È notizia di queste ore, anche se per gli osservatori più attenti non rappresenta di certo una sorpresa: Donald Trump voleva realizzare un piano per l’invasione armata del Venezuela e far cadere il governo di Nicolás Maduro, cosa che lo stesso capo di stato di Caracas aveva già detto più volte in passato.
A rivelare questa indiscrezione è stata l’agenzia Associated Press (AP), presto ripresa dalla stampa di tutto il mondo. Secondo le fonti di AP, nel mese di agosto 2017 il presidente avrebbe lanciato l’idea di un’invasione armata del Paese sudamericano presso il famigerato Studio Ovale della Casa Bianca, cogliendo di sorpresa l’allora Segretario di Stato Rex Tillerson e l’ormai ex consigliere nazionale per la sicurezza Herbert Raymond McMaster (chissà che la liquidazione di entrambi tra marzo ed aprile non abbia a che vedere anche con la questione venezuelana).
Secondo questa fonte interna alla Casa Bianca, rimasta anonima, Tillerson e McMaster avrebbero poi dissuaso Trump dall’idea dell’invasione armata, spiegando che un’azione di forza nel continente latino-americano avrebbe potuto incrinare i rapporti con gli altri Stati della regione. Paradossalmente, infatti, per gli Stati Uniti è oggi molto più facile agire militarmente in aree distanti come il Medio Oriente, mentre per ragioni storiche potrebbe esserci una reazione molto più grande nel caso di un attacco ad un Paese dell’America Latina, dove permane una grande diffidenza nei confronti degli yanquis.
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Nella storia degli Stati Uniti, infatti, non mancano le azioni di forza nell’emisfero occidentale, come il noto caso della fallita invasione della Baia dei Porci a Cuba, nel 1961, fino a giungere alle invasioni degli anni ’80 a Panama e sull’isola di Granada. Dagli anni ’90, tuttavia, la furia bellica a stelle e strisce ha preso di mira unicamente Paesi di altri continenti (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria…), lasciando alla diplomazia, ai colpi di Stato o all’appoggio a gruppi paramilitari le questioni riguardanti il continente americano.
Tuttavia, sempre secondo le fonti riportate da AP, Trump non si sarebbe arreso e, qualche giorno dopo, avrebbe rilanciato l’idea dell’invasione del Venezuela, coinvolgendo anche il presidente colombiano Juan Manuel Santos, versione confermata anche da due alti ufficiali di Bogotà. Ancora, nel mese di settembre, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’inquilino della Casa Bianca avrebbe discusso dello stesso argomento con Santos e con altri tre capi di stato latino-americani. Tutti e quattro i leader, comunque, avrebbero risposto picche.
La volontà di attacco armato al Venezuela dimostra ad ogni modo quali siano i piani di Washington nei confronti di Caracas, ovvero quelli di destabilizzare il Paese il più possibile per permettere la caduta di Nicolás Maduro, la fine della rivoluzione bolivariana e l’instaurazione di un governo di destra liberista e filostatunitense. La speranza è quella di gettare il popolo nella disperazione a tal punto da insorgere contro il governo. La tattica in questione, del resto, non ha nulla di nuovo, ma fu già spiegata da Lawrence Eagleburger, ex Segretario di Stato di George W. Bush, che pianificò un attacco contro il Venezuela di Hugo Chávez. In un’intervista a Fox News, Eagleburger dichiarò: “Dobbiamo usare gli strumenti economici per far peggiorare l’economia venezuelana in modo che l’influenza di Chávez nel Paese e nella regione diminuisca. Tutto ciò che può essere fatto per far sprofondare l’economia venezuelana in una situazione difficile, è ben fatto”.
