Al confronto la crisi greca è uno scherzo. I turbamenti dell’euro una lieve increspatura nel mare dell’economia mondiale. Per molti commentatori non c’è dubbio: il crollo dei mercati azionari in Cina mette paura sul serio.
Quel che sta succedendo in diretta è un terremoto paragonabile alla crisi del 2008-2009. Le prime avvisaglie si sono avute a giugno. Poi, nel mese successivo, le borse cinesi sono arrivate a perdere in alcuni giorni fino all’otto per cento, toccando record negativi da otto anni a questa parte. A far tremare gli investitori è il timore che la congiuntura possa piegare il gigante mondiale delle esportazioni. In effetti, i dati della produzione industriale non sono incoraggianti. I profitti cominciano a scendere rispetto allo scorso anno. Gli effetti sulle principali piazze finanziarie del pianeta non si sono fatti attendere. Con l’abituale enfasi che li contraddistingue, i media hanno già avuto modo di ribattezzare il 24 agosto con il “lunedì nero”.
C’è però chi mette in dubbio una lettura catastrofista degli eventi e preferisce accreditare un’altra versione. In Cina le borse crollano, è vero, ma non è paragonabile al 2008. In quegli anni la borsa di Shanghai perse quasi 4000 punti in pochi giorni. Stavolta invece Shanghai – che pure è la capitale della bolla speculativa – ha perso “soltanto” 1500 punti. In effetti, a luglio, gli esperti minimizzavano gli effetti del crollo dei titoli, ritenendola poco più di una tempesta di carta che non avrebbe messo a rischio il sistema bancario. Gli investimenti nei titoli in caduta libera – stando ad alcune stime – rappresenterebbe solo il sei per cento degli investimenti complessivi delle banche. Le perdite dovute al deprezzamento dei titoli sarebbero quindi modeste per il sistema bancario, appena il due per cento del bilancio complessivo.
Eppure, ad oltre un mese dal primo terremoto, le turbolenze non cessano. Un paio di giorni fa le borse di Shanghai e Shenzhen sono precipitate di nuovo. Il più importante indice azionario cinese, lo Shanghai Composite, è andato giù all’apertura degli scambi del 4,4 per cento, fino a quota 3028. Poi, nel corso della giornata, i mercati sono riusciti a compensare in parte le perdite. Ma l’andamento in questi giorni rimane altalenante. A distendere parzialmente gli investitori è la voce secondo cui Pechino starebbe per pompare oltre 100 miliardi di Yuan sui mercati finanziari tramite la China Securities Finance, un’istituzione finanziaria governativa. Nel giro di nove mesi, la banca centrale cinese ha già ridotto i tassi d’interesse per cinque volte consecutive, ma senza grossi risultati finora. Il governo è ricorso anche a vigorose iniezioni a suon di miliardi per acquistare titoli in sostegno dei mercati. Le turbolenze non cessano e, nel frattempo, Pechino non può far altro che applicare le medesime ricette messe in atto in crisi analoghe dai paesi “capitalistici” in tutte le salse. Di loro, le autorità cinesi, hanno pensato di portare in processo sulla scena pubblica i presunti colpevoli della speculazione finanziaria. Un funzionario del comitato di sorveglianza della borsa, per esempio, ha ammesso in televisione di aver utilizzato la propria posizione, in cambio di mazzette, per aiutare una società quotata in borsa a far salire il valore delle sue azioni.
Ma che cosa è accaduto veramente? In fondo, la verità è davanti agli occhi.
Pechino si trova per la prima volta davanti a una crisi finanziaria tipica delle economie capitalistiche, vale a dire a una bolla speculativa che improvvisamente scoppia. L’amaro sorpresa è che, nonostante la variante socialista dell’economia di mercato, le crisi che quest’ultima genera dal proprio grembo sfuggono a ogni tentativo di controllo. La Cina è ormai la seconda economia mondiale, ha una popolazione di un miliardo e mezzo di persone e, a prezzo di forti contrasti interni, ci ha abituati da un quarto di secolo a questa parte a performance economiche da record. Dalla primavera dello scorso anno, il boom cinese degli scambi finanziari ha toccato livelli stratosferici per parecchi mesi di seguito.
Ma non è stato un processo spontaneo. Si è trattato di scelta di politica economica.
La dirigenza cinese ha inseguito l’obiettivo di un gioco al rialzo dei titoli azionari – del resto, in linea con l’idea di poter utilizzare e dirigere a proprio vantaggio lo sviluppo capitalistico del paese. Un obiettivo perseguito con tutti i mezzi possibili. Milioni di cittadini si sono visti incoraggiati a investire i propri risparmi e a comprare azioni. Acquistare titoli quotati in borsa significava elevare il proprio status sociale, inseguire uno stile di vita all’insegna del Enrichissez-vous. Non pochi risparmiatori hanno dato fondo ai risparmi, alcuni di loro si sono persino indebitati fino al collo per fare la propria parte nel grande sogno cinese. Anche il boom immobiliare della costa è stato alimentato dalla bolla speculativa. Alla fine, però, è successa la stessa cosa accaduta in passato ai paesi capitalistici. Gli economisti di Pechino hanno scoperto che le bolle finanziarie si possono copiare, ma non controllare.
Uscirne, non è una questione semplice. Non è bastata la riduzione dei tassi d’interesse. Non è bastato neppure ricorrere a una parte delle riserve monetarie per i crediti all’industria. A Pechino non è riuscito neanche di indirizzare i capitali delle banche nell’economia reale prima della catastrofe. Il gioco al rialzo delle azioni è invece proseguito, mentre il ritmo di crescita delle esportazioni della manifattura è cominciato a calare. Come in altre situazioni analoghe della storia contemporanea, anche stavolta le turbolenze finanziarie stanno diffondendo in Cina il panico. Sembra un sistema sulla soglia del caos, tutti cercano confusamente di vendere. E i capitali fuggono. La scelta di svalutare lo yuan ha accelerato il processo in atto. Degli oltre duemila miliardi di dollari volati tra il 2009 e il 2014 nei paesi emergenti, una buona metà si è bruciata.
Le borse cinesi erano sofferenti anche nella crisi del 2008-2009. Ma allora il paese era la locomotiva delle esportazioni, grazie anche a un programma di investimenti messi in atto dal governo di Pechino per scongiurare la crisi finanziaria. Oggi la perdita nelle borse cinesi è più contenuta di allora, ma la differenza è che l’economia del paese non cresce più a ritmi dell’otto per cento all’anno. E, quel che è ancor peggio, è aumentato invece l’indebitamento privato, che ormai raggiunge il 185 per cento del prodotto interno lordo. La bolla speculativa, la facilità di accesso al credito, ha permesso al ceto medio cinese di diventare proprietario di case, automobili, azioni. Anche milioni di lavoratori con modeste risorse hanno potuto partecipare al sogno, ma a prezzo di contrarre debiti ingenti rispetto al proprio reddito.
Cosa accadrà ora? Il rischio, per molti, è di perdere tutto. Lo scoppio della bolla immobiliare può a sua volta accelerare l’impoverimento di molti strati sociali. Già adesso un terzo del patrimonio nominale dei detentori di azioni si è volatilizzato. Non i debiti, però, quelli restano. E se i debitori diventano insolventi, i crediti vantati dalle banche diventano, a loro volta, carta straccia. E se, infine, crollano le banche, vengono meno le fonti di finanziamento dell’industria. La Cina si è fabbricata in casa e con le proprie mani la sua prima, genuina, crisi capitalistica.