Terminato il periodo di campagna elettorale, dopo la proclamazione dei vincitori e dei vinti, l’attenzione dell’opinione pubblica si sposta inevitabilmente sulle aspettative da parte dei cittadini-elettori nel conoscere i primi provvedimenti che saranno attuati dai nuovi rappresentanti del popolo. La forza politica che ha totalizzato più consensi ha posto fra le priorità l’introduzione costituzionale del cosiddetto vincolo di mandato e cioè l’obbligo del rappresentante eletto di agire secondo le istruzioni ricevute dall’elettore.
Nel periodo 2013-2017, all’interno di Camera e Senato, in ben 566 casi si è assistito ad un politico che migrava da un gruppo all’altro. 347 sono state le persone coinvolte, e ciò dimostra che alcuni questo cambio lo hanno effettuato anche più di una volta! Inoltre è preoccupante rilevare che il dato è decisamente in crescita rispetto alle legislature precedenti (1). Ciò denota un indice di instabilità dei partiti e, più precisamente, una volubilità della classe politica che ha abusato del diritto sancito all’articolo 67 della Costituzione.
Il principio inserito dai nostri padri costituenti si rifaceva a quello del libero mandato (ovvero del divieto di mandato imperativo), formulato da Edmund Burke nel 1774 secondo cui, in difesa dei principi della democrazia rappresentativa “[..] non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale” (2). E’ implicito, quindi, che per introdurre questo vincolo nel nostro ordinamento sarà necessario modificare la Costituzione. Ma per migliorare la qualità e l’affidabilità della rappresentanza parlamentare, siamo certi che sia conveniente sopprimere un diritto, per il quale occorrerà una maggioranza qualificata ed eventualmente un altro referendum confermativo?
La limitazione del “cambio di casacca” potrebbe prescindere dalla modifica costituzionale e passare tranquillamente per due riforme da effettuarsi una a monte, cioè al momento della designazione della rappresentanza e una a valle, mediante l’apposizione di paletti che limitino l’abuso precedentemente menzionato. La prima strada da percorrere dovrebbe essere quella di favorire una selezione dei parlamentari in maniera molto più efficace.
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Dal dopoguerra al 1992 era data facoltà agli elettori di scrivere una o più preferenze a fianco del simbolo, tale prassi è scomparsa già dalla legge Mattarella del 1993, dove però il 75% dei seggi veniva assegnato tramite collegi uninominali: un simbolo, un nome; tuttavia una seconda scheda composta da liste bloccate consentiva una ripartizione proporzionale dei candidati esclusi. La legge Calderoli del 2005 ha addirittura introdotto un sistema partitocratico, trattandosi di liste interamente bloccate dove non c’era nessun limite alle candidature in altri collegi. L’Italicum, bocciato già prima di essere utilizzato come legge elettorale, reintroduceva le preferenze anche se la scelta veniva in parte vanificata dalla presenza dei capilista bloccati e pluricandidati in 10 collegi. L’attuale Rosatellum (approvato in extremis ad ottobre 2017) ed utilizzato nella recente consultazione, ha ripristinato i collegi uninominali per 1/3, ma anche le liste bloccate per la restante quota dove le candidature multiple (massimo 5) hanno consentito il ripescaggio di diversi politici-big sconfitti nel collegio.
Come ribadito dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale in materia elettorale, il diritto di scelta dei candidati è alla base del principio di sovranità popolare ma, come si è visto, le quattro leggi elettorali sopra menzionate approvate negli ultimi 25 anni sono sempre andate in “direzione ostinata e contraria” al potere decisionale dell’elettorato.
Alcuni rappresentanti politici sbandierano l’utilizzo delle elezioni primarie per la scelta dei candidati. Tuttavia, per quanto tali eventi costituiscano sicuramente una certa importanza nel processo democratico di un paese, non tutte le forze politiche ne fanno uso, i meccanismi di partecipazione sono talvolta discutibili o limitati alla votazione del capo politico di riferimento intaccando in minima parte la designazione delle liste dei candidati. Non è detto che le primarie producano una classe politica esemplare, così come non è garantito che preferenze o dispositivi che consentano la piena scelta dell’elettore possano comporre emicicli stabili privi di migrazioni tra un gruppo e l’altro. Oltretutto è utopico aspettarsi un miglioramento nel breve periodo, ma è una strada sicuramente da provare anche per ripristinare un rapporto più simbiotico tra elettore ed eletto, prescindendo anche dalla fidelizzazione del cittadino alla forza politica. E’ altresì importante che il candidato venga espresso da comitati o assemblee di un territorio che dovrebbero avere maggiore potere decisionale nel proporre profili con provenienza dal basso piuttosto che nominativi calati dall’alto delle segreterie nazionali di partito.
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Il secondo aspetto da tenere in considerazione per una minore instabilità della classe politica, sono i regolamenti di Camera e Senato, dove sarebbe possibile introdurre delle norme specifiche che non siano necessariamente in contrasto con il sopracitato articolo 67.
Un passo avanti è stato fatto sul finire di legislatura al Senato, con la riforma dell’art. 14 del regolamento dove si è cercato di intervenire sull’eccessiva proliferazione dei gruppi parlamentari (3). Ma le nuove regole, per quanto possano sembrare draconiane, vietano soltanto l’istituzione di gruppi che non corrispondono ai partiti presentatisi alle ultime elezioni politiche e pongono un limite minimo di 10 membri (salvo eccezioni ad esempio per le minoranze linguistiche). In sostanza i senatori che decidono di abbandonare il proprio gruppo possono o confluire nel misto o in un altro già presente e non esiste alcuna limitazione al numero di cambi.
L’introduzione del vincolo di mandato vieterebbe qualsiasi cambio di gruppo pena le dimissioni; almeno così è stato dichiarato da chi vuole inserire questo principio in Costituzione, richiamando l’ordinamento portoghese che lo prevede (4). C’è da tener presente però l’eventualità che il partito politico al quale fa riferimento il gruppo parlamentare, adotti durante la legislatura una linea politica difforme e per alcuni aspetti antitetica al programma presentato agli elettori. Di conseguenza alcuni deputati o senatori potrebbero dissociarsi dal votare alcuni provvedimenti in contrasto con il proprio mandato ed alla lunga lasciare il partito. In questo caso sarebbe più opportuno sostenere che chi ha “tradito” è il partito stesso e non una minoranza anche esigua di politici fedeli al programma, pertanto le dimissioni obbligatorie del parlamentare sarebbero senza dubbio una misura ingiusta. E’ chiaro che si potrebbe fare di più, intanto anche la Camera, per un principio di omogeneità dei due rami del parlamento, dovrebbe adottare norme più restrittive.
Una soluzione potrebbe essere quella intermedia, ad esempio che i regolamenti prevedano le dimissioni dal proprio gruppo parlamentare, ma che vi sia la possibilità di proseguire autonomamente nel gruppo misto il proprio impegno politico. Tuttavia è necessario che le attività, al termine di ogni mandato, possano essere ben riconoscibili, in modo che i cittadini abbiano gli strumenti per distinguere in maniera trasparente le iniziative portate avanti collettivamente dai vari movimenti politici e quelle dei singoli parlamentari, scegliendo quali siano state meritevoli o meno.
(1) https://www.openpolis.it/numeri/record-cambi-gruppo
(2) https://it.wikipedia.org/wiki/Articolo_67_della_Costituzione_italiana
(3) https://www.senato.it/1044?articolo=1004&sezione=144
(4) http://www.lapresse.it/di-maio-si-al-vincolo-di-mandato.html
[foto copertina: Corriere Nazionale]