Venerdì 7 luglio ha avuto luogo il secondo turno delle elezioni presidenziali in Mongolia, stato dell’Asia centrale privo di accesso al mare che conta circa tre milioni di abitanti. Per la prima volta della storia, si è dovuto far ricorso al ballottaggio per l’elezione del capo di stato, dopo che nessun candidato era riuscito a superare il 50% dei consensi nella prima tornata elettorale. A questo secondo turno hanno preso parte il 60.67% degli aventi diritto, con un’affluenza alle urne in calo rispetto al 68.27% del primo.
SISTEMA ELETTORALE E RISULTATI DEL PRIMO TURNO
Il sistema elettorale utilizzato per le presidenziali mongole è quello del doppio turno, generalmente noto in Europa come “modello francese”. Per essere eletti bisogna infatti superare la soglia del 50% al primo turno, mentre in caso contrario si procede ad un ballottaggio tra i due candidati più votati. Fino alle elezioni del 2009, tuttavia, il ballottaggio era di fatto inutile visto che i candidati partecipanti alle presidenziali erano stati solamente due. Già nel 2013, invece, si ebbe una tornata elettorale con tre candidati, ma in quel caso il presidente in carica Tsakhiagiin Elbegdorj riuscì a raggiungere il 50.23% dei consensi, venendo eletto ancora una volta al primo turno.
Questa volta, la competizione elettorale si annunciava ben più combattuta. Con Elbegdorj impossibilitato a chiedere un nuovo mandato presidenziale, il quadro dei candidati era così composto:
– Khaltmaa Battulga, cinquantaquattrenne del Partito Democratico (Ardchilsan Nam), la principale formazione del centro-destra mongolo, ex parlamentare e presidente della federazione nazionale di judo, erede designato del presidente uscente;
– Miyeegombyn Enkhbold, cinquantaduenne del Partito Popolare Mongolo (Mongol Ardiin Nam), già primo ministro del Paese tra il 2006 ed il 2007;
– Sainkhuugiin Ganbaatar, quarantaseienne del Partito Popolare Rivoluzionario Mongolo (Mongol Ardiin Khuvsgalt Nam), nato nel 2011 da una scissione del Partito Popolare Mongolo, anche lui ex parlamentare.
Forte dell’investitura da parte del presidente uscente, Battulga è uscito vincitore dal primo turno con il 38.64% delle preferenze. Alle sue spalle, c’è stata una grande battaglia per ottenere il secondo posto ed andare così al ballottaggio, una sfida che si è risolta per meno di duemila voti di differenza in favore di Enkhbold, che ha ottenuto il 30.75% dei suffragi contro il 30.61% di Ganbaatar (o, se preferite, 411.748 voti contro 409.899). Quest’ultimo ha anche chiesto di ricontare le schede, affermando che sarebbero stati aggiunti 35.000 voti irregolari al risultato di Enkhbold.
SECONDO TURNO: BATTULGA ELETTO PRESIDENTE
In occasione del secondo turno, la differenza tra i due candidati alla presidenza è rimasta pressapoco invariata. Le proteste di Ganbaatar, che non ha riconosciuto i risultati del primo turno, hanno fatto saltare una possibile alleanza tra le due forze di centro-sinistra, che avrebbe potuto permettere ad Enkhbold di battere Battulga. Al contrario, gli elettori di Ganbaatar che hanno scelto di recarsi nuovamente alle urne si sono suddivisi quasi equamente tra i due candidati superstiti.
L’ex judoka si è così aggiudicato il 55.15% delle preferenze, pari a 611.226 voti, mentre Enkhbold si è fermato al 44.85% (497.067 voti). Proprio quest’oggi, lunedì 10 luglio, è prevista l’investitura ufficiale di Khaltmaa Battulga come nuovo presidente, che succederà al suo mentore Tsakhiagiin Elbegdorj, in carica dal 2009, diventando il quinto presidente dello Stato di Mongolia, come vuole la denominazione ufficiale in vigore dal 1990.
IL CONTESTO DELLE ELEZIONI: CORRUZIONE E CRISI ECONOMICA
Sebbene in Mongolia il presidente abbia un ruolo importante, compreso quello di mettere il proprio veto su qualsiasi iniziativa legislativa, la forma di governo vigente nel Paese è quella della repubblica parlamentare a tendenza presidenziale, simile al semipresidenzialismo vigente in Francia ed in Russia. L’ultimo anno, in particolare, è stato caratterizzato da un governo guidato dal Partito Popolare, con Jargaltulga Erdenebat nel ruolo di primo ministro, subentrato dopo la caduta del governo del democratico di Chimediin Saikhanbileg. La situazione politica è dunque risultata molto delicata, vista l’appartenenza partitica opposta tra il primo ministro ed il presidente della repubblica.
