Lungo il mio percorso artistico le rovine sono apparse come qualcosa che proprio nel loro distruggersi o rigenerarsi scavalcano il tempo, per far riemergere profili diversi che di volta in volta assumono anche un rapporto diretto col pensiero creatore.
Nuove sensazioni s’associano al ricordo in concetti che ho già espresso: “La valenza della rovina riporta la fine ad altri inizi, alla morfogenesi di una trama arcana cui appartiene l’esempio del reperto archeologico, nato dalle fondamenta, che proprio nel ritornare fondamenta ricompone in esso lo scheletro originario“.
L’artista continuamente si pone interrogativi sul passato, così nel tentar di mettere la rovina in dialogo di vicinanza con forme artistiche contemporanee, pensai ai maestri del ‘500 ed agli incisori e viaggiatori settecenteschi che subirono dai corrosi monumenti dei suoli italici un vero fascino attrattivo.
La storia oscilla d’eventi, esiste una magnificenza di rovina che Piranesi, specialmente nelle vedute romane, rappresentò con tecnicismo virtuoso, evocando invenzioni di antichità incarcerate nella grandezza di pietrificate malinconie paesaggistiche.
Mappe guida del pensiero, mi risultarono alcune cartografie di Egitto, Grecia ed Etruria e rilevanti m’apparvero le vestigia di Roma, Pompei, Siracusa, Ostia antica e di tanti altri centri, la cui lista sarebbe troppo lunga per poterli descrivere.
Tuttavia, se pur tanto devo a questi luoghi, il primo che assunse importanza per comprendere il valore della rovina è stato Locri Epizefiri, colonia magnogreca della Calabria ionica meridionale, fondata intorno alla metà del VII secolo a.c. da coloni provenienti dalla Locride Opunzia o Ozolia.
Territorio di rovine e piaceri, in Locri, la città di Nosside e Zaleuco, si praticava il culto della prostituzione sacra all’epoca diffusa in parecchie culture del Mediterraneo, consistente in un vero e proprio atto sessuale che come rito sacrale veniva esercitato nei santuari da Ierodule o sacerdotesse, che esigevano dei contributi in denaro per arricchire maggiormente il tesoro del tempio.
Ritengo inopportuna una descrizione delle presenze monumentali del sito (che naturalmente invito a visitare), perché non farei altro che dare una lettura soggettiva, filtrata perlopiù da testi conosciuti oggi di facile consultazione attraverso l’utilizzo di strumenti digitali.
Potrei parlare a lungo del tempio ionico di Marasà, del quartiere artigianale di Centocamere o di quant’altro, ma principalmente ad avere notevole influenza su di me furono i Pinakes, tavolette votive decorate a rilievo, risalenti al V secolo a.c. che testimoniano una produzione artistica di scuola greca.
Nella loro prodigiosa visione iconografica molte di esse narrano le vicende di Persefone e il suo rapimento da parte di Ade, diverse invece alludono alla gaiezza di ragazze che dall’età adolescenziale passano a quella adulta e altre ancora rappresentano oggetti d’utilizzo personale o le redivive scene che avvenivano dentro i recinti della polis.
E’ Paolo Orsi, il grande archeologo di Rovereto che li riporta alla luce in località Mannella e su tal ritrovamento scrive: ”Bastano i celebri Pinakes, fonte inesauribile d’indagine per gli studiosi della religione e dei culti, per far la gioia degli artisti e la gloria di un museo”.
Immerso nella curiosità alimentata dalla leggenda di Persefone, in passato più volte mi soffermai al crocevia del mistero asserendo: “La dea fanciulla ricompone le opposte scene del mito: l’una porta luminosità all’arcano mondo sotterraneo, l’altra dà origine ad una creazione legata al mondo del risveglio, una Persefone che nel decondizionare il fato, segue le ascendenti circostanze della vita e sperimentando nella catabasi il dramma che l’ha toccata, fa emergere tutta la sua modernità”.
Da rovine ioniche la sera sopraggiunge al tramonto.
Su orizzonti crepuscolari onde di cospirazioni varcano acque capaci di trasmettere ad assolate ombre vetusti effluvi, che espandono la polvere dei secoli, l’essenzialità della spoglia struttura che edifica la fragilità delle cose..
Qui, ove le civiltà emergono da corpi di pietra, cirri nutriti di bianco accompagnano aldilà dei sensi la leggerezza del cielo, tetto incommensurabile e mistero d’anima, che ben oltre il visibile delinea le destinazioni.
La spontanea naturalità di piante e di erbe s’impossessa e si sovrappone alle rovine, creando fioriture di colori essiccati che nuovi appaiono ai cicli delle stagioni.
Prefigura un’illusionarietà di forme la rovina, il cui riflesso lungo le metamorfosi del disfacimento, nel lento consumarsi di una funzione, cancella la stessa idea di morte, riconoscendo eterno ciò che si riduce a frammento.
La pittura nella forza temporale del viaggio è quando abbandona la definizione di forma che riesce appieno ad esprimere la simbolicità di uno scavo che rende più abitabile lo spazio della bellezza.
Le rovine sono orientative delineazioni che hanno puntualizzato la via del mio fare pittorico, l’atto di creazione che assume notevole importanza, quando nell’incedere si comprende che nulla sparisce e che ciò che si pensa disperso o perduto permane rilievo incorporante di riporti immaginativi, che ad ogni condizione mutante danno vita a qualsiasi assenza.
di Bruno Varacalli