Le elezioni presidenziali in Venezuela hanno visto la schiacciante vittoria del capo di stato in carica, Nicolás Maduro, nonostante la grande campagna mediatica antibolivariana lanciata dagli Stati Uniti e dall’opposizione interna.
UN DIFFICILE CONTESTO ELETTORALE
Alle elezioni presidenziali del 20 maggio, il Venezuela è innegabilmente arrivato in una situazione di grande difficoltà economica e politica. Da anni, ormai, soprattutto dopo la morte di Hugo Chávez, tanto gli imperialisti statunitensi quanto i capitalisti venezuelani hanno lanciato il proprio assalto al governo bolivariano, un attacco che si è concretamente tradotto in una campagna di propaganda mediatica ed in sanzioni e misure economiche, in gran parte illegali, che hanno acuito la crisi economica nel Paese sudamericano.
Se il crollo del prezzo del petrolio, principale esportazione del Paese, ha messo il Venezuela in una situazione oggettivamente difficile, è stato tuttavia l’asse tra Washington e la Caracas dei ricchi a rappresentare il vero ostacolo per la prosecuzione dell’esperienza della Rivoluzione Bolivariana, oramai giunta al suo ventennale. Il controllo delle importazioni, ridotte artificialmente, ha portato alla penuria di beni di prima necessità (alimenti e medicinali) e fatto schizzare l’inflazione alle stelle, fenomeno che ha naturalmente colpito le classi sociali più svantaggiate.
Addossando la colpa al presidente Nicolás Maduro, i nemici interni ed esterni del governo bolivariano pensavano di poter convincere la popolazione a dirottare il proprio voto verso le opposizioni, evento che sarebbe naturalmente sfociato in un governo iperliberista e filostatunitense, pronto a svendere ai falchi nordamericani le risorse naturali del Paese; non dimentichiamo, infatti, che il Venezuela è oggi considerato il luogo al mondo con la più alta concentrazione di idrocarburi non ancora sfruttati nel sottosuolo. Inoltre, le stime dell’OPEC ci dicono che il Venezuela potrebbe essere l’ultimo luogo al mondo nel quale sarà possibile estrarre il petrolio, visto che le sue risorse potrebbero durare ancora 387, tenendo conto dei ritmi di estrazione attuali, contro gli 81 dell’Arabia Saudita ed i 163 dell’Iraq.
Paese guida dei governi progressisti dell’America Latina e sede del maggior numero di giacimenti di idrocarburi, il Venezuela non può dunque essere lasciato a piede libero, agli occhi degli strateghi di Washington. Tra l’altro – cosa che sarebbe del tutto ridicola se non fosse altrettanto grave – gli Stati Uniti, l’Unione Europea e gli altri Paesi vassalli della Casa Bianca si sono rifiutati di riconoscere le elezioni venezuelane come legittime e di mandare i propri rappresentanti per monitorare il processo elettorale, nonostante gli inviti giunti da Caracas. Dall’altro lato, però, hanno riconosciuto le elezioni venezuelane non solo gli storici alleati Cuba e Bolivia, ma anche Russia, Cina ed Iran, dimostrando chiaramente lo spaccamento del mondo in due schieramenti contrapposti, tale da giustificare la denominazione di “seconda guerra fredda”.
Questa presa di posizione aprioristica, da parte degli Stati Uniti e della sua pletora di cani da guardia, dimostra tra l’altro un atteggiamento ambivalente nei confronti delle elezioni, ritenute legittime e sacrosante quando a vincere sono le opposizioni, denigrate, invece, quando si ha il presagio di una pesante sconfitta per la destra neoliberista, cosa che, come vedremo a breve, si è puntualmente verificata.
I RISULTATI ELETTORALI: TRIONFO PER IL PRESIDENTE MADURO
Alle elezioni presidenziali, nonostante la decisione di una parte dell’opposizione di non prendervi parte, si sono presentati quattro candidati: \
- il presidente in carica, Nicolás Maduro, si presentava naturalmente sotto l’egida del Gran Polo Patriótico (GPP), l’alleanza capeggiata dal Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV);
- il principale candidato dell’opposizione Henri Falcón, ha raccolto l’appoggio della coalizione Avanzada Progresista, incassando inoltre il sostegno di Luis Alejandro Ratti, un fuoriuscito dal governo bolivariano, inizialmente intenzionato a candidarsi in prima persona;
- l’imprenditore e pastore evangelico Javier Bertucci si è candidato da indipendente;
- Reinaldo Quijada, altro fuoriuscito dal PSUV, era l’ultimo aspirante presidente, fondatore del partito Unidad Política Popular 89 (UPP 89).