Il Paese è stato sottoposto a forti misure di austerità nel tentativo di contenere il debito pubblico e la svalutazione della moneta locale, il tugrik, nonché di ottenere un prestito di 5.5 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale. Proprio la crisi economica che imperversa nel Paese ha rappresentato uno dei maggiori argomenti di dibattito nel corso della campagna elettorale per le presidenziali.
Non va inoltre dimenticato che solamente negli ultimi anni la Mongolia ha intrapreso un processo di democratizzazione in senso occidentale, ovvero una transizione dal modello socialista a partito unico ereditato dall’epoca in cui la Mongolia era un satellite dell’Unione Sovietica verso un sistema multipartitico. Molto spesso, agli occhi occidentali un processo di democratizzazione sembra una cosa positiva in assoluto. In realtà, la storia di molti Paesi ci ha insegnato non è necessariamente così, ma per saperlo bisogna immergersi nei sistemi politici locali, non giudicare dall’esterno da un punto di vista “occidentalocentrico” che non riflette per nulla la situazione di stati lontani migliaia di chilometri. In un Paese come la Mongolia, ricchissimo di risorse naturali nel proprio sottosuolo ma povero dal punto di vista dei mezzi economici, la democratizzazione può portare non pochi problemi.
Il processo di democratizzazione, unito alla necessità di gestire le risorse naturali mongole, hanno infatti portato ad una crescita esponenziale della corruzione nel mondo politico, come riconosciuto da tutti gli osservatori internazionali. Molti uomini politici dei diversi partiti si stanno spartendo la torta dei benefici derivanti dall’esportazione di oro, rame, uranio, carbone, zinco ed etano, soprattutto verso la Cina, principale partner economico della Mongolia. Solo un piccolo gruppo di rappresentanti politici hanno avuto il coraggio di denunciare questo scempio, che sta sottraendo preziose risorse ad una popolazione sottoposta ad una forte inflazione dovuta all’apertura sempre più rapida del Paese all’economia di mercato. Il nuovo presidente Battulga, dal canto suo, si è detto favorevole ad una differenziazione dei partner commerciali, parlando di un’eccessiva dipendenza economica della Mongolia dalla Cina.
Secondo le stime effettuate negli ultimi anni, la Mongolia sarebbe in possesso di 1.000 miliardi di dollari di risorse non ancora sfruttate, tra cui spicca il più grande deposito mondiale di carbone ancora intatto ed una delle più grandi riserve di oro, tutte risorse che hanno iniziato ad essere utilizzate solamente di recente e che dunque avranno ancora lunga vita. Grazie a questi giacimenti naturali, la Mongolia è stata protagonista di una crescita economica spettacolare nel corso dell’inizio del secolo, tanto da essere il Paese con la crescita percentuale più grande al mondo nel 2011 e nel 2012. Il problema che si è posto, però, è stato quello della distribuzione di queste ricchezze. Una distribuzione che prima era quantomeno parzialmente garantita dal sistema socialista, seppur con tutte le sue contraddizioni, e che ora invece è preda della corruzione e della sperequazione.
In occidente molti hanno citato la Mongolia come un caso esemplare, in quanto capace di una transizione pacifica dalla Repubblica Popolare alla democrazia o, come ha affermato Hillary Clinton nel luglio 2012, “da una dittatura comunista a partito unico verso un sistema politico pluralista e democratico”. Ma questa è solo una operazione di facciata che farà contenti gli Stati Uniti e l’Europa, non di certo la popolazione che si sta vedendo depredata delle risorse che ha sotto i piedi dalle leggi del mercato.
Nonostante l’introduzione di una legge contro il conflitto di interessi nel 2013 e le promesse di risoluzione della crisi economica, la corruzione, le diseguaglianze, l’inflazione e la svalutazione della moneta continuano a farla da padrone in Mongolia, come avvenuto in molti altri Paesi che sono passati in modo repentino e senza preparazione al multipartitismo ed all’economia di mercato, le cui contraddizioni sono evidentemente ancora più flagranti rispetto a quelle del sistema vigente in precedenza.