Sono passati solo pochi giorni dalle elezioni presidenziali in Venezuela, che hanno visto la vittoria del capo di stato in carica, Nicolás Maduro; questa volta, ad essere chiamati alle urne saranno i cittadini della Colombia, dove domenica 27 maggio è in programma il primo turno per la scelta del nuovo capo di stato.
Abbiamo iniziato citando le elezioni venezuelane non per caso, ma perché la confinante Colombia rappresenta proprio l’alter ego del governo bolivariano di Caracas, e queste due tornate elettorali a distanza di pochi giorni serviranno a determinare gli assetti geopolitici dell’America meridionale per i prossimi anni. Storico e fedele alleato degli Stati Uniti, il governo colombiano, prima con Álvaro Uribe e poi con Juan Manuel Santos, è sempre stato il più strenuo oppositore della Rivoluzione Bolivariana in America meridionale. Non dimentichiamo, del resto, che la Colombia è l’unico Paese del Sud America ad aver concesso il proprio territorio ad uso delle basi militari statunitensi, dato che da solo dovrebbe far riflettere circa la posizione subalterna nei confronti del gigante a stelle e strisce.
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Dopo otto anni e due mandati passati alla presidenza, Juan Manuel Santos sarà impossibilitato dalla costituzione ad ottenerne un terzo. La destra filostatunitense si affiderà allora ad Iván Duque Márquez quarantunenne senatore che per un caso fortuito condivide nazionalità e secondo cognome con lo scrittore Premio Nobel, Gabriel García Márquez, ma null’altro. Rappresentante del Partido Centro Democrático e candidato per la coalizione Gran Alianza por Colombia (Grande Alleanza per la Colombia), costui è sostenuto soprattutto dall’ex capo di stato Uribe, oltre ad essere certamente il candidato preferito degli Stati Uniti, dove tra l’altro Duque ha compiuto gran parte dei suoi studi in giurisprudenza, potendo sfoggiare nel suo curriculum anche la prestigiosa Università di Harvard (o almeno così afferma lui, mentre alcuni giornalisti lo hanno smentito proprio in questi giorni).
Secondo i sondaggi più recenti, Duque dovrebbe raggiungere il secondo turno (riservato ai due candidati con il maggior numero di preferenze, a meno che uno dei pretendenti non superi la soglia del 50%, rendendo inutile il ballottaggio) insieme a Gustavo Petro, cinquantottenne economista ed ex sindaco di Bogotà, membro del Movimiento Progresistas e candidato sotto l’egida della coalizione Lista de la Decencia. In gioventù guerrigliero del Movimiento 19 de Abril, Petro spera di diventare il primo presidente di sinistra nella storia di un Paese il cui spettro politico è storicamente sbilanciato verso destra.
Non è un caso, del resto, che la campagna elettorale abbia portato in superficie proprio il confronto tra i due principali pretendenti alla presidenza sul tema venezuelano. Propagandisticamente, Duque ha dichiarato che con Petro la Colombia farebbe “la fine del Venezuela”, sposando dunque la tesi secondo la quale Maduro e la Rivoluzione Bolivariana sarebbero la causa di tutti i mali. Ha inoltre promesso di assumere una posizione conflittuale nei confronti di Caracas (suscitando gli entusiasmi di Washington, che vuole una Colombia pronta a concedersi anche in caso di intervento armato), mentre Petro certamente preferirebbe promuovere il dialogo con il Paese confinante e non ha mai nascosto la sua ammirazione per Hugo Chávez, pur non risparmiando alcune critiche a Maduro.
L’altro grande tema della campagna elettorale ha riguardato il rapporto con l’ormai ex gruppo guerrigliero noto come FARC o FARC-EP (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo, Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia – Esercito del Popolo). Dopo un processo di pace che sembrava essere sulla buona strada, anche grazie alla mediazione di Cuba ed al sostegno delle Nazioni Unite, ed i primi accordi firmati a L’Avana, i negoziati si sono bloccati per volere del presidente uscente Santos. Anche in questo caso, con Duque si rischia di assistere ad una persecuzione dei guerriglieri in barba agli accordi presi, mentre Petro si è mostrato decisamente aperto al dialogo, tant’è che alcuni giornalisti di destra e candidati di altre forze politiche lo hanno screditato con l’appellativo di “candidato delle FARC”.
Passiamo poi in rivista gli altri quattro candidati alla presidenza: si tratta di Humberto de La Calle, settantunenne avvocato del Partido Liberal Colombiano, che ha ricevuto anche il sostegno di alcune forze che rappresentano la popolazione indigena; Sergio Fajardo, sessantunenne matematico, ex governatore di Antioquia, candidato della Coalicion Colombia; Jorge Antonio Trujillo, prete cinquantenne del Movimiento Todos somos Colombia; infine Germán Vargas Lleras, cinquantaseienne avvocato, Ministro degli Interni e vicepresidente sotto Santos, del quale è considerato l’erede, che rappresenta la coalizione a lui dedicata, Mejor Vargas Lleras.
I pronostici, inutile negarlo, sono tutti dalla parte di Duque. Tuttavia, un buon risultato elettorale da parte di Petro rappresenterebbe una interessante novità per la sinistra colombiana, se si pensa che quattro anni fa giunsero al ballottaggio due candidati di destra (Juan Manuel Santos ed Óscar Iván Zuluaga). L’unico, in tempi recenti, a mettere a repentaglio il dominio della destra in Colombia, era stato Antanas Mockus, che nel 2010 giunse al ballottaggio contro Uribe sotto l’egida dell’Alianza Verde, non superando però il 27.47% dei consensi. Un buon riscontro elettorale per Petro, che potrebbe anche vincere nella capitale grazie al suo passato di sindaco ed al maggior progressismo dei cittadini di Bogotà, inoltre, darebbe un importante segnale anche agli Stati Uniti, per far sapere nella parte settentrionale del continente che la Colombia non è più disposta ad essere la patria del narcotraffico internazionale e del terrorismo dei paramilitari sostenuti dal governo in nome di interessi esterni.
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