, ha pensato che una normalizzazione dei rapporti fra i due governi significasse una “apertura” di Cuba al capitalismo, ha già risposto Fidel Castro: “Nessuno si illuda che il popolo di questo nobile e generoso Paese rinunzierà alla gloria e ai diritti, e alla ricchezza spirituale che ha guadagnato con lo sviluppo dell’istruzione, della scienza e della cultura”, ha scritto il Líder Máximo nel suo articolo del 27 marzo 2016. Come le autorità cubane hanno spesso sottolineato, sono gli Stati Uniti a violare il diritto internazionale con il blocco economico nei confronti dell’isola, e dunque è Washington a dover modificare la propria politica, non L’Avana. “Siamo capaci di produrre gli alimenti e le ricchezze materiali di cui abbiamo bisogno con lo sforzo e l’intelligenza del nostro popolo. Non abbiamo bisogno che l’impero ci regali niente. I nostri sforzi saranno legali e pacifici, perché è il nostro impegno per la pace e la fraternità di tutti gli esseri umani che vivono in questo pianeta”, ha concluso il quasi novantenne Castro.
Obama, dal canto suo, ha riconosciuto gli errori commessi nel passato dai suoi predecessori, ma, a parte qualche piccola concessione (come l’eliminazione di Cuba dalla lista – redatta da Washington ai tempi di George W. Bush – dei Paesi che finanzierebbero il terrorismo), non ha ancora dato la svolta che aveva promesso nella sua campagna elettorale. Il blocco economico prosegue, ed ogni anno Cuba subisce danni per centinaia di migliaia di dollari a causa della sua impossibilità di commerciare, di ricevere turisti, di effettuare transazioni finanziarie con il suo ingombrante vicino di casa. Il presidente statunitense ha oramai pochi mesi per realizzare quanto promesso, e per applicare le risoluzioni dell’ONU che da ben ventiquattro anni, oramai, votano periodicamente per la fine del blocco economico, con il solo delegato israeliano che sostiene ancora la causa di Washington (clicca qui per saperne di più). Il governo cubano, dal canto suo, è interessato a spingere in questo senso, visto che il prossimo presidente potrebbe non essere dello stesso avviso di Obama, ma, allo stesso tempo, non è disponibile a fare concessioni sulla propria sovranità.
Il presidente Raúl Castro si è espresso più volte a riguardo, sottolineando che Cuba è disponibile più che mai a stabilire relazioni pacifiche con gli Stati Uniti, ma che tre sono le condizioni imprescindibili affinché ciò avvenga:
1) la fine del blocco economico, noto anche come embargo, che gli Stati Uniti continuano ad applicare nei confronti di Cuba sin dal 1960, sanzionando pesantemente tutte le imprese che non lo rispettano;
2) la chiusura del carcere e della base militare di Guantánamo, con la conseguente fine dell’occupazione illegale che gli Stati Uniti continuano a perpetrare su una parte del suolo cubano, e la restituzione del territorio a Cuba;
3) la rinuncia, da parte degli Stati Uniti, a voler influenzare un cambiamento di regime politico ed economico sull’isola, nel rispetto dei principi della sovranità nazionale e dell’autodeterminazione dei popoli.
A questi tre pilastri fondamentali, si aggiungono poi altri punti sui quali Cuba vorrebbe aprire trattative, come la fine delle politiche migratorie statunitensi, che respingono qualsiasi cittadino proveniente dai Paesi latinoamericani tranne quelli cubani, utilizzati, loro malgrado, come mezzo di propaganda contro l’isola. Da notare, tra l’altro, che la situazione dell’embargo cubano è oramai invisa anche a gran parte della società civile statunitense e delle imprese nordamericane, che si rendono conto dello svantaggio che hanno nel non poter commerciare con un Paese così vicino ed in una posizione geografica molto importante.
Con l’importanza crescente che sta acquisendo il continente sudamericano nello scacchiere internazionale, infatti, la posizione di Cuba, situata al centro del Mar dei Caraibi, potrebbe diventare vitale anche per gli Stati Uniti, che da sempre vedono nell’America Latina il proprio “giardino di casa”. Non può essere considerato un caso, dunque, l’interesse di Obama nei confronti di questo piccolo ma significativo stato caraibico. Tratteremo prossimamente, in particolare, di quello che sta accadendo nell’America centrale e meridionale, dove il predominio statunitense è messo a repentaglio non solo dai cosiddetti governi progressisti, ma anche dalla Cina, che, lontana dai riflettori, sta mettendo salde radici in quell’area del globo che da secoli veniva considerata come competenza esclusiva di Washington.
PER APPROFONDIRE
GOTT, Richard W. (2004), Storia di Cuba
JATAR-HAUSMAN, Ana Julia (1999), The Cuban Way. Capitalism, Communism and Confrontation