Mentre la stampa nostrana è impegnata nella campagna di diffamazione nei confronti del Venezuela di Nicolás Maduro, dovrebbero essere ben altre le preoccupazioni riguardanti il continente sudamericano. Pensiamo, ad esempio, alle elezioni presidenziali colombiane, delle quali abbiamo parlato in diversi articoli, e che proprio in queste ore hanno visto l’ennesimo omicidio politico ai danni di un attivista sociale, oppure all’incarcerazione dell’ex presidente brasiliano Ignacio Lula, impossibilitato a ripresentarsi per la prossima tornata elettorale. Non meno grave, poi, è la situazione in Argentina, dove il presidente liberista e filostatunitense Mauricio Macri sta trascinando il Paese, ancora una volta, sull’orlo della crisi economica ed istituzionale.
LA PRESIDENZA DI MAURICIO MACRI
In carica dal dicembre 2015 in qualità di Presidente dell’Argentina, il cinquantottenne Mauricio Macri ha goduto, sin dall’inizio, dell’appoggio delle potenze occidentali ed in particolare degli Stati Uniti, che dopo gli anni del compianto Néstor Kirchner e di sua moglie Cristina Fernández de Kirchner sono tornati a dettar legge in uno dei Paesi più importanti dell’emisfero australe. Ciò ha permesso al Presidente in carica di attuare politiche repressive ed antipopolari, incassando però il sostegno dei mass media, che hanno così passato sotto silenzio questo aspetto. Fatto sta che Macri è riuscito a vincere anche le elezioni legislative dello scorso 22 ottobre, prima che la situazione precipitasse ulteriormente.
I conoscitori della storia politica recente del Sud America ricorderanno Carlos Saúl Menem, Presidente argentino dal 1989 al 1999, colui che con le sue scellerate politiche iperliberiste spianò la strada alla nota crisi che distrusse l’economia del Paese a cavallo dei due secoli. Una crisi della quale Menem non pagò neppure le conseguenze, visto che la fase più acuta si ebbe quando al potere era già salito il suo successore, Fernando de la Rúa, che si trovò tra le mani un Paese ridotto economicamente in brandelli. L’Argentina ritrovò gradualmente la stabilità politica ed economica con l’elezione, nel 2003, di Néstor Carlos Kirchner, e successivamente con la presidenza di sua moglie Cristina Kirchner.
Le elezioni del 2015 hanno invece segnato un netto cambio di rotta con l’investitura di Mauricio Macri, di chiare origini italiane, candidato della coalizione Cambiemos e fiero assertore del neoliberismo, proprio come Carlos Menem. Il suo nome fece scandalo già pochi mesi dopo l’elezione, comparendo all’interno dei documenti noti come Panama Papers, pubblicati dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. Macri si è infatti rivelato amministratore delegato di due società offshore con sede alle Bahamas, risalenti all’epoca in cui era sindaco della capitale Buenos Aires.
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Disastrosi sono anche i risultati ottenuti da Macri con la sua politica economica di stampo liberista. Nei primi due anni di presidenza, la disoccupazione ha registrato un forte aumento, così come il tasso di povertà. A calare in maniera drastica è stato invece il potere d’acquisto dei cittadini argentini, che hanno dovuto far fronte all’impennata dei prezzi di alcuni servizi fondamentali quali trasporti pubblici, luce, acqua, gas (nei primi due anni l’inflazione ha superato il 500%, mentre oggi ha raggiunto addirittura il 1.300% in alcuni settori). L’autoproclamata “rivoluzione dell’allegria” si è rivelata certamente tale per gli speculatori e per la classe dominante, mentre si è trasformata piuttosto in una “rivoluzione delle lacrime” per le classi popolari.
