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Cambiamento di rotta nella Turchia del neo-sultano Erdogan

Postato il Luglio 3, 2016 Attilio De Alberi 0

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Il recente attentato all’aeroporto di Istanbul, di probabile matrice islamista, segna delle novità nella posizione strategica turca. Ma i curdi rimangono sempre fuori dal gioco.

Parla con YOUng dei nuovi sviluppi strategico-politici in Turchia, paese chiave nella scacchiera medio-orientale, Ertuğrul Kürkçü, presidente onorario del HDP, il Partito Democratico dei Popoli, strenuo difensore della causa curda, all’opposizione nel parlamento turco, terza forza politica nel paese, decisamente la più progressista.

Insomma un po’ il Syriza-Podemos anatolico,  nella costante mira del dittatoriale presidente Tayyp Erdogan, che sta addirittura cercando di cancellare l’immunità parlamentare dei suoi deputati Kürkçü venne condannato a morte nel 1971 quando ci fu il colpo di stato. Poi graziato,  si fece 14 anni di prigione, dove passò il suo tempo a tradurre molti libri, tra cui la biografia di Kal Marx. Oltre a essere un uomo politico e membro del parlamento, Ertuğrul Kürkçü è giornalista e ha cominciato la sua carriera come editore di un Enciclopedia del Socialismo e delle Lotte Sociali.

Lo ricordiamo per il suo appassionato discorso al congresso Cosmopolitica della Sinistra Italiana lo scorso febbraio.

Qual è stato il primo impatto politico dell’attacco all’aeroporto di Istanbul?

Si sono levate molte critiche nei confronti del governo perché, a quanto pare, i servizi segreti sapevano che stava per succedere qualcosa di grosso, ma non hanno fatto abbastanza per prevenire il massacro. Le forze di sicurezza sono riuscite al massimo a impedire che l’attacco venisse sferrato al maggiore edificio dell’aeroporto.

Ma si dice che questo episodio terroristico rappresenti un segnale preciso alla Turchia di Erdogan…

Sì, infatti avviene subito dopo i nuovi accordi tra la Turchia e Israele, ma anche dopo la distensione con Mosca.

Nel senso che DAESH ha capito che Erdogan ha cambiato in qualche modo la sua posizione nei suoi confronti?

Beh, in pratica è stata costretto. Erdogan è stato molto criticato per la sua posizione ambigua, quasi tollerante, se non addirittura favorevole verso DAESH, soprattutto in funzione anti-curda, e in qualche modo sta facendo marcia indietro, cercando di ricucire i rapporti con due paesi chiave nel gioco strategico medio orientale: Israele e la Russia appunto.

Parliamo del rapporto con Israele. A parte il tragico attacco di Israele alla nave turca che portava viveri a Gaza ne complesso i rapporti sono sempre stati abbastanza buoni…

Sì, perché innanzitutto c’è sempre stata una forma di cooperazione a livello militare. Ironicamente, il raffreddamento con Israele dopo l’attacco è stato uno dei cavalli di battaglia di Erdogan nella sua campagna presidenziale. Poi l’opinione pubblica turca è sensibile alla causa palestinese. Ma ora Erdogan ha capito che è giunto il momento di fare marcia indietro, anche perché ci sono grossi interessi commerciali in ballo.

L’aspetto commerciale si applica soprattutto ai rapporti con la Russia…

Certo: il boicottaggio dei prodotti turchi e l’interruzione del flusso di turisti hanno fatto cambiare l’attitudine di Erdogan.

Ma tornando al rapporto con Israele, la Turchia di Erdogan ha in comune con questo paese due nemici: la Siria di Assad e l’Iran, che però sono amici con la Russia. Quindi?

In realtà l’establishment turco ha fatto capire a Erdogan che era andato un po’ troppo in là con la sua belligeranza e che è soprattutto importante assicurare un ruolo più costruttivo del paese nello scacchiere medio orientale, in modo che possa un giorno avere un ruolo nella ricostruzione della Siria.

Alla fin fine però quelli che vengono potenzialmente tagliati fuori sono i curdi.

