Per tutta l’estate abbiamo assistito a scene di gommoni stipati di esseri umani che, per cercare un futuro, una vita, un domani, si sono lanciati in viaggi senza meta, senza spazio, senza dignità. Abbiamo visto visi stanchi, provati, feriti di uomini, di donne, di adolescenti. E ci hanno fatto male. Ma mai come quelli dei bambini. Piccoli che dovrebbero pensare solo a giocare, a divertirsi, a colorare, si sono ritrovati in barconi affollati, a lottare tra la morte e la vita, tra il mare e la terra.
Nei loro occhi ho visto quello che mai dovrebbe esserci negli occhi dei nostri figli: dolore. Gli occhi di mio figlio sono spensierati, birichini, sempre felici, alle volte capricciosi. Gli occhi dei piccoli profughi sono adulti, seri, stanchi, tristi, preoccupati.
Mi sono sempre chiesta come un genitore a prendere tra le mani il suo bambino e salire su un gommone che non sa se mai arriverà a destinazione. Ma come faccio a giudicare io che, pur vivendo in una nazione che ti offre poco, non so cosa sia la guerra, non so come si possa sentire una madre che teme che una granata possa svegliare il proprio bambino dal sonnellino pomeridiano. Sono profughi siriani, iraniani, iracheni, pachistani. Ma prima di tutto sono bimbi. Bambini che non hanno più una altalena sulla quale dondolare, un lettino nel quale riposare, una cameretta nella quale giocare.
Immagini che fanno male a chiunque, ma che commuovono una madre, che in quei bimbi vede il proprio e si chiede come sia possibile che questi bambini, già così piccoli, debbano affrontare tante difficoltà.
E questi sono quelli a cui “va bene”, quelli che ancora hanno occhi per piangere. Ci sono poi i bimbi che a destinazione non ci arrivano mai. Le loro piccole anime vagano, finalmente libere, per i mari mentre i genitori si convincono di aver fatto comunque la scelta giusta, gli eurodeputati incolpano qualcun’altro della tragedia e i cittadini razzisti e ottusi manifestano sulle coste urlando “tornate a casa vostra“. Una casa che ogni bambino del mondo avrebbe il diritto di avere, ma che non tutti, purtroppo, hanno.