Una delle principali tematiche che ha tenuto banco in questi primi mesi di presidenza di Donald Trump è quella riguardante le relazioni tra gli Stati Uniti e Cuba. Dopo i lunghi decenni di gelo, che sono andati ben oltre la fine della guerra fredda, la distensione aveva avuto inizio negli ultimi due anni grazie al cambiamento di rotta voluto da Barack Obama. Con l’elezione di Trump, però, molti dei progressi fatti di recente sembrano messi a repentaglio.
LE ULTIME MOSSE DI BARACK OBAMA
Gli ultimi mesi della presidenza di Barack Obama sono stati caratterizzati dalla volontà di arrivare ad un punto tale da non poter permettere una retromarcia da parte della successiva amministrazione, obiettivo solamente parzialmente centrato. Uno dei colpi di scena più clamorosi, fortemente voluto proprio dal presidente Obama, si è verificato sul finire del 2016, quando, come ogni anni, si è votata la risoluzione per l’eliminazione del blocco economico nei confronti di Cuba presso l’assemblea generale delle Nazioni Unite. Il blocco commerciale, economico e finanziario (meglio noto come embargo o “bloqueo”) fu introdotto da parte di Washington nel 1960, ed è stato successivamente inasprito con la Legge Torricelli del 1992 e la Legge Helms-Burton nel 1996. Negli ultimi venticinque anni, le Nazioni Unite si sono sempre pronunciate a favore dell’eliminazione del blocco, che tuttavia permane fino ad oggi, nonostante alcune – piccole, a dire il vero – concessioni permesse da Obama.
La grande novità sta nel fatto che, per la prima volta nella storia, anche gli stessi Stati Uniti, i perpetratori dell’embargo, hanno preferito astenersi dalla votazione per la risoluzione, insieme al proprio fedele cane da guardia, Israele. Il risultato ha infatti visto 191 voti favorevoli all’eliminazione del blocco contro Cuba, due astensioni e, per la prima volta, nessuno contrario. Fino al 2015, invece, sia Stati Uniti che Israele si erano ostinati a votare contro l’eliminazione del blocco.
Sebbene si tratti di un grande passo avanti, vi è tuttavia una contraddizione di fondo: se nemmeno gli Stati Uniti votano per il mantenimento del blocco, perché si ostinano a proseguire con questa politica criminale, che non giova né ai cubani né agli statunitensi? Bruno Rodríguez Parrilla, ministro degli esteri de L’Avana, ha messo in evidenza ulteriori contraddizioni presenti nella politica statunitense, in occasione del suo discorso all’ONU: “A partire da ora i cittadini statunitensi che hanno l’autorizzazione del loro governo per visitare Cuba, o che viaggiano in altri Paesi, potranno comprare e portar via come parte del loro bagaglio personale, prodotti cubani senza limite di valore, incluso il rum e i sigari, tutti quelli che ci stiano nel loro bagaglio personale. Tuttavia sono sempre proibite le esportazioni di questi prodotti negli Stati Uniti. Perché?”. La risposta, che Rodríguez sicuramente conosce, è che Washington vuole proteggere gli interessi della comunità cubana filostatunitense della Florida, che mette in commercio prodotti simili spacciandoli per cubani, compreso un noto marchio di bevande alcoliche diffusissimo anche in Italia.
Obama ha spinto per l’eliminazione di Cuba dalla lista – redatta da Washington ai tempi di George W. Bush – dei Paesi che finanzierebbero il terrorismo (i celebri “stati canaglia”), ha concesso la possibilità per i cittadini statunitensi di recarsi a Cuba, ha eliminato la politica dei piedi asciutti-piedi bagnati (che garantiva un trattamento privilegiato agli immigrati cubani) e le misure per incoraggiare il brain drain di medici cubani, ha concesso la possibilità di effettuare transazioni bancarie con l’isola ed ha allentato alcuni aspetti del blocco economico, che però resta tuttora in vigore. La permanenza di quest’ultimo resta ancora oggi un grave handicap per Cuba: “Nei momenti tragici dell’epidemia di ebola in Africa occidentale”, ha detto ancora Rodríguez, “lo spiegamento di aiuti medici cubani è stato ostacolato dal rifiuto della britannica Standard Chartered Bank di realizzare trasferimenti tra l’Organizzazione Mondiale per la Salute e le brigate dei medici cubani di cui faceva parte il dottor Báez Sarría, che rischiavano la vita nel contatto diretto con i pazienti, e questo ha richiesto, persino in quelle condizioni estreme, licenze specifiche del Dipartimento del Tesoro”.
Questo è solamente uno degli esempi delle gravi atrocità commesse indirettamente da parte degli Stati Uniti contro Cuba attraverso la perpetrazione del blocco economico, “qualificabile come atto di genocidio ai sensi della Convenzione per la Prevenzione e la Sanzione del Reato di Genocidio del 1948”. Il fallimento più grande della presidenza Obama resta inoltre la mancata chiusura della base militare di Guantánamo, una parte del territorio cubano illegalmente occupata da Washington, promessa in campagna elettorale ma mai realizzata.