Naturalmente, anche se ora lo stesso occidente ne riconosce una funzione utile nella lotta contro DAESH. La triste ironia è che proprio grazie alla protezione turca di DAESH in funzione anti-curda, ora DAESH è diventata molto forte proprio all’interno della stessa Turchia, dove può contare molti seguaci.

Questo sembra confermare ulteriormente quello che è sotto gli occhi di tutti: DAESH si sta indebolendo come Stato Islamico e continua a perdere terreno, ma continua ad essere presente al di fuori dei suoi presunti confini.

Sì, questo è ormai il trend. E l’attacco all’aeroporto di Istanbul ne è una triste prova.

Quindi sta diventando quasi un franchising, che potrebbe continuare anche quando il sedicente Stato Islamico venisse abbattuto.

Il pericolo futuro è proprio questo, un po’ com’è successo con Al Qaeda. Il jihadismo estremista, fondamentalista è diventato quasi una moda tra molti giovani mussulmani. Ma al tempo stesso bisogna capire cosa c’è dietro, soprattutto in paesi come l’Iraq e la Siria.

Ossia?

L’esclusione dei sunniti dalla vita civile, sociale ed economica. Alla fin fine la soluzione di lunga durata rimane sempre la stessa: una ricostruzione politica sociale ed economica nel Medio Oriente che elimini qualsiasi forma di esclusione basata sulle credenze specifiche.

Molti in Europa non vedono di buon occhio i tentativi della Turchia di acquisire facilitazioni per i propri cittadini e addirittura l’ambizione di far parte dell’UE proprio a causa dell’atteggiamento dittatoriale di Erdogan.

Sì, questa è una problematica molto grave che nasce dall’ostinato tentativo di Erdogan di rimanere al potere. Sa che se si dimettesse un giorno avrebbe dei seri problemi legali nati da certe transazioni compiute attraverso il figlio. Quindi la sua è una pura lotta per il potere e usa soprattutto repressione contro la popolazione curda per rimanere in sella.

C’è poi in ballo la cancellazione dell’immunità parlamentare per i membri del suo partito proprio perché paladino della causa curda. Come state reagendo a questa mossa?

Qualora ci fossero delle accuse a livello giudiziario nei nostri confronti abbiamo deciso, collettivamente, di rifiutare di presentarci in tribunale, perché riteniamo che questo sia una forma di colpo di stato interno imposto dal partito di maggioranza di Erdogan.

Quindi resistenza a oltranza?

Esatto.

Questo attacco al vostro partito, l’HDP, è visto anche come un attacco alle donne.

Sì, perché il nostro è l’unico partito con un 50% di rappresentanza femminile in parlamento. Negli altri partiti le donne sono una minoranza.

Ma le donne nell’HKP (il partito di Erdogan n.d.r.) non si ribellano di fronte a questo?

In realtà sono molto obbedienti, sottomesse, anche se ironicamente fuori dal parlamento le donne raggiungono più del 50% del numero di attivisti. Sono donne che agiscono molto nel campo sociale, coin i poveri delle città, che rappresentano un grosso serbatoio di voti per Erdogan, ma non si occupano dei diritti femminili.

Qual è la posizione del vostro partito nei confronti dell’accordo Turchia-UE?

Ci siamo opposti a questo accordo perché fondamentalmente va contro i valori dell’Europa stessa e contro i diritti dei rifugiati sanciti dalle Nazioni Unite attraverso l’Alta Commissione.

C’è un futuro per un Rojava (il cantone curdo socialista e secolare n.d.r.) indipendente in una futura ricostruzione della Siria?

Chiaramente questa sarà una sfida epica per ottenere, se non una totale indipendenza, almeno la maggiore autonomia possibile dentro i confini di una nuova Siria. I curdi del Rojava cercheranno di ottenere un appoggio a livello internazionale. Il loro grande nemico rimane la Turchia di Erdogan, ma questo suo atteggiamento più soft potrebbe portare a una conclusione positiva.

Autore

  • Attilio De Alberi
    Attilio De Alberi

    Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.

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#Erdogan#Ertuğrul Kürkçü#turchia

Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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