La fanciulla del west e Turandot al 65° Festival Pucciniano di Torre del lago Puccini – 12 e 13 luglio 2019, di Marcello Lippi
Sono state due gradevolissime serate all’aperto in riva al lago di Massaciuccoli in un momento di caldo eccezionale, senza il desiderato fresco lacustre, ma con una temperatura accettabile e la musica di Puccini a riempirti il cuore e la mente, mentre alcune evidenze si sono palesate. In quale ordine proporle? Direi che la prima potrebbe essere, con buona pace di direttori e registi, che l’opera ha bisogno innanzitutto di cantanti validi, perché nonostante da anni si tenti di affermare la supremazia di altre figure professionali, l’opera è un genere nato per il canto e non ha senso, come il 65° Festival Pucciniano ben ci dimostra, mettere a bilancio costi stratosferici di scenografia e costumi se non si hanno cantanti capaci di condurre a termine la recita in modo soddisfacente. Sabato 13 luglio abbiamo assistito ad una Turandot reinventata da Giandomenico Vaccari, con l’umiltà della persona intelligente che è, su una scenografia già esistente nei magazzini del Pucciniano. Il “budget di commessa” della produzione avrà registrato suppongo un bel risparmio e possiamo ritenere che parte di questo risparmio sia stato reinvestito per avere un cast da grande serata. Ebbene, credo sia stata una delle recite più convincenti cui ho assistito: pubblico entusiasta, ovazioni e bis.
La seconda evidenza che si è palesata è che, in generale, per quanto ci si possa e ci si debba affidare in gran parte alle professionalità in campo, l’opera, essendo il prodotto di un lavoro di team che necessitano affiatamento, ha bisogno di adeguate prove per poter raggiungere il livello qualitativo che possa giustificare e rendere imprescindibili gli investimenti degli stakeholder pubblici o privati ed avere una ricaduta culturale e sociale sul territorio. Per come è organizzato, e non potrebbe essere altrimenti, il Pucciniano mette in cantiere più opere contemporaneamente, ma risparmia molto sui tempi produttivi, ottimizzando sugli artisti che spesso sono impegnati in più produzioni (le cui prove purtroppo spesso coincidono), potendo contare su una squadra tecnico-organizzativa assolutamente efficace e su solisti e compagini musicali di buon livello.
Una delle Mission del Festival Pucciniano, forse la principale, è la conservazione e promozione dei tesori musicali del compositore, ma proprio per questo la sua proposta non può mai essere stanca, pur nella forzata ripetitività dei cartelloni. Si è respirata invece un’aria strana nei vialetti intorno al teatro, come di low profile, come di perdita di entusiasmo e di rischio di routine nella gestione dell’evento. Forse perché “La fanciulla del west” non riesce mai a convincere pienamente il pubblico (quella del 12 luglio non ha fatto eccezione) e questo non accorre troppo numeroso, rimane un po’ perplesso e spesso abbandona il campo come l’intera fila davanti a me, che alla fine del primo atto, dicendo: “Pazienza, ci si rifà domani con Turandot”, ha lasciato il teatro.
Non è stata la scelta migliore debuttare con “Fanciulla”, ma ci saranno state ragioni che non conosco e che rispetto. L’apertura di un Festival è meglio infatti sia sempre con il “botto”, perché il Festival, che ha un tempo di attuazione limitato e compresso, vive di entusiasmo e di adrenalina, necessaria a vincere la stanchezza fisica dovuta all’overtiming lavorativo. Doveva essere dunque una “Fanciulla” “Sturm und Drang”, ma è stata invece solo una corretta esecuzione, non trascinante. Su tutto è pesata come un macigno la prova di Maria Guleghina, interprete meravigliosa dei nostri tempi, cantante al di sopra di ogni commento, specialmente dei miei, ma che ha palesato gravi problemi di preparazione, come se le mancassero prove (debuttava) e non avesse avuto il tempo di memorizzare le note e di fare quell’operazione così necessaria ai cantanti che è la “messa in gola” di un ruolo, cioè l’abitudine a cantarlo, trovando quegli automatismi e quegli effetti che possono permettere di realizzare una grande performance. La voce della grande artista sembrava invece non trovare la strada di casa e, sulla musica di un autore così amante del canto spiegato e del legato appassionato, eseguiva le frasi costringendo l’apparato vocale a posizioni diverse di canto all’interno della stessa frase, per cui alcune note erano sonore, altre quasi scomparivano in un contesto orchestrale