Introduzione di David Colantoni a “Great writers embrace vulnerability” di Marialuisa Monda
Da poco è scomparso il grandissimo scrittore Philip Roth. Si sono tenuti i funerali a New York giorni or sono. Mi ero sentito tramite mail con la carissima Marialuisa Monda per un saluto proprio il giorno del funerale e lei ci stava andando insieme alla sua famiglia. Cosi ho preso coraggio e ho detto a Marialuisa quanto sarei stato onorato e felice di poter ricevere da lei una testimonianza su Philip, grande amico di suo padre che proprio tempo fa era venuto a presentare “Io sono il fuoco”, suo sesto romanzo della decalogia americana, a Roma, indossando, a testimonianza del bel legame che li univa, Antonio e Philip, proprio una cravatta, regalatagli dallo stesso Roth, in quel momento ancora vivente, che tutti in platea, alla casa del cinema, gli abbiamo benevolmente invidiato.
La notizia della morte di Philip mi aveva particolarmente colpito perché il 5 marzo , appena due mesi prima, avevo perso mio padre, dopo una lunghissima malattia, un cancro, e che ho seguito accanto a mio padre dall’inizio alla fine, un padre artista, pittore, che era stato grandissimo amico di Alberto Moravia, padre con cui ho avuto un rapporto complesso e difficile quanto profondo, spesso per me doloroso, e restato in gran parte non risolto, così la sua morte mi aveva lasciato in un penoso stato di panico e dolore, in parte lenito dall’amorevole cura di mia moglie Natasha, sempre affianco a noi in quei tremendi e magnifici mille giorni, temendo di non riuscire a trovare l’incerta quadratura del cerchio tra amore e altri sentimenti, opposti all’amore, suscitati da una quantità un po’ oltre il normale di importanti errori genitoriali ricevuti.
Il destino, mosso a pietà, mi aveva fatto immediatamente incontrare “Patrimonio”, titolo di un libro di Roth, che passando davanti alle pompe funebri del piccolo paese di origini di mio padre in Abruzzo, ero corso a comprare appena dopo la sepoltura, con la stessa urgenza con la quale un asmatico corre a comprare un broncodilatatore. Ero rimasto un po’ sconcertato dall’aver casualmente scoperto questo titolo di Roth che non conoscevo, e che raccontava proprio la morte di suo padre, causata dalla stessa malattia che aveva ucciso il mio.
Ecco ora mi ricordo: avevo letto di sfuggita su un giornale aperto su un tavolo di un bar di questo libro in un articolo di Renato Minore dedicato a un altro scomparso, Dorfless, il quale rimproverava a Roth di aver esposto pubblicamente in “Patrimonio” cose così intime. Evidentemente Dorfless, con cui non ho moltissimi punti di contatto, non la pensava come la pensavano Roth o Miller che da qualche parte scrisse “scrivere è aprirsi la pancia e rovesciare gli intestini sul tavolo“, forse in Tropico del Cancro .
Leggere in Patrimonio quasi esattamente quanto mi era appena finito di capitare e quello che ciò mi avrebbe via via suscitato come moti interiori, mi aveva fatto ancor di più apprezzare il ricordo delle parole di un altro gigante della letteratura, Brodskij che, non ricordo più dove, potrebbe essere nel suo discorso di accettazione di quel premio Nobel che invece fu risparmiato a Roth, aveva detto che la letteratura, anche, avvisa sempre delle trappole permettendo di non cadervi due volte.