Come se non bastasse, molti dei provvedimenti di liberalizzazione voluti da Macri sono stati fatti passare senza l’approvazione del Parlamento, utilizzando la formula del decreto legge. È quanto avvenuto con il settore delle telecomunicazioni, dove il presidente in carica ha distrutto con un colpo di penna la legge voluta da Cristina Kirchner per evitare la concentrazione del settore nelle mani di grandi gruppi industriali e preservare la pluralità dell’informazione. Senza parlare della svalutazione del peso argentino per implementare le esportazioni di materie prime agricole e minerarie, avvantaggiando ancora una volta le grandi multinazionali dei settori, mentre le classi popolari hanno dovuto far fronte ai forti tagli nell’amministrazione pubblica ed ai licenziamenti nel settore privato.
Nel giugno dello scorso anno, il deputato Darío Martínez, membro della vecchia coalizione d’opposizione Frente para la Victoria (FpV), ha deciso di denunciare per truffa il presidente Mauricio Macri, reo di aver emesso dei titoli di stato con un tasso di interesse del 7.125% e della durata di cento anni, ed aver annunciato di voler aumentare questo tasso fino al 7.95%. La denuncia ha riguardato anche tre membri del governo di Macri: il capo del gabinetto, Marcos Peña, il ministro del tesoro, Nicolás Dujovne, e quello dell’economia, Luis Caputo. L’iniziativa del deputato dell’opposizione ha tutte le ragioni di esistere: il metodo utilizzato è quello del cosiddetto debito “eterno” o “perpetuo”, visto che il debitore è costretto ad indebitarsi sempre più per riuscire a ripagare i propri creditori. Si tratterebbe dunque di una forma perpetua di spostamento dei capitali pubblici nelle mani dei privati.
Pochi giorni prima delle elezioni legislative dello scorso ottobre, poi, è avvenuto anche il ritrovamento del corpo senza vita dell’attivista Santiago Maldonado, dopo quasi tre mesi di ricerche. A questo proposito, il Ministro della Difesa argentina, Patricia Bullrich, è stata aspramente criticata per il modo di condurre le ricerche, affidate alla stessa squadra di polizia che aveva effettuato uno sgombero nel quale era stato visto per l’ultima volta Maldonado.
La vittoria delle legislative, nonostante tutto, ha comunque sorriso al governo di Macri. Le elezioni democratiche, del resto, “di per sé non costituiscono un indice della Verità: di regola tendono a riflettere la doxa predominante determinata dall’ideologia egemone”. L’affermazione del filosofo sloveno Slavoj Žižek, contenuta nel suo ultimo libro “Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare”, può aiutarci a spiegare il successo elettorale che ha rafforzato ulteriormente il potere di Macri.
UN’ARGENTINA SEMPRE PIÙ LIBERISTA E FILOSTATUNITENSE
Cosa c’era aspettarsi, dunque, dopo la nuova vittoria di Macri? Il Presidente, forte di questo successo, ha deciso di andare avanti con le sue riforme strutturali di stampo liberista, naturalmente con il benestare di Washington. Non è un caso che il capo di stato sudamericano ed i suoi funzionari si siano recati spesso in visita negli Stati Uniti, al fine di aprire le porte dell’Argentina agli investimenti esteri.
Macri ha contrattato in particolare con BlackRock, una multinazionale che vanta un attivo di oltre cinquemila miliardi di dollari, nove volte il Prodotto Interno Lordo argentino. Larry Fink, il fondatore della corporation, si è detto interessato alle “numerose opportunità che l’Argentina offre nei campi delle infrastrutture, dell’energia ed in altri settori”. Dal punto di vista liberista, questo viene tradotto in un grande giro di danaro, con promesse di ricadute positive sulla popolazione, ma a noi sembra più corretto dire che Macri sta mettendo in essere il suo piano di svendita dell’Argentina alle multinazionali statunitensi.
