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Trump vs Ambiente: ‘America First’ ma sola

Postato il Giugno 3, 2017 Attilio De Alberi 0

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Già da mesi, almeno sulla base delle sue promesse in sede di campagna elettorale, Trump paventava un’uscita dall’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Ora è ufficiale, nonostante il suo incontro con Papa Francesco, che gli ha regalato a vuoto l’enciclica “Laudato si” e il meeting dei G7 a Taormina dove il tentativo di dissuaderlo si è invece scontrato con la sua caparbietà.

Le reazioni negative si sono fatte subito sentire a cominciare sia dal Governatore della California Jerry Brown che del sindaco di New York Bill Di Blasio che hanno promesso disobbedienza. A questo si aggiunge la reazione quasi comica del sindaco di Pittsburgh, città menzionata da Trump nel discorso tenuto nel Rose Garden della Casa Bianca per giustificare la sua mossa: il primo cittadino gli ha ricordato sulla CNN che la sua città è riuscita a superare la crisi investendo nelle rinnovabili invece di rimanere ancorata al passato fossile che The Donald vorrebbe riportare in auge.

Ma anche nella squadra dello stesso Trump e tra i repubblicani sono saltati fuori non pochi disaccordi. Non ultimi a opporsi sono stati la figlia Ivanka, che è solo riuscita a fargli posticipare la decisione alla fine del tour europeo) e il marito Jared Kushner, da tempo visto come fidato consigliere del presidente. Ovviamente la visione di Scott Pruitt, neanche a farlo apposta il capo dell’EPA (Environment Protection Agency, l’Agenzia USA per la proteziione dell’Ambiente) noto per le sue amicizie con l’industria del fossile e il solito ultra-conservatore Steve Bannon.

Bisognerà però vedere se, come e quando questa opposizione trumpiana al controllo delle emissioni di Co2 e al crescente investimento nelle rinnovabili diventerà operativa e, soprattutto, se gli si ritorcerà contro.

Nel frattempo, al summit di Bruxelles, avvenuto proprio il giorno dopo il suo discorso, accolto dalla reazione unanime di Francia, Germani e Italia che gli hanno fatto capire che l’accordo di Parigi è ormai irreversibile, sembra rinforzarsi più che mai il nuovo asse UE-Cina, laddove il gigante asiatica sembra prendere sempre di più in mano la lotta al riscaldamento globale.

E’ forse incoraggiante notare che la stessa NATO, di solito monopolizzata dagli USA si è dichiarata contraria all’iniziativa di The Donald. L’argomentazione ha un senso: il cambiamento climatico rappresenterebbe un “moltiplicatore di minaccia” tale da rendere ancora più instabili da un punto di vista economico, politico e infine militare le zone più instabili del pianeta.

Parla di tutto questo a YOUng Luca Iacoboni, responsabile della Campagna Clima ed Energia per Greenpeace Italia. Secondo lui “Trump non si sta tanto dando la zappa sui piedi, ma la sta dando soprattutto al popolo americano e al mondo intero”.

L’INTERVISTA:

Questa decisione definitiva di Trump contro l’accordo di Parigi vi sorprende?

Nient’affatto: ce l’aspettavamo.

C’era qualche speranza al contrario in occasione dell’incontro a Taormina.

Il G7 non ha fatto altro che evidenziare il solco che divide l’amministrazione Trump dal resto del mondo sul tema del riscaldamento globale.

Voi di Greenpeace sembrate drammatizzare molto questo sviluppo.

Più che drammatico quello che sta succedendo è molto grave.

Perché?

Perché rischia di mettere in un angolo gli USA: dopo tutto 196 paesi hanno firmato il protocollo di Parigi e ora sono solo gli Stati Uniti a uscirne.

Ma Trump rischia di isolarsi anche nel suo stesso paese.

Senz’altro: secondo gli ultimi sondaggi la maggioranza degli americani, compresi molti votanti repubblicani, è contraria a questa decisione. E poi c’è l’opposizione delle grandi aziende.

Quali in particolare?

Google, Apple, Microsoft si sono già schierate contro di lui attraverso una lettera aperta al presidente.

Qual è la loro argomentazione?

Viene fatto notare il danno sia per l’economia USA che per quella globale del cambiamento climatico, senza contare che nel paese l’industria dell’energia solare offre il doppio dei posti di lavoro di quella del carbone.

La cosa più strana è che nel suo discorso ufficiale Trump giustifica la sua iniziativa dicendo che porterà più lavoro.

E’ una delle tante fesserie che è solito dire senza citare fonti precise e comunque lui si riferisce principalmente al settore del carbone, che sta tramontando in tutto il mondo a cominciare dalla stessa Cina. Chiaramente è una posizione anacronistica.

Quindi puntando di nuovo sui fossili porterebbe anche a una perdita da punto di vista del bilancio commerciale.

Certo, perché avvantaggerebbe la competizione straniera.