generoso, ma non eccessivo; la stanchezza dovuta a questa dinamica interna faceva sì che le note acute fossero sempre un po’ forzate, mai veramente convincenti, anche se sempre sicure. Per l’ascoltatore era dunque impossibile godere della melodia pucciniana che, danneggiata dalla sparizione costante di alcune note, eccessivamente ridotte di volume, poco appoggiate o insicure, risultava frammentaria e si perdeva. Solo a tratti la Guleghina prendeva convinzione ed emetteva zampate da leonessa, note meravigliosamente belle ed accenni di fraseggio più legato: del resto sul palcoscenico c’era una star di grande livello e grande esperienza che aspettiamo di ascoltare in ruoli a lei più noti e più sotto controllo. Anche scenicamente ha fatto rimpiangere alcune grandi interpreti che nel passato hanno calcato lo stesso palcoscenico. Mi rendo conto che una ragazza che viva da unica rappresentante del gentil sesso in un villaggio di uomini soli finisca da un lato con l’essere un po’ mascolina, dall’altro con il rifuggire ogni sdolcinatura romantica, ma per tutta la sera ho desiderato invano che Maria si sciogliesse un poco, lasciando sgorgare la propria femminilità, forse in questo caso mortificata da indicazioni registiche troppo restrittive oppure più probabilmente dalla mancanza di un poco di prove in più. Accanto a lei un “iradiddio” di tenore dal timbro brunito, quasi baritonale, che però in zona acuta, dove era lecito aspettarsi qualche defaillance dovuta alla grande generosità nei centri e nei bassi, è esploso in acuti facilissimi, brillanti e potentissimi, tali da entusiasmare un pubblico non esattamente propenso alle manifestazioni di consenso. Per Alejandro Roy potrei arrischiare paragoni certamente troppo impegnativi: da molto tempo non sentivo un colore talmente virile e potente in una voce tenorile, un fraseggio così facile e accurato; si comprendeva ogni parola e si leggeva benissimo ogni sentimento del personaggio. Luca Grassi ha una vocalità elegante e raffinata, per cui ero curioso di vederlo alle prese con un ruolo di baritono spiccatamente vilain. La prova è stata ampiamente superata; ha disegnato un personaggio consono alla sua natura vocale ed attoriale, ma ugualmente efficace: più nobile del consueto, più “educato”, ma tagliente nel fraseggio e sicuro in ogni zona della tessitura. Sontuoso il Nick di Fabio Serani, un artista che non delude mai e che ha impreziosito il già ottimo cast. E’ noto che “Fanciulla del west” sia un’opera scritta non rispettando i canoni economici che normalmente condizionano e determinano le scelte del team di direzione di un teatro: prevede un vero stuolo di comprimari che, se possono anche non essere tutti fenomenali vocalmente, devono però essere quadratissimi con il solfeggio, pena disastri assoluti sul palcoscenico. Al Festival abbiamo assistito ad una buona prova da parte di un gruppo agguerrito di specialisti, alcuni del territorio, impegnati anche in altre produzioni con un pacchetto di scritture che immagino abbia permesso un soddisfacente contenimento dei costi. Il quadro complessivo è stato discreto, senza evidenti sbavature ritmiche, nonostante la furiosa complessità dello spezzettamento del fraseggio tra più personaggi. Imprecisioni ce ne sono state, ma nell’ambito di una buona normalità in un’opera così impegnativa. Fra le voci, tutte interessanti, merita una citazione particolare Andrea De Campo e non per motivi artistici: ci ha fatto ricordare com’era il teatro dei tempi andati; appena ha terminato la paginetta che lo ha impegnato nel “Non reggo più, sono malato”, (bene eseguita, per carità) è partito da un settore della platea un applauso fuori luogo che ha suscitato l’ilarità del pubblico. Anche il clacqueur fa parte del mondo del teatro, ma bisogna averne il tempismo e cogliere la situazione: è un’arte, a suo modo. Alberto Petricca, Andrea del Conte, Francesco Lombardi, gli ottimi Marco Voleri e Tiziano Barontini, Michele Perrella, Daniele Caputo, Massimo Schillaci e Matteo Bagni sono stati i componenti di questa agguerrita équipe. Una menzione a parte per Annunziata Vestri e Alessandro Ceccarini, alle prese con la riuscitissima coppia di indiani Billy e Wokle. Mancano a questo lungo elenco le ultime due voci gravi, il Sonora di Luca Bruno, efficace e puntuale nella sua interpretazione, con un piglio vocale interessante, e Ivan Marino, che, grazie alla sua fisicità imponente ha creato un Ashby molto credibile.