Il clima difficile al momento dello svolgimento delle elezioni non ha sicuramente giovato al processo, tant’è che l’affluenza alle urne è stata la più bassa registrata dall’inizio della Rivoluzione Bolivariana (45.99%, pari a 9.2 milioni di persone sui 20.5 milioni di aventi diritto). A perdere, tuttavia, sono state proprio le opposizioni, mentre in termini assoluti è stata limitata l’erosione dei consensi per Maduro.
Andando con ordine, il capo di stato in carica ha ottenuto il 67.8% delle preferenze, pari a 6.2 milioni di consensi. Cinque anni fa, nella durissima sfida con Henrique Capriles, uno dei nemici più agguerriti che la Rivoluzione abbia mai dovuto fronteggiare, Maduro ne aveva conquistati 7.5 milioni, ma, vista l’alta affluenza alle urne (79.68%), si era imposto per un punto e mezzo percentuale (50.6% contro 49.1%).
Questa volta, i candidati d’opposizione non hanno impensierito Maduro, con Henri Falcón che si è fermato al 21% dei consensi, pari ad 1.9 milioni di elettori, mentre Javier Bertucci e Reinaldo Quijada hanno ottenuto rispettivamente il 10.83% e lo 0.39%.
I risultati, dunque, ci restituiscono un Venezuela che ha compreso da dove venisse il vero pericolo: non da Nicolás Maduro, che sta tentando di proseguire sul difficile percorso della Rivoluzione Bolivariana lanciata da Hugo Chávez, ma dalla destra iperliberista e spalleggiata dagli Stati Uniti, che avrebbe messo a repentaglio la sovranità, l’indipendenza e le risorse naturali del Venezuela.
PROSPETTIVE FUTURE PER IL GOVERNO BOLIVARIANO
Il difficile, per il governo di Nicolás Maduro, viene ora. Incassato il rinnovato sostegno dei cittadini, la Rivoluzione Bolivariana ha vinto solo una battaglia, mentre proseguirà la guerra contro i nemici interni ed esterni: sarà dunque vietato abbassare la guardia, anche perché la storia ci insegna che, fallita la via elettorale, il Pentagono potrebbe passare a strategie ancora più aggressive, per ora tradottesi in un ulteriore inasprimento delle sanzioni economiche, ma che si possono spingere anche oltre, fino ad arrivare all’intervento militare.
A nostro avviso, i punti principali sui quali dovrà agire Maduro sono tre:
- in politica internazionale, il Venezuela dovrà stringere maggiori accordi di collaborazione economica e militare con la Russia e la Cina, unica soluzione possibile per coprirsi le spalle da un possibile attacco armato da parte degli Stati Uniti; la prosecuzione della cooperazione con Cuba, Bolivia e Nicaragua servirà, invece, per rilanciare il fronte dei governi progressisti nel continente, attualmente sotto attacco attraverso colpi di stato ed altre vie traverse;
- in politica interna, dare l’assalto definito alla borghesia, procedendo ad esproriazioni e nazionalizzazioni delle terre coltivabili, delle grandi imprese, delle banche e soprattutto dei mezzi di comunicazione, principale arma utilizzata dalle opposizioni per la propaganda antibolivariana;
- infine, puntare sulla differenziazione economica e delle fonti delle entrate dello Stato, riducendo dunque il peso del petrolio sull’economia nazionale, resa eccessivamente vulnerabile come “un palazzo costruito su una sola colonna”.
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In sintesi, riteniamo necessario, per il prosieguo dell’esperienza Rivoluzionaria in Venezuela, l’attuazione di una serie di ulteriori riforme che portino il Paese da un sistema economico di libero mercato (quale, dopotutto, è ancora quello venezuelano) ad uno di economia socialista, o quantomeno non liberista: la nazionalizzazione degli altri settori strategici diversi dal petrolio (agricoltura, banche, telecomunicazioni) e la differenziazione delle entrate dello Stato attraverso lo sviluppo degli altri settori economici (agricoltura, turismo, industria non petrolifera) sono gli strumenti fondamentali per la sopravvivenza della Rivoluzione Bolivariana, così come la necessità di formare un fronte internazionale più compatto che si opponga al ruolo egemonico della potenza statunitense nel continente e che ne contrasti le mire imperialiste.