Quindi, rimanendo incollato alla difesa dell’industria del carbone, come ha fatto in campagna elettorale, Trump conferma di non voler credere nella riconversione. Non c’è un contraddittorio?

Beh, procede così o perché non ci crede o perché difende degli interessi particolari, come appunto quelli dell’industria fossile.

Ma addirittura anche il CEO della Exxon-Mobil gli è andato contro. A questi si aggiunge lo stesso Rex Tillerson, il suo Segretario di Stato, ex-CEO della Exxon. Non è strano, vista la posizione tradizionale delle compagnie petrolifere?

Sì, non pochi rappresentanti dell’industria del gas e del petrolio, nonché di quella del carbone hanno detto che non avrebbero apprezzato l’uscita di Trump.

Cosa c’è dietro?

Questa potrebbe essere una forma di greenwashing, ossia un’operazione di PR, per non dare l’impressione di essere quelli che distruggono il clima, ma con dietro ancora ben saldi gli interessi nel settore dei fossili.

La “ribellione” della California come può funzionare?

Innanzitutto la California parte da una posizione di forza perché porta mette avanti una fondata giustificazione economica.

Quale?

I numeri ci dicono che i settori del solare e dell’eolico in questo stato stanno creando un numero di posti di lavoro a un tasso 12 volte più alto di quello nazionale.

Fino a che punto uno stato o una città “santuario” come New York possono essere autonomi da una decisione presidenziale?

Dal punto di vista strettamente legale non saprei, ma una cosa è certa: concretamente queste entità andranno avanti, come il resto dell’economia globale, a fare ottimo business grazie all’energia rinnovabile.

Questa decisione di Trump potrà essere ostacolata o bloccata nel paese a livello politico?

Per ora sappiamo che ha contro di sé la maggioranza dei cittadini e buona parte dell’establishment Rimangono poi dei punti interrogativi per ciò che riguarda la messa in atto della sua eventuale decisione ufficiale.

Ossia?

Non sappiamo, per esempio, se Trump vorrà anche uscire dall’UNFCCC (ndr United Nations Framework Convention for Climate Change, La Convenzione Quadro dell’ONU per i Cambiamenti Climatici).

E i tempi?

Se confermasse l’uscita degli USA dal Protocollo di Parigi ci vorranno 3 anni prima che abbia una validità operativa. Nel caso di uscita dall’UNFCC solo un anno. Qui in particolare non è chiaro se Trump potrà agire in autonomia o potrà essere ostacolato dall’establishment.

Ma anche nel suo inner circle Trump sta trovando degli ostacoli alla sua decisione.

Sì, non tutti i suoi consiglieri sono d’accordo – compresa la stessa figlia Ivanka e il genero Kushner. Vedremo cosa succede quando la decisione di uscire dall’accordo di Parigi diverrà ufficiale. Già sappiamo comunque che Elon Musk, l’imprenditore di origine sudafricana e CEO di Tesla, ha dichiarato che si defilerà dalla sua squadra qualora Trump proprio a causa di questa sua politica.

Sembra di capire che Trump stia facendo una scommessa o quasi una partita a poker: dice di voler uscire dall’Accordo di Parigi per poi rientrare con un compromesso al ribasso.

Forse è stato un modo per indorare la pillola. E comunque è una scommessa che ha già perso in partenza: non solo Francia, Germania e Italia gli hanno ricordato che il trattato è irreversibile, ma anche gli altri quasi 200 paesi firmatari non gli andranno dietro.

Quindi l’ipotesi di un effetto domino è da escludere?

Certo, come ha fatto notare la Russia (che continua ad aderire al protocollo di Parigi) l’uscita USA dall’accordo lo indebolisce, lo rende in qualche modo meno importante, ma, almeno sulla base delle dichiarazioni che hanno fatto a seguito del discorso di Trump grandi paesi come Cina, India e perfino l’Australia, che non ha un grande record in tema di cambiamento climatico, credo poco al paventato effetto domino. Semmai si può parlare di un effetto domino all’incontrario.

Nella peggiore delle ipotesi, qualora Trump riuscisse fino in fondo nei suoi intenti, che impatto potrebbe avere ciò sul cambiamento climatico a livello globale?

Le emissioni USA rappresentano il 13% delle emissioni pericolose, quindi rimarrebbe operativa, almeno secondo il protocollo di Parigi l’eliminazione dell’87% delle emissioni.

Tutto questo rafforzerebbe il nuovo asse UE-Cina per la difesa dell’ambiente.

Sì, è quello che sta venendo sempre più a galla e domani ne avremo un’ulteriore conferma nell’incontro a Bruxelles: si attendono dichiarazioni forti.

Quindi gli USA ne uscirebbero indeboliti?

Certo, anche perché in questo vuoto di potere che si sta creando ci si gettano non solo UE e Cina, ma anche India, Australia e Canada. Penso che seguirà a tutto questo un periodo di nuova organizzazione degli equilibri internazionali.

Autore

  • Attilio De Alberi
    Attilio De Alberi

    Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.

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Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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