Asfissiato in quei giorni funerari da qualcosa che doveva essere certamente un imperfetto del senso di colpa, cominciavo a capire decisamente meglio la concretezza fino ad allora astratta della divinizzazione del padre mitico, a cui ero fermamente deciso a oppormi con uno sforzo di memoria e razionalità, a seguito del suo omicidio da parte del clan dei fratelli, meditando che in fondo la sua malattia era stata un po’ come il sicario mandato dal caso, agli ordini di quel desiderio patricida che dorme in ognuno di noi, specialmente di fronte a un padre potente e talvolta prepotente, per cui a volte confondevo nello stato torpido seguente allo shock della sua scomparsa, l’essere io l’agente della sua morte invece che la malattia, sentendomene in qualche modo misteriosamente colpevole, pseudo sindrome che appunto spesso patiscono le “vittime” alla improvvisa scomparsa del proprio “persecutore”, da intendersi ciò nella più ampia e metaforica accezione possibile ovviamente, o le minoranze, che in famiglia appunto sono i cosiddetti minori, i bambini.
E quindi leggere, appena dopo aver sepolto mio padre sotto un furioso acquazzone che aveva trasformato la terra in pesante fango, “ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda“, scritto dalla penna di Roth sulla morte di suo Padre, sentire quanto anche lo status invidiabile e magnifico di uno scrittore monumentale, come tale riconosciuto dal proprio tempo, poco possa impedire comunque questo senso di schiacciamento e indicibilmente, insieme, di sollievo anche, che ci insegue, soprattutto post mortem loro, di fronte a figure come quella di certi padri o madri , ecco , si, ciò aveva immediatamentre sortito il suo taumaturgico potere cicatrizzante, arrestando questa copiosa emorragia interiore, percependo come nel suo libro sulla morte del padre, si celasse una titanica lotta tra odio e amore, tra riconoscenza e rancore, tra disprezzo e invidia, e via dicendo molte altre dicotomie inconciliabili eppur gemelle siamesi che sentivo riguardarmi: “Era una merda fatta e finita, e un fallito anche, e voleva far fallire pure me, agli sfigati piace la compagnia” scrive Roth in Patrimonio facendo parlare del padre il taxista a cui anche è morto il padre e che lo conduce da qualche parte . Il sospetto di uno scarico di residui tossici di un pensato indicibile verso il suo di padre, in quello che mi sembrava un suo transfert letterario sul taxista, e che a mia volta era un mio transfert su Roth, mi sollevava dal peso dei residui dei miei percolati di pensieri tossici sul mio di padre, quando c’èrano stati, e ce ne erano stati parecchi e in parecchie occasioni. “Non era un padre qualunque” andavo leggendo nel mio andirivieni quotidiano e penoso, quasi da cane a cui è morto il padrone, intendetemi, in quei primi giorni tra la tomba e casa, vicinissime come è nei piccoli paesi “era il padre, con tutto ciò che c’èra da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare“.
Roth, prendendomi per il bavero delle pupille con la sua scrittura e restituendomi il sufficente equilibrio per camminarvi sull’orlo, mi aveva appena salvato dal cadere in un abisso in cui ora, dopo aver letto Patrimonio, e quando mi fossi sentito pronto, avrei potuto, come stava facendo lui, e come Ulisse aveva fatto, invece che cadere, entrare ed incontrare l’ombra dei morti e comprendere quello che si deve comprendere, e poi uscire per tornare finalmente ad Itaca attraverso il mare.
Il punto di contatto tra questa mia breve memoria con cui ho voluto introdurre il ricordo di Roth che con grande generosità ci ha regalato Marialuisa Monda e che ci accingiamo a leggere, dunque si cela da qualche parte nell’infanzia, in questo universo familiare visitato da figure mitologiche quasi, nel salto di cascata che fa l’essere passando e trasformandosi da un genitore a un figlio, e da un adulto a un bambino, con le sue multiformi e irripetibili figure di acqua volante, quali sono le vite umane, in quelle impressioni che restano profondamente radicate nelle nostre identità degli incontri che da bambini noi facciamo con gli amici dei nostri genitori, specie quando abbiamo la ventura di nascere in seno a un ambiente d’arte e che diventano tesori che iniziano a sprigionare la loro energia molto tempo dopo che noi con l’incontro li abbiamo acquisiti, e spesso quando ci coglie la notizia che quelle persone non sono più tra noi, aprendosi come il seme nella parabola del vangelo, che diventa vita proprio dopo la morte, e che talvolta, spessissimo, possono anche rappresentare una vera e propria cura di qualche complessità irrisolta e dolorosa tra noi e i nostri genitori stessi, cosi almeno è stato per me con la figura di Alberto Moravia e altri amici di famiglia nella mia infanzia e non ho motivo di non pensare che non possa essere lo stesso per Marialuisa, e per chiunque altro.