Il maestro Renzo Giacchieri ha fatto il regista davvero, come andrebbe sempre fatto, e scommetto che, se avesse avuto più tempo a disposizione, ci avrebbe regalato non solo la buona qualità, ma l’eccellenza. La scena era tradizionale, come deve essere, e gli artisti vi si muovevano con naturalezza, senza forzature: la “Polka” è stata riadattata a formare la capanna di Minnie, mentre il bosco innevato ha formato, come dovuto, l’ambience dell’ultimo atto. Si è potuta vedere la mano di Giacchieri soprattutto nel fluire del movimento, nello scorrere del tempo nella storia e al di sopra della storia, con le piccole vite segnate dalla disperazione e dalla solitudine, raccontate senza indulgere al macchiettismo, ma con commozione e partecipazione. Di Minnie si è detto, del coro si può dire che avrebbe avuto bisogno di un po’ più di tempo di prova per poter raccontare una normalità eccezionale quale Giacchieri avrebbe sicuramente voluto. I cantanti del coro si muovevano infatti un po’ eccessivamente, come con paura della staticità, specialmente quando, all’inizio dell’opera, agivano sul secondo livello scenico. L’effetto è comunque stato quello di una vitalità vicina al vero, vitalità che non abbiamo riscontrato invece nel settore musicale. L’orchestra ORT ha un suono elegante e curato ed una professionalità invidiabile ed il maestro Alberto Veronesi non è certamente un neofita in Puccini, ma l’impressione è stata di un’incertezza di fondo, come se ci si fosse detti “teniamo un tempo più lento in modo da tenere sotto controllo meglio la macchina”. Un poco di dinamismo in più non avrebbe guastato, specialmente nelle scene che lo permettevano. Per il resto, ottimi colori orchestrali (splendida l’entrata di Minnie), con un eccessivo compiacimento verso i pianissimi vocali, che il teatro all’aperto non asseconda, ed una sufficiente fusione con il palcoscenico. Credo occorra un miglioramento fonico degli “esterni”, perché in entrambe le opere si è fatto fatica a cogliere interventi musicali importanti avvenuti fuori scena.
La “Turandot” andata in scena in versione Puccini-Alfano il giorno 13 è stata davvero molto buona come qualità del cast, come bellezza dello spettacolo, come regia e come direzione d’orchestra. Non mi sono soffermato a lungo nel mio racconto di “Fanciulla del west” a parlare del Coro del festival Puccini diretto da Roberto Ardigò perché sapevo che avrei dovuto farlo ora, per la prova maiuscola fornita in Turandot. Fraseggio eccellente, colori studiatissimi e bellissimi, specialmente negli effetti di piano improvvisi, vocalità generose e ben governate, una partecipazione scenica molto professionale e partecipe. Devo fare sinceri complimenti ai direttori di coro ed orchestra per il lavoro svolto (e so in quanto poco tempo) al fine del conseguimento di una Bellezza che ancora oggi, mentre scrivo, vive in me e non ancora come ricordo.
Bellissime le scene di Ezio Frigerio che ben conosciamo per aver visto già molte volte, incombenti, ma con una capacità di movimento interno che fa scomparire l’impressione della scena fissa: molto belli e riusciti i costumi “storici” di Franca Squarciapino.
Amadi Lagha si è impadronito dei favori del pubblico subito, grazie al suo timbro squillante ed alla vocalità sicura; nella zona acuta della tessitura, con i suoni ottimamente proiettati in avanti senza forzature, giocava con gli acuti, provando piacere e facendolo provare al pubblico. Calaf è personaggio crudele che persegue la propria follia amatoria ed il proprio delirio di onnipotenza a costo della morte di tante persone, Liù compresa, e ha il coraggio e i nervi di amoreggiare con Turandot poco dopo la morte della stessa Liù. Lagha ne ammorbidisce i toni, si sforza di renderlo più “umano”, in linea con l’impronta registica, pur cosciente di essere all’interno di una fiaba psicologica dalle forti tinte psicanalitiche. Egli vince e non solo per il tripudio scatenato da “Nessun dorma” (bissato), ma perché, in grazia dell’emissione sicura, fa sembrare tutto facile e naturale, sia vocalmente che scenicamente.
Liù non ha il peso musicale di Calaf, lo sappiamo, anche se ha delle belle arie e se la composizione di Puccini si è interrotta proprio dopo la sua morte sulla scena, fatto che le ha dato un rilievo che forse il Maestro non aveva previsto. Liù non ha nemmeno un’enorme presenza sulla scena, è come un gioiello che si mostra raramente ma deve colpire e convincere subito. Valeria Sepe domina il personaggio come se Puccini l’avesse scritto per lei e, grazie al suo incredibile perfezionismo, crea un miracolo che ogni volta si arricchisce di una nuova gemma. Il filato su “Sorriso” nel primo atto ha subito incantato ed affascinato. La padronanza vocale, i colori, la bellezza sulla scena, la serietà nella professione, ne fanno una delle migliori Liù attualmente in carriera e lo ha dimostrato regalandoci un’indimenticabile emozione su “Tanto amore segreto e inconfessato”, dove la morbidezza della voce, il gioco di risonanze frontali, l’elasticità del viso ed il controllo del respiro le hanno permesso suoni delicatissimi e coinvolgenti. Splendida!
