Ci sono volute poche ore per ufficializzare la vittoria di Jair Bolsonaro al secondo turno delle elezioni presidenziali in Brasile: il candidato di destra sarà il nuovo presidente del quinto Paese più esteso e popolato al mondo a partire dal 1° gennaio.
Dopo la schiacciante vittoria del primo turno, Jair Bolsonaro partiva con tutti i favori del pronostico per la vittoria nelle prime elezioni presidenziali tenutesi in Brasile dopo la destituzione di Dilma Rousseff, avvenuta nell’estate del 2016, e l’instaurazione del discusso (per non dire “golpista”) governo di Michel Temer. Il sessantatreenne ex militare e deputato federale di Rio de Janeiro dal 1991, si presentava come candidato del Partito Social Liberale (Partido Social Liberal, PSL), sostenuto anche dal Partito Rinnovatore Laburista Brasiliano (Partido Renovador Trabalhista Brasileiro, PRTB), e spalleggiato dal generale Hamilton Mourão (PRTB) come candidato alla vicepresidenza. Una candidatura prettamente di destra, la cui campagna elettorale ha dimostrato tutta la violenza militarista e maschilista di Bolsonaro, per sua stessa ammissione ammiratore di molte dittature del passato.
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Disprezzato persino da molti leader dell’estrema destra di altri Paesi, come la francese Marine Le Pen (“Dice cose estremamente gravi, cose spiacevoli che sarebbero inammissibili in Francia”, ha dichiarato la leader dell’ex Front National, oggi ribattezzato Rassemblement National), Bolsonaro ha saputo invece parlare alla pancia dei brasiliani, facendo uscire fuori gli istinti più primitivi dell’elettorato: l’ammirazione per il padre-padrone, l’uomo forte che afferma di poter risolvere tutti i problemi con la repressione. Il candidato che ha trascinato le folle imitando sparatorie con la sua gestualità, ha così ottenuto il 55.13% dei consensi al secondo turno, passando da 49.2 milioni a quasi 57.8 milioni di schede in proprio favore, numeri favoriti dall’alta affluenza alle urne (78.70% al secondo turno, con un calo di un punto percentuale rispetto al primo).
Avversario di Bolsonaro al ballottaggio, il cinquantacinquenne Fernando Haddad, già sindaco di San Paolo (2013-2017) e Ministro dell’Educazione (2005-2012), era chiamato a compiere un’impresa impossibile, quella di recuperare i diciotto milioni di voti che lo separavano da Bolsonaro al primo turno. Il candidato del Partito dei Lavoratori (Partido dos Trabalhadores, PT), sostenuto dal Partito Comunista del Brasile (Partido Comunista do Brasil, PCdoB) e dal Partito Repubblicano dell’Ordine Sociale (Partido Republicano da Ordem Social, PROS), con la comunista Manuela d’Ávila come candidata alla vicepresidenza, ha ottenuto quasi sedici milioni di voti in più, arrivando a 47 milioni di consensi, con il 44.87% dei suffragi, risultato che però non è bastato a ribaltare un esito già scritto.
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Certo, su queste elezioni presidenziali pesava l’assenza di Luiz Inácio “Lula”, già presidente dal 2003 al 2011, e tutt’oggi considerato come il leader carismatico del PT, anche dalla situazione di prigioniero politico alla quale è stato condannato. Sicuramente, poi, non sono mancati gli errori da parte del PT, sia quando si trovava al governo (dove ha fatto tanto, ma non abbastanza, nei confronti delle classi più disagiate) che dopo la destituzione di Dilma Rousseff, quando ha tentato di ricandidare Lula anziché puntare direttamente su un volto relativamente nuovo come quello di Haddad.
Prosegue dunque il periodo buio delle forze progressiste nel continente latino-americano, osteggiate tanto dalle borghesie nazionali quanto – e soprattutto – dalla regia occulta di Washington, che sicuramente ha fatto il tifo per Bolsonaro, il quale a sua volta non ha mai nascosto la propria ammirazione per gli Stati Uniti e per Donald Trump, che infatti è stato il primo a congratularsi con il presidente eletto del Brasile. Tolta la vittoria di Andrés Manuel López Obrador, che diventerà ufficialmente presidente del Messico da dicembre, tra colpi di stato ed elezioni più o meno regolari i candidati di destra si stanno facendo pericolosamente strada in tutto il continente, richiamando lo spettro delle terribili dittature che l’America Latina ha vissuto nel corso del ‘900.
Le prime dichiarazioni di Bolsonaro dopo la proclamazione della vittoria sono state: “Cambieremo il destino del Brasile“. Più che una promessa, a noi suona come una minaccia.