L’ennesima uscita fuori luogo, e questa volta non priva di potenziali conseguenze: Donald Trump ha deciso di ritirare gli Stati Uniti, il più grande produttore mondiale di gas serra, dall’Accordo di Parigi sul clima, trattato firmato da 195 Paesi nel mondo (tutti quelli membri delle Nazioni Unite, tranne Siria e Nicaragua) e già ratificato da 148 parti, compresi gli stessi Stati Uniti.
L’ATTACCO ALLE POLITICHE DI BARACK OBAMA
Il piano di Donald Trump è molto chiaro: distruggere tutto quel (poco, a dire il vero) di buono che Barack Obama ha fatto nei suoi otto anni di presidenza. Il primo presidente afroamericano ha avuto soprattutto due meriti nel corso dei suoi mandati, ovvero migliorare l’accesso alla sanità per le fasce più svantaggiate della popolazione e promuovere l’Accordo di Parigi sul clima. Ed è proprio su questi due punti che si sta concentrando la forza distruttrice dell’amministrazione Trump, che rischia di privare dell’assicurazione sanitaria diversi milioni di cittadini, oltre ad attentare all’esistenza della vita sulla Terra negando il riscaldamento climatico.
Nel caso dell’aspetto climatico, la scusa sarebbe quella di difendere i posti di lavoro dei cittadini statunitensi impegnati in settori quali quello industriale e quello minerario, ma in realtà sappiamo bene che ciò che interessa a Donald Trump è piuttosto proteggere il profitto dei grandi industriali che lo hanno sostenuto in campagna elettorale. Sin dall’inizio, il nuovo inquilino della Casa Bianca si è circondato di personaggi negazionisti del riscaldamento climatico, affidando ad uno di questi, il signor Scott Pruitt, addirittura l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e dimostrando di voler fare retromarcia rispetto ai progressi, seppur timidi, fatti dal suo Paese negli ultimi anni.
“Al fine di compiere il mio dovere solenne di protezione dell’America e dei suoi cittadini, gli Stati Uniti si ritireranno dall’accordo di Parigi sul clima”, ha dichiarato il presidente. “Non posso, coscientemente, sostenere un accordo che punisce gli Stati Uniti”.
“IN DIFESA DI PITTSBURGH”: L’ENNESIMA FIGURACCIA
Oramai ci abbiamo fatto quasi l’abitudine, ma, in questi primi mesi di presidenza, Donald Trump sta collezionando una serie di figuracce mai viste nella storia degli Stati Uniti, tanto da fare invidia ad alcuni politici nostrani. L’ultima è arrivata proprio in occasione dell’annuncio sull’Accordo di Parigi: “Sono stato eletto per rappresentare gli abitanti di Pittsburgh, non di Parigi”, ha tuonato il presidente, credendo di risultare intelligente.
Al di là del fatto che Trump sembrerebbe non aver capito che l’Accordo di Parigi prende semplicemente il nome dalla città nella quale è stato firmato, e che poco c’entra con gli interessi specifici della capitale francese, ciò che lo ha più posto in una posizione di imbarazzo è stata la pronta risposta del sindaco di Pittsburgh. Il democratico Bill Perduto ha infatti reagito attraverso i social network: “Come sindaco di Pittsburgh, posso garantirvi che seguiremo le linee guida dell’Accordo di Parigi per la nostra gente, la nostra economia ed il nostro futuro”, ha dichiarato, ricordando anche che, nella sua città, l’80% dei votanti ha optato per Hillary Clinton.
Donald Trump ha inoltre citato altre due città nel suo discorso: “È il momento di mettere Youngstown, nell’Ohio, Detroit, nel Michigan, e Pittsburgh, in Pennsylvania, che sono alcuni dei migliori luoghi di questo Paese, davanti a Parigi, in Francia”. Anche qui, alcuni attentatori osservatori hanno fatto notare come in tutte le città citate sia stata in realtà Clinton a vincere in occasione delle presidenziali, addirittura con una percentuale bulgara del 95% a Detroit.
TRUMP NON SA COME FUNZIONA L’ACCORDO?
Passando ad un aspetto più serio della vicenda, ci viene anche da domandarci se Donald Trump conosca effettivamente il contenuto dello stesso Accordo di Parigi. Nella migliore delle ipotesi, infatti, il presidente statunitense ha optato per una clamorosa operazione di propaganda, altrimenti dobbiamo supporre – non senza elementi a sostegno di questa tesi – che non conosca affatto l’argomento in questione.
