Ogni volta che mi presentano qualcuno o conosco qualcuno di nuovo il mio modo di pormi è abbastanza standard. Poche parole: come mi chiamo, quanti anni ho, che lavoro faccio, dove vivo, quali sono i miei interessi. Magari nemmeno in questo ordine e nemmeno così consecutivamente. Non sono solito inondare l’altro con tutta la mia vita – anzi tutt’altro – ma, diciamo, che provo a mettere in primo piano quelle informazioni di base che mi permettono di far capire chi sono. Allo stesso tempo, provo a ricavare quelle informazioni di base che mio permettano di capire chi sia il mio interlocutore. Più o meno. Diciamo, l’essenziale.
Il questionario standard è già risposto per tutti coloro che conosco. Almeno per la gran parte. E, quindi, ci si orienta verso altre domande. Magari sei mio amico o, almeno, conoscente e, pertanto, so già abbastanza di te. Quindi bypasso l’interrogatorio e chiedo «come stai?». La mia risposta standard è «bene». Ma proprio standard-standard, automatica e valida anche nel pieno di un terremoto o di un crollo di palazzo. «Bene». Punto.
C’è chi azzarda, chi si spinge verso l’«insomma», chi ci mette anche un tocco d’espressività: «eh, insomma», oppure «beh, insomma» (la b fa una certa differenza). Ma il come sto, quello vero, talvolta sfugge. Ed il più delle volte anche all’interlocutore sfugge. Tanto il mio, quanto il suo.
Il comestai è una domanda sulla quale si corre, passa spesso. Resta lì, nell’angolino, una formalità. Ha quasi il ruolo della maiuscola ad inizio della frase: serve per cominciare, è pura forma e basta. Il problema è che la domanda la faccio troppo raramente a me stesso. Diciamo che non me la faccio mai. Finisco per pensarci solo quando un interlocutore – occasionale o noto che sia – comincia a rispondere onestamente al mio «come stai?». Solo a quel punto, magari, mi fermo, ci rifletto, resto quasi spaventato da quel blocco, tanto emotivo quanto formale, che non sbroglia la matassa. «Come sto? Boh, magari avessi una risposta tanto chiara quanto la tua».
Sono fin troppo abituato a fare da risolutore di problemi. Un problem solver professionista (anzi, solution manager tanto è la certezza di cadere in piedi: come a dire «tanto so che non sarà una catastrofe»). A dire il vero, di problem solver è pieno il mondo. È pieno anche il mio gruppo di amici. Ed anche la mia rubrica del cellulare. Il bello è che siamo tutti risolutori di problemi… altrui. Nel tempo si sviluppa una competenza, una professionalità, una esperienza sul campo nella risoluzione di problematiche psico-storico-tecnico-esistenziali che, al confronto, uno psicanalista è solo un dilettante da sagra di paese, poco più di un saltimbanco.
Ma, chissà perché, questa competenza non risolve i propri problemi. La genialità della risoluzione, l’intuizione geniale coglie nel segno, viola i più arguti sistemi di criptografia spirituale ma non apre il cancelletto, appena appoggiato, dietro l’angolo del cuore del problem solver. Perché?
Se dovessi fare un discorso di sincerità, sincerità per sincerità, forse non ho mai messo in mano al mio interlocutore tutta la storia del problema. Tutta la mia storia. Un po’ per paura, un po’ per il timido pudore che non può non chiudere quello che è, di fronte al dolore, il racconto è sempre stato un po’ monco. Forse diversamente monco a seconda dell’interlocutore.
L’onestà del discorso è, innanzitutto, personale. E quante volte un problema, un dramma, si evita di toccare anche in prima persona. Diventa un segreto, un mostro da cui fuggire costantemente e su cui non ritornare. In mezzo al racconto di una vita, in mezzo al vissuto di una vita si compone una nuvola di parole nascoste. Anzi, meglio, non dette. Un po’ per timore, un po’ per rispetto, un po’ perché costruirebbero un muro di mattoni che si crede possano essere invalicabili. E, intanto, senza costruire alcun muro si ghettizzano le idee, si evita di passare per una strada che, altrimenti, almeno secondo ognuno farebbe soltanto male.
Con o senza onestà, tutti i nodi vengono al pettine. E talvolta ci arrivano così ingarbugliati che pensare di scioglierli diventa impossibile. Ma se al nodo si dedica pazienza, ci si sofferma, si studia l’ordito dei fili, si applica la giusta forza, allora si inizia a intravedere quella regolarità del filo che, tra le sapienti istruzioni della spola può arrivare a tessere una parte di questa vita. Giusta o sbagliata che sia, una parte mia e solo mia. E che mi appartiene. E che dovrebbe essere al centro di ogni premura.
Condividere è difficile. Soprattutto quando si parla di cose importanti, piccole o grandi che siano. Condividere richiede impegno, cura, onestà. Presenza. Ed il primo interlocutore con cui condividere coincide con il mio cuore. Se non dico a me stesso cosa c’è che non va, se non mi chiedo come sto, allora difficilmente saprò cogliere come sta l’altro. Sarò solo incastrato in una parte non mia che mi ostino ad interpretare per il semplice gusto di farlo, solo per raccontare una storia diversa. Magari in parte più figlia di un desiderio che di una onestà.
La vera domanda diventa, allora, «ma io ci tengo a me stesso?». Non è banale perché, troppo spesso, si insegue, con ingenua frenesia, questa o quella situazione, questo o quell’impegno, questa a quella persona. Ed in tutto in questo inseguimento ci si dimentica di sé. È normale, allora, che ci si perda nei problemi altrui. Peggio, che ci si accontenti della soluzione altrui dimenticando quello che si cerca.
La vera sorpresa è quando davvero ci si mette a confronto con qualcuno che sembra possa capirci. Io tendo a diventare diffidente, ho quella sana paura che deriva dal timore di farmi male. Un po’ per esperienza ed un po’ perché la fiducia non è un’occasione ma un legame – foedus, in Latino, vuol dire, appunto, «patto», «alleanza» – che richiede tempo. E, allora, non conta un discorso, né due, né tre, né centomila. Ma la cura che si mette nel costruire un rapporto di confronto sincero, di profondità. Ci vuole tempo ed attenzione per creare fiducia.
Accadono delle situazioni in cui si è più propensi a dialogare. È tanto un rischio quanto una scommessa, un intreccio di cose importanti. Ci può essere una delusione, certo, ma una voce di conforto può zittire, molto spesso, tutta una confusione nascosta. Siamo fatti di parole non dette, è un elemento della costituzione umana, una constatazione. Spesso ce le coccoliamo fin troppo, ci torniamo su infinite ed infinite volte. Ma quanto pesa, sul cuore, una parola non detta? Non varrebbe la pena provare a liberarla?