Queste figure degli amici di famiglia che ci impressionano fortemente nella nostra infanzia sono figure quasi sempre salvifiche, che ci aiutano anche ad umanizzare la deità dei nostri genitori facendoceli comprendere un po’ meglio come realtà con tutti i propri accidenti e incidenti. Specie quando sono dei geni, come lo era Roth, o come Moravia, con tutto il carisma che sprigionano e che poi capiremo via via con gli anni.
Insomma eccoci tutti qui, figli, padri, artisti, artisti figli e padri artisti o non artisti. Come non mai uniti dalla o forse nella letteratura di Roth che con tutto cio si è avvinghiato in dei corpo a corpo sempre mozzafiato e spettacolari. Come un pugile con il suo altro.
Ho deciso di non far tradurre il testo che è breve e intenso per poter ascoltare insieme, siamo del resto nel villaggio globale con tutti i suoi dialetti, il suono di questa testimonianza, per non tradirne il tessuto ontologico con una copia in una altra lingua, perché è di questa lingua, che non è l’inglese ma il Newyorkese delle giornate scorse a cui rimanda il racconto, di cui è fatta quella vita e questa arte qui evocate. Ho trattato quindi in questo senso come poesia questa testimonianza, perchè tale è a tutti gli effetti, una poetica dell’incontro tra un gigante della letteratura e una bambina, la figlia di un amico , a cui Roth regala quasi sottovoce e d’improvviso un lezione quasi Talmudica affinche la comprenda e mai la dimentichi e che oggi ci viene tramandata: “Great writers embrace vulnerability”.
Ecco, poter vedere e ascoltare oggi attraverso gli occhi e la narrativa di Marialuisa un Philip Roth nell’immagine di una bambina è qualcosa che, illuminato dalla purezza della luce di un ricordo adolescenziale della persona dello scrittore, rende l’inestimabile tesoro che ci lascia Roth ancora più luminoso.
Sono molto, molto grato a Marialusia Monda di questo prezioso regalo che ci ha fatto e che condividiamo con i nostri lettori, e con cui vogliamo entrambi, Marialuisa ed io, semplicemente esprimere il nostro profondo affetto, lei come amica concreta, io come salvato dalla sua scrittura, verso questo immenso Artista, niente di più.
David Colantoni
GREAT WRITERS EMBRACE VULNERABILITY
di Marialuisa Monda
“Great writers embrace vulnerability” the American novelist Philip Roth once told me. It was on a Sunday thirteen years ago, during one of my parents’ get togethers where we engage in conversation, sharing ideas, and, of course, my mother’s blend of Jamaican and Italian cuisine.
Over a bowl of perhaps orecchiette with sundried tomato and pistachio pesto, followed possibly by roasted chicken marinated in a Jamaican spice blend with nutmeg and ginger, and citrus salt, we spoke in abundance of literature, politics, and soccer. It was not just the stimulating of the intellect, but also our creative sides where we spoke about new stories that needed to be told or music to be heard. These Sundays were what I grew up in.
I will never forget that day, the day Mr. Roth gave me that piece of advice. I can’t imagine what he would think of me, but I feel blessed to consider him as a mentor. When he would come over, I would ask him for advice and tips. In turn, I listened and, I hope, like a diligent student.