Redatto nel 2015, l’Accordo di Parigi, come tutti i trattati internazionali, prevede delle procedure ben precise per poter permettere ad una delle parti contraenti di uscirne. Innanzi tutto, per entrare un vigore, un trattato internazionale ha generalmente bisogno della ratifica di una determinata quantità dei Paesi firmatari: in questo caso, la quota era fissata ad un numero di Paesi pari a 55, ma tale da raggiungere almeno il 55% delle emissioni di gas serra nel mondo. In base a questo principio, l’accordo è entrato in vigore solamente il 4 novembre 2016.
Perché questa digressione? La spiegazione è presto servita: per denunciare il trattato dopo averlo già ratificato, le parti contraenti devono aspettare almeno tre anni dalla sua entrata in vigore. Dunque, al di là delle dichiarazioni di Trump, la richiesta di uscita degli Stati Uniti non potrà essere presentata prima del 4 novembre 2019. Ma c’è di più: l’articolo 28 del trattato precisa che, qualora una delle parti contraenti voglia denunciare l’accordo, questa è tenuta a prevenire le altre parti con un anno di anticipo. Tradotto: nel migliore dei casi, e senza ulteriori contrattempi, gli Stati Uniti potranno abbandonare l’accordo di Parigi il 4 novembre 2020.
COME EVITARE L’USCITA DALL’ACCORDO DI PARIGI?
Le dichiarazioni di Donald Trump hanno suscitato una serie di reazioni sia negli Stati Uniti che negli altri Paesi. Solamente pochi uomini fedeli al presidente si sono esposti pubblicamente in favore della scelta del primo cittadino statunitense. Sindaci e governatori, soprattutto democratici, hanno invece espresso la loro preoccupazione. Tra coloro che hanno manifestato risentimento anche John Kerry, capo della diplomazia a stelle e strisce durante la presidenza Obama e tra i principali artefici dell’accordo di Parigi: “Si tratta di una rinuncia senza precedenti della leadership dell’America che pagheremo in termini d’influenza”, ha detto pragmaticamente. Persino il presidente cinese, Xi Jinping, ha tenuto a ribadire l’impegno del suo Paese per rispettare il trattato.
Intanto, i sondaggi mostrano come i cittadini statunitensi siano perlopiù contrari alla decisione di Donald Trump: ben il 92% di coloro che hanno votato Hillary Clinton alle ultime presidenziali avversano la scelta dell’ex rivale, ma, anche tra i suoi sostenitori, Trump incassa un sostegno pari solamente al 46% degli intervistati.
L’opposizione all’uscita dall’Accordo di Parigi è dunque molto decisa su tutti i fronti: uomini politici statunitensi ed internazionali, cittadini, e persino diverse multinazionali come Facebook o la Apple si sono schierate contro. A sostenere Trump restano soprattutto le grandi imprese industriali, quelle che effettivamente sono tra le principali responsabili dell’emissione di gas serra, insieme al settore dei trasporti ed a quello petrolifero, che no vogliono veder intaccata la loro supremazia economica. Una tale mobilitazione, potrebbe spingere Trump a rivedere i suoi piani sull’argomento, visto che, come abbiamo detto, ci sono ancora quattro anni di tempo prima che l’uscita prenda realmente effetto.
E qui viene l’ultimo ostacolo: come precedentemente dimostrato, l’uscita dall’accordo di Parigi non potrà essere effettiva prima del 4 novembre 2020, un giorno dopo lo svolgimento delle elezioni presidenziali dove supponiamo che Donald Trump andrà alla ricerca di un secondo mandato. Qualora in questi quattro anni nessuno riesca a fargli capire che il clima non è una tematica da ridurre all’ennesima buffonata, e che Trump decida pure di procedere nell’iter in vista della denuncia dell’accordo, c’è da pensare che la campagna elettorale possa spingerlo a rivedere i suoi piani, visto il grande disaccordo suscitato nella maggioranza dell’elettorato. Oppure, l’altra ipotesi potrebbe vedere vincitore un democratico che decida di fare marcia indietro, riportando il più grande inquinatore del mondo all’interno dell’accordo.
Forse, per fermare l’ultima follia trumpiana c’è ancora tempo, ma non dimentichiamo che l’Accordo di Parigi non è una mera dichiarazione di intenti, ma un processo necessario per salvare un pianeta che nell’ultimo secolo abbiamo, come genere umano, violentato, e per salvaguardare l’esistenza di tutte le specie viventi, compresa la nostra.