Domani, domenica 28 ottobre, i cittadini brasiliani torneranno alle urne per eleggere il nuovo capo di Stato, in occasione del secondo turno delle elezioni presidenziali. I due contendenti sono Jair Bolsonaro e Fernando Haddad.
Quinto Paese al mondo tanto per superficie quanto per abitanti, con oltre duecento milioni di persone, il Brasile è oramai da tempo divenuto un attore geopolitico di primo piano, e ricopre un ruolo fondamentale soprattutto nell’orientare le politiche del continente latino-americano. Proprio per questo, l’esito di questo secondo turno delle presidenziali sarà atteso non solo nel Paese interessato, ma anzi catalizzerà l’attenzione di gran parte degli addetti ai lavori, come già accaduto tre settimane fa con le elezioni generali.
Le prime elezioni presidenziali dopo la destituzione di Dilma Rousseff, avvenuta nell’estate del 2016, e l’instaurazione del discusso (per non dire “golpista”) governo di Michel Temer, vedranno dunque la sfida tra Jair Bolsonaro e Fernando Haddad, i due candidati più votati al primo turno.
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L’esito della prima parte del confronto ha visto il netto successo di Bolsonaro, che, per qualche istante, si era temuto addirittura potesse vincere al primo turno, in caso di superamento della soglia del 50%. Il sessantatreenne ex militare e deputato federale di Rio de Janeiro dal 1991, si presentava come candidato del Partito Social Liberale (Partido Social Liberal, PSL), sostenuto anche dal Partito Rinnovatore Laburista Brasiliano (Partido Renovador Trabalhista Brasileiro, PRTB), e spalleggiato dal generale Hamilton Mourão (PRTB) come candidato alla vicepresidenza. Una candidatura prettamente di destra, che ha raccolto i consensi dei sostenitori delusi da Temer, portando Bolsonaro al 46.03% dei consensi, superando nettamente i dati dei sondaggi della vigilia.
Fernando Haddad ha invece pagato la sua investitura tardiva, arrivata dopo l’estromissione dall’agone elettorale di Luiz Inácio “Lula”, che, dopo aver guidato il Brasile dal 2003 al 2011, veniva dato come grande favorito. Nel giro di poche settimane, ed anche grazie all’investitura “ufficiale” dello stesso Lula, Haddad, è passato da pochi punti percentuali al 29.28% ottenuto domenica, in qualità di candidato del Partito dei Lavoratori (Partido dos Trabalhadores, PT), sostenuto dal Partito Comunista del Brasile (Partido Comunista do Brasil, PCdoB) e dal Partito Repubblicano dell’Ordine Sociale (Partido Republicano da Ordem Social, PROS), con la comunista Manuela d’Ávila come candidata alla vicepresidenza.
Il cinquantacinquenne Haddad, già sindaco di San Paolo (2013-2017) e Ministro dell’Educazione (2005-2012), avrà dunque vita dura al ballottaggio, dove dovrà rimontare parecchi punti percentuali per sperare di battere il militarista Bolsonaro. Tuttavia, già in passato il PT si è dimostrato in grado di stringere le alleanze giuste per vincere i ballottaggi, e non è un caso che i candidati del Partito dei Lavoratori, Lula e Rousseff, abbiano vinto le ultime quattro elezioni presidenziali consecutive.
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I sondaggi, tuttavia, sembrano vedere nuovamente Bolsonaro come favorito. Gli ultimi pubblicati, prima della chiusura della campagna elettorale, vedono il candidato di destra viaggiare tra il 48% ed il 53%, mentre Haddad si attesta tra il 35% ed il 38%. Importante sarà anche la scelta dell’ultimo momento effettuata dagli indecisi, che alla vigilia delle elezioni venivano ancora dati tra il 12% ed il 14%.
Recuperare quasi diciotto milioni di voti, per Haddad, sarà dunque impresa assai ardua, anche se una mano importante potrebbe arrivare dall’elettorato di Ciro Gomes, ex ministro di Lula, che al primo turno si era classificato terzo come candidato del Partito Democratico Laburista (Partido Democrático Trabalhista, PDT), superando i tredici milioni di consensi.
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Ciò che è certo, è che con questo secondo turno delle elezioni presidenziali in Brasile si gioca una partita assai importante: quella della scelta tra un presidente militarista, che non nasconde la propria ammirazione per le dittature più efferate del passato brasiliano e latino-americano, pronto a svendere il Paese alle multinazionali statunitensi, ed un presidente che resterebbe all’interno del quadro democratico e che potrebbe riportare in auge le politiche in favore delle classi meno agiate che, seppur tra mille contraddizioni e problematiche, hanno caratterizzato i precedenti mandati di Lula e Rousseff. Pur non negando i difetti dei governi passati del PT, la scelta della neutralità oggi significherebbe consegnare il Paese in mano ad uno dei peggiori esponenti della peggior classe dominante, un violento che trascina le folle imitando il gesto dello sparare con un mitra.