Tornando indietro nel tempo, poi, già nel 2013, in piena presidenza Barack Obama, era stata WikiLeaks a svelare alcuni documenti di grande interesse. Il sito internet diretto da Julian Assange, infatti, rese pubbliche delle e-mail riguardanti il Venezuela di Hugo Chávez e l’ostilità che gli Stati Uniti dimostravano già allora di avere nei confronti di questo Paese. Gli argomenti trattati erano diversi, e tra questi c’è quello del petrolio, con un’analisi approfondita delle aziende che investono nell’economia venezuelana. Gli archivi pubblicati, risalenti al periodo che va dal luglio 2004 al dicembre 2011, dimostravano come almeno due compagnie straniere (Stratfor e Canvas) avessero diretto le azioni dell’opposizione venezuelana a partire dal 2006, con un intensificarsi delle attività in occasione della campagna per le elezioni parlamentari del 2010. Nel tentativo di rovesciare il presidente Hugo Chávez, erano state previste diverse tattiche, tra le quali la presenza di infiltrati nei movimenti studenteschi. Questi metodi erano stati precedentemente messi in pratica dal movimento Otpor in Serbia che, con l’appoggio della CIA, riuscì a destituire l’allora presidente Slodoban Milošević nell’anno 2000. I documenti dell’impresa di spionaggio Stratfor dimostravano come gli Stati Uniti fossero sempre più disperati per via delle ottime relazioni e delle alleanze che il Venezuela intrattiene con gli altri Paesi del continente latinoamericano, mettendo a repentaglio la secolare egemonia statunitense sulle Americhe: non è un caso, dunque, che poi gli Stati Uniti siano partiti alla riscossa, favorendo colpi di Stato e rovesciamenti di governi progressisti nel continente, al fine di instaurare invece governi liberisti e favorevoli a Washington.
Naturalmente, le ultime rivelazioni di Associated Press non possono che confermare quanto diciamo da tempo circa i piani degli Stati Uniti per destabilizzare e rovesciare il governo venezuelano. L’unica giustificazione che potrà trovare la Casa Bianca – dalla quale non sono arrivate dichiarazioni a riguardo, e dunque non sono arrivate neppure smentite – sarà ancora la favola trita e ritrita dell’esportazione della democrazia e dell’abbattimento di un “malvagio” dittatore. Per capire, una volta per tutte, come agiscono gli Stati Uniti sullo scacchiere globale, si può fare riferimento alle parole di George Frost Kennan, figura chiave del Dipartimento di Stato degli USA nel secondo dopoguerra. Nel documento intitolato Policy Planning Study 23, Kennan scriveva: “La nostra attenzione deve essere concentrata ovunque sui nostri obiettivi nazionali immediati […]. Dobbiamo smetterla di parlare di obiettivi vaghi e irreali come i diritti umani, il miglioramento delle condizioni di vita e la democratizzazione. […] Meno saremo ostacolati da slogan idealistici, meglio sarà”. Come fa notare Noam Chomsky, il documento è stato a lungo tenuto top secret: “Per rasserenare il pubblico, era necessario strombazzare gli ‘slogan idealistici’ (come accade costantemente anche adesso), ma in quel caso di pianificatori stavano parlando tra di loro”.
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In pratica, quello che ci sta dicendo uno dei pensatori più importanti dei nostri tempi, è che ogni volta che sentiamo parlare dai mezzi di comunicazione ufficiali di “diritti umani e democratizzazione”, in realtà si tratta solamente di una copertura per occuparsi dei “nostri obiettivi nazionali immediati”, ovvero quelli degli Stati Uniti. Il caso del Venezuela non fa certo eccezione, soprattutto in un continente, come l’America Latina, che per Washington ha sempre rappresentato il proprio giardino di casa. Lo stesso Kennan si riferiva a questa terra, che si estende dal Messico alla Patagonia e che ha la sfortuna di trovarsi sullo stesso continente degli Stati Uniti, non con un termine geografico, ma parlando de “le nostre materie prime” e, parlando del Venezuela, l’avrebbe probabilmente chiamato “petrolio“.