LA POSIZIONE DI CUBA
In tutti questi anni di presidenze statunitensi che si sono alternate fra loro, è rimasta sempre invariata la posizione delle autorità cubane. Il governo de L’Avana si è sempre detto pronto a dialogare con il vicino nordamericano, e lo ha dimostrato con i fatti quando si è trovato di fronte un interlocutore disponibile come Obama, ma ha anche messo dei paletti ben chiari per Washington, che in realtà non sono altro che le regole del diritto internazionale riguardanti la sovranità nazionale di ciascuno stato. Cuba non accetta una posizione subordinata nei confronti di Stati Uniti, e pretende che ogni tipo di relazione si svolga tra due stati uguali parimenti membri della comunità internazionale.
Le richieste di Cuba si possono così riassumere:
1) rinuncia, da parte degli Stati Uniti, ad influenzare la vita politica interna di Cuba o ad incoraggiare un sovvertimento del governo cubano, nel rispetto della sovranità nazionale e del principio di non ingerenza;
2) ritiro dell’esercito statunitense dalla base militare e dal carcere di Guantánamo e restituzione del territorio illegalmente occupato al governo cubano;
3) fine del blocco commerciale, economico e finanziario sotto ogni forma;
4) cancellazione dei debiti contratti dai governi cubani prima della rivoluzione del 1959.
Una dichiarazione del governo cubano nel mese di gennaio, pubblicata in occasione dell’eliminazione della politica migratoria discriminatoria, ha rinnovato l’impegno de L’Avana “a sostenere con il governo degli Stati Uniti un dialogo rispettoso, basato sull’uguaglianza sovrana, per trattare i temi più diversi in modo reciproco, senza riduzione dell’indipendenza nazionale e dell’autodeterminazione del nostro popolo”.
LE QUESTIONI APERTE E LA PRESIDENZA DI DONALD TRUMP
Subito dopo l’insediamento alla Casa Bianca, il nuovo presidente ha subito deciso di fare marcia indietro nei confronti de L’Avana, seppur non totalmente, mantenendo dunque le relazioni diplomatiche ristabilite da Barack Obama con l’apertura delle rispettive ambasciate. Per i cittadini statunitensi potrebbe tuttavia tornare ad essere un’impresa titanica quella di recarsi a Cuba semplicemente per turismo o per fare affari, un viaggio divenuto più agevole negli ultimi due anni. Questa situazione andrà ad arrecare danni enormi economici all’isola caraibica, che nel corso dell’amministrazione Obama ha visto un flusso di milioni di turisti curiosi arrivare dal vicino nordamericano, ma anche a tante imprese statunitensi che hanno approfittato dell’apertura per iniziare a fare affari con Cuba. Non va infatti dimenticato che la situazione dell’embargo cubano è oramai invisa da diversi anni anche a gran parte della società civile statunitense e delle imprese nordamericane, che si rendono conto dello svantaggio che hanno nel non poter commerciare con un Paese così vicino ed in una posizione geografica molto importante.
Le questioni aperte, oltre a quella molto delicata della base di Guantánamo, riguardano soprattutto il commercio e le transazioni finanziarie, visto che Donald Trump non è disposto a concedere la possibilità di stabilire relazioni economiche di alcun tipo con il settore statale dell’economia cubana. Ora, chiunque conosca i principi cardine di uno stato socialista, sa bene che il settore statale rappresenta la grande maggioranza delle imprese presenti nel Paese, percentuale che si avvicina al 100% quando si parla di grandi imprese. Al momento, l’unico settore nel quale è stato possibile investire in maniera significativa è stato quello delle telecomunicazioni, mentre resta una miniera ancora da sfruttare il settore turistico.
Tra le altre questioni in ballo, c’è la cosiddetta legge di aggiustamento cubano del 1966, che concede automaticamente ai cubani immigrati negli Stati Uniti lo status di rifugiato politico. Nonostante la cancellazione della politica discriminatoria dei piedi asciutti-piedi bagnati, infatti, il “Cuban Adjustament Act” voluto dal presidente Lyndon Johnson resta tuttora in vigore. Il Paese di Raúl Castro ne ha chiesto più volte l’abrogazione.
Il nuovo presidente statunitense deve innanzi tutto capire che il suo voler tornare indietro sulla questione cubana rappresenta solamente un pregiudizio ideologico, che va contro ogni forma di buon senso. A fargli cambiare idea potrebbe essere proprio il settore imprenditoriale statunitense, desideroso di investire a Cuba e disposto a farlo anche sotto il controllo dell’economia prevalentemente statale dell’isola. Obama aveva capito che un riavvicinamento tra le parti avrebbe giovato a tutti, al contrario di un embargo che ha sicuramente danneggiato il popolo cubano, ma che non ha scalfito la natura socialista del Paese, come era invece nelle intenzioni degli Stati Uniti. Cuba ha saputo resistere persino nei difficili anni ‘90, quando il crollo dell’Unione Sovietica l’ha privata del suo principale partner economico causando una grave crisi, o di fronte alla durissima amministrazione di George W. Bush, e continuerà a resistere, se necessario, anche durante la presidenza di Trump.
“Nessuno si illuda che il popolo di questo nobile e generoso Paese rinunzierà alla gloria e ai diritti, e alla ricchezza spirituale che ha guadagnato con lo sviluppo dell’istruzione, della scienza e della cultura”, aveva scritto, pochi mesi prima della sua morte, Fidel Castro in una lettera indirizzata ad Obama: un monito che diventa ancora più attuale sotto la presidenza di Trump.
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