Dopo la guerra e con l’occupazione statunitense non ancora terminata, e dopo la conseguente uccisione di Saddam Hussein e l’imposizione velata di un governo malcelatamente filoamericano, l’Iraq sta faticosamente riacquisendo una vita politica propria: non è un caso che le elezioni del 12 maggio scorso, in quelle che possono essere definite come le prime vere elezioni dopo la guerra, abbiano visto la vittoria dei comunisti e dei loro alleati.
CONTESTO E RISULTATI DELLE ELEZIONI
Originariamente previste per il mese di settembre, le elezioni sono state rimandate di diversi mesi a causa del conflitto con l’ISIS, e per concedere ai cittadini che avevano abbandonato le proprie case di farvi ritorno. Nel frattempo, il Kurdistan iracheno, che gode di una certa autonomia da qualche anno, ha realizzato un referendum nel quale il 93% dei votanti si è espresso a favore dell’indipendenza, causando un altro scossone nel mondo politico del Paese del Golfo.
In questa situazione, i cittadini sono stati chiamati alle urne per il rinnovo del Consiglio dei Rappresentanti, il parlamento unicamerale del Paese, composto da 329 seggi, uno in più rispetto alla precedente legislatura, aggiunto nel mese di febbraio per aumentare la rappresentanza della minoranza dei curdi sciiti feyli.
Secondo i primi risultati, non ancora ufficializzati ma praticamente certi, la vittoria sarebbe andata alla coalizione Sairoon (Alleanza dei Rivoluzionari per la Riforma), composta dal Partito Comunista Iracheno (Al-Ḥizb ash-Shiyūʿīy al-ʿIrāqīy) ed il Movimento Sadrista (al-Tayyār al-Sadri), guidato dal leader sciita Muqtada al-Sadr. Insieme, le due forze avrebbero ottenuto cinquantacinque seggi, ben distanti dalla maggioranza assoluta (anche per via del sistema proporzionale utilizzato), ma affermandosi come prima coalizione del Paese. Notevole, in particolare, la vittoria ottenuta nella capitale Baghdad.
L’Alleanza Fatah, formazione sciita guidata da Hadi al-Amiri e sostenuta dall’Iran, ha ottenuto un buon riscontro con quarantotto seggi, piazzandosi al secondo posto davanti all’Alleanza per la Vittoria, recentemente fondata dal primo ministro in carica, Haider al-Abadi, che potrà contare su quarantadue deputati, anche se proprio al-Abadi era considerato da molti il favorito della vigilia. A perdere, invece, è stata soprattutto la Coalizione dello Stato di Diritto (I’tilāf Dawlat al-Qānūn), che, dopo aver dominato la consultazione elettorale del 2014, ha ottenuto solo venticinque seggi, sessantasette in meno rispetto alla precedente legislatura.
La composizione del Consiglio dei Rappresentanti vede anche ventuno deputati di Al-Wataniya, venti per il Partito Democratico del Kurdistan (PDK, Partiya Demokrat a Kurdistanê), diciotto per il Movimento della Saggezza Nazionale (Tayar al-Hikmah al-Watani), diciassette per l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK, Yekêtiy Niştîmaniy Kurdistan) e tredici per la lista sunnita Muttahidoon.
Da segnalare, infine, la bassa affluenza alle urne, pari al 44.52% degli aventi diritto.
LETTURA DEL VOTO E PROSPETTIVE FUTURE
I risultati di queste elezioni, che dovrebbero essere confermati in via ufficiale, ci restituiscono dunque un quadro politico molto frazionato, anche a causa del forte astensionismo. La vittoria della coalizione Sairoon può essere letta come un rifiuto delle influenze straniere: infatti, da un lato, sono stati sconfitti i rappresentanti filostatunitensi come il partito di al-Abadi e la Coalizione dello Stato di Diritto, dall’altro i sadristi hanno prevalso rispetto a Fatah nella sfida tra formazioni sciite, con i primi che sono decisamente meno legati all’Iran rispetto alla formazione di al-Amiri. La presenza dei comunisti nella coalizione, inoltre, può essere stata letta dagli elettori come una garanzia di laicismo in grado di attirare i voti anche di altri gruppi religiosi.
Con i numeri che abbiamo dato, sarà comunque necessario formare delle alleanze per arrivare ad avere un governo stabile. Per i comunisti, si tratterebbe di una grande novità, dopo essere stati a lungo all’opposizione sia all’epoca di Saddam che in quella post-bellica. Al-Sadri, dal canto suo, vorrebbe vedere le 10.000 truppe statunitensi presenti in Iraq abbandonare il Paese al più presto: nella sua posizione, potrebbe rinunciare a guida il governo in prima persona, ponendo comunque delle condizioni importanti per sostenere il nuovo esecutivo. Dall’altro lato, il leader carismatico sciita ha sempre chiarito che la sua appartenenza alla religione non implica una dipendenza dall’Iran, ma che il suo obiettivo è quello di affermare un Iraq indipendente ed autonomo, scevro da ingerenze straniere sia da occidente che da oriente.
Da definire, infine, la questione del Kurdistan: il governo di Baghdad non ha mai appoggiato il separatismo curdo, preferendo concedere ampie autonomie piuttosto che vedersi decurtato di una parte del proprio territorio. Il referendum tenutosi di recente per l’indipendenza non è vincolante, ed il nuovo governo avrà tra i propri compiti quello di trovare un accordo di compromesso con i leader della minoranza curda che vada bene ad entrambe le parti.