I can still see him now. Twinkling eyes and a simper of a smile; a keen roguish sort of smile. He always had a twinkle in his eyes and a keenness that few observed. Over coffee or dinner, he always had this air about him where you could approach him always, but only a few caught his eye. However, in my experience, he was always kind with a teasing tongue and eyes that always shimmered. The last time I saw him burns in my mind. It was only a few weeks ago, where his eyes still had that glint within a tired face. I wish I had had the foresight to know how sick he truly was. I honestly had no idea and I wonder now what else I could have done.
I was lucky that I was among the few that he seemed to take a liking to.
But it was not that Sunday that I spoke to him. It started with a phone call a few years earlier.
I came home from school between twelve and thirteen years of age to see my father on the phone. It is not an unusual sight but my father called me over to speak to his friend “Philip”. That was the unusual part. I will never forget that call. It started off with the casual exchange of “How are you?” and “What’s your name?” but when he asked me what I wanted to be it took a (now) hilarious turn.
“Marilu- What do you want to be?”
“A writer.”
“You can’t be a writer.”
“Why not?”
“I’m a writer and it is a terrible job.”
I was stunned by what he told me. Why couldn’t I be a writer? If he is a writer, maybe he saw something in me?
I remember the hurt and anger I felt. Every day when I came home from school, my dad would tell me that “Philip” asked for me. And I would say very impolite things back to my dad about him which I would not repeat due to how embarrassing it is.
“Missy, you cannot say such things,” my dad would say.
I didn’t care.
“Do you know who he is?”
I didn’t care. All I knew was that I was hurt by such seeming rudeness. But, God knew what a lesson this man in turn gave to me.
One Sunday, that eventful Sunday, my dad asked me if I wanted to sit down for lunch. At first, I wanted to say no due to my introvertedness, but once I heard that “Philip” was going to be there, I had to sit down to lunch with him. I had to know why he said that to me.
My father had me sit down with him and when we met it was almost a battle of sorts. Honestly, I was a stupid kid. I felt I had something to prove to him. How dare he tell me that I’m not a true writer? And he had that glint in his eyes that made me angrier.
That day the conversation at the table was about God and Atheism. About Love and Loneliness. About Death and Life.
And I dared to be part of it.
God, I am so embarrassed that I had this naïve arrogance towards such a great man. His writing richly centered on American identity that blurs the line between reality and fiction, intensity and humor, where nothing is left unexplored. I dared to fight with him!? In a time where false news and information is reigning, his death is not only a personal loss to his loved ones, but a loss to truth and reason. A loss to dissidence through humor and complex ideas. However, to be fair, my bitterness is rather obstructing in my pained bias. (And Roth would ask me where the courageous girl he knew was?)
So, I kept daring and daring, with no fear, or maybe too much fear.
And, all of a sudden he started to laugh and he patted my back: “You ARE a writer. You have a great spirit.”
It made me feel glad, but I remember how he looked at me with seriousness that scared me to no end. And that is when he said, “Great writers embrace vulnerability.” He told me to remember this and to promise to know this always.
Maybe I was too young at the time, but it was not till his death recent death that I came to realize what he meant. It was in the text all a long and it is a lesson I did not understand till now that writers write with their hearts and have a duty to speak a truth.
What a man he was; is. I remember his patience and understanding, his kindness and humor. I remember with a love of a student and an admirer among admirers.
I’ll miss him in ways I do not understand, but I will remember his eyes and humor, and will read his books knowing that such a great man showed faith in me.
Marialuisa Monda (born July 30, 1992) is a Jamaican Italian living in New York City. She graduated from NYU Gallatin Individualized Study in Folklore, Storytelling, and Narrative with a concentration in trickster tales and the importance of storytelling in society. She wrote her first novel, a two volume YA fantasy “La Profezia Del Lupo”, in 2012 published by Edizioni Piemme. She is a client of the Wylie Agency and she is working on writing projects including a collection of short stories and a novel. She plans graduate studies in the future and is interested in both library sciences and publishing.