“Vi sono grandi opportunità nell’agroindustria e nelle infrastrutture” aveva affermato lo scorso anno lo stesso Macri, facendo pubblicità presso i potenziali investitori nordamericani. “Il nostro Paese è aperto ai vostri investimenti, perché abbiamo eccellenti risorse umane, in un Paese di pace, con enormi risorse naturali, e con la possibilità di duplicare la produzione di alimenti”. Ma il più esplicito di tutti è stato in realtà Juan Schiaretti, governatore di Córdoba, sulla carta un membro dell’opposizione: “Siamo d’accordo con l’apertura al mondo e nel vedere la globalizzazione come un’opportunità, e non come un nemico: e allora che vengano gli investitori”. Opportunità, certo, ma per chi? Ovviamente non per le classi economicamente dominate, ma per la solita classe dominante della corporatocrazia.
I progetti di Macri erano quelli di svendere alle multinazionali straniere il settore dell’estrazione del litio, per poi passare a quello energetico, con l’introduzione del solare e dell’eolico sempre per mezzo di imprese nordamericane. Il presidente dovrebbe poi procedere ad una detassazione delle grandi imprese ed alla modifica della legislazione sul lavoro per rendere l’Argentina “il miglior Paese al mondo per gli investimenti esteri”, secondo la formula da lui utilizzata, come sempre sulle spalle dei lavoratori.
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GLI ULTIMI SVILUPPI E LA QUESTIONE ENERGETICA
Con l’Argentina che vede riavvicinarsi lo spettro della crisi, le ultime polemiche che hanno travolto il governo di Macri riguardano il settore energetico. Come abbiamo detto in precedenza, sotto la presidenza dell’esponente liberista si sono registrati forti incrementi nelle bollette, che naturalmente hanno colpito sopratuttto le classi meno abbienti, fino a raggiungere, di recente, un’inflazione del 1.300%. Proprio per questo, il parlamento ha deciso di proporre una riduzione delle bollette della luce e dell’acqua, per riportarle ai prezzi del novembre 2017.
A mettere i bastoni tra le ruote è stato direttamente il capo di Stato, che infatti ha posto il suo veto sulla legge, prerogativa che gli appartiene nel sistema presidenziale argentino, ma che in questo caso appare decisamente fuori luogo. Per giustificare la sua scelta, da buon liberista, Macri ha affermato che il provvedimento costerebbe allo Stato circa 100 miliardi di pesos (circa 4 miliardi di dollari), invitando gli argentini a consumare meno. Una decisione, presa in meno di cinque ore, che segna un contrasto tra presidenza e parlamento, e che inoltre, secondo alcuni analisti argentini, sarebbe contraria anche allo spirito federalista del Paese sudamericano.
Come se non bastasse, proprio in questi giorni il Paese è stato parzialmente paralizzato da una serie di scioperi indetti dalla Confederación General del Trabajo de la República Argentina (CGT) per richiedere un aumento dei salari, ma anche per protestare contro la richiesta di intervento del Fondo Monetario Internazionale, visto che Macri ha richiesto un nuovo prestito di 30 miliardi di dollari, forse in preda ad un vuoto di memoria circa quanto accaduto al suo Paese l’ultima volta che il FMI è intervenuto.
Allo stesso tempo, il Ministero dell’Energia e del Settore Minerario ha annunciato un aumento sui prezzi dei combustibili, che andranno ulteriormente ad incidere sulle tasche degli argentini. L’incremento sarà compreso tra il 4.5% ed il 5%: il costo di un litro di nafta, ad esempio, è passato da 25.24 a 26.37 pesos; quello di un litro di diesel da 22.06 a 23.16 pesos; quello di un litro di gasolio da 25.70 a 26.98 pesos. La decisione è arrivata appena tre settimane dopo un accordo tra il governo e le imprese petrolifere, con il quale era stato promesso di non aumentare il costo dei combustibili.
L’anno prossimo, in Argentina sono previste le nuove elezioni presidenziali: la speranza per i cittadini è che, in quest’arco di tempo, Macri non faccia troppi danni tali da rendere la situazione irreversibile.