Amarilli Nizza ha completato la triade dei protagonisti degnamente, senza che fosse percepibile l’ansia del debutto assoluto del ruolo. Grande professionista anche lei, si è calata con generosità nelle ossessioni sessuali della principessa, regalandoci una sonorità potente, vibrante e crudele nel secondo atto per poi sciogliersi nel finale quando Turandot apre le porte all’amore. Bella come deve essere la principessa, Nizza, complice una direzione d’orchestra piena di passione, ha dato molti colori alla sua interpretazione, creando le basi per futuri arricchimenti del personaggio. Potente l’emissione, eccellente la proiezione, ottimi gli acuti. Una prova convincente.
Un po’ sottotono invece George Andguladze, la cui bella voce non era perfettamente a fuoco; era come se gli mancasse energia, sembrava spento, ed il personaggio non ha assunto il peso che meritava nemmeno nella straziante scena dopo la morte di Liù.
Brave e quasi sempre a tempo le tre Maschere, Luca Bruno, Marco Voleri e Tiziano Barontini, già interpreti di “Fanciulla” la sera prima. Le loro voci si amalgamavano benissimo e, pur alle prese con una parte molto impegnativa, sono riusciti a rendere gradevolissimo e mosso anche l’inizio dell’atto secondo che, se non propriamente eseguito, può diventare molto noioso. Bruno ha confermato l’ottima impressione destata dal suo Sonora in Fanciulla. Bene l’imperatore di Alberto Petricco che ha scelto di non macchiettizzare eccessivamente Altoum facendo la voce da vecchio come molti fanno, e molto bene il Mandarino di Claudio Ottino, dalla dizione perfetta.
Ottima la prova del maestro Marcello Mottadelli, capace di trasmettere un universo di colori all’orchestra ed al coro, spesso in modo originale, con una cura del particolare che gli fa onore. Il gesto è chiaro e sicuro, le dinamiche sempre ben studiate, il dinamismo a scatti dell’opera pucciniana trova in lui un interprete fedele e preciso. L’unico appunto che gli si può muovere sono quegli improvvisi momenti di silenzio, come di recupero di energie, che il maestro ogni tanto si è concesso all’inizio di un nuovo episodio musicale, quasi si volesse riprendere il filo del discorso dopo uno scollamento che però non era avvenuto. Anche se evidentemente voluti, questi attimi di riflessione hanno creato l’impressione dell’errore, dell’incertezza ed hanno spezzato il discorso musicale.
Non è un segreto che io ammiri moltissimo Giandomenico Vaccari, qui in veste di regista, per la sua intelligenza e per la sua energia creativa. Accettando di lavorare, e bene, sulle scene di Frigerio ha sicuramente reso un ottimo servizio al Festival dimostrando che non è necessario avere sempre una scenografia nuova ogni volta che si chiama un nuovo regista. Vaccari ha capito lo spazio, lo ha sentito, avvertito nell’intimo e reso funzionale ad una sua ricerca personale, che non ha seguito il filone che io avrei preferito, ma ha avuto una sua coerenza. La prima scenografia era eccessivamente incombente, come sempre, ed ha costretto gli artisti ad operare su una striscia di palcoscenico che è sembrata un po’ angusta. Lì Vaccari è riuscito a far muovere le masse corali ed i solisti senza accavallamenti, scontri ed “impallamenti”, con un credibile incontro tra padre e figlio. Meno credibile, ma coerente con i dubbi e le domande che il maestro Vaccari si è posto, è stata la rinuncia alla solennità che ha comportato il fare entrare in scena l’inarrivabile principessa dalla porta principale, in mezzo alla gente, non usando il secondo livello superiore di scenografia che avrebbe potuto e forse dovuto creare l’effetto di distanza tra il popolo in miseria e la principessa. Ciò ha tolto mistero ed autorevolezza alla protagonista, ma credo fosse proprio l’intenzione del regista che, dal piano simbolico e psicanalitico, ha voluto trasportare la vicenda su un piano politico di oppressione e, poi, ribellione. Dare realtà e trattare i personaggi, di per sé irrealistici, come umani e non di fiaba, comporta dei rischi ed infatti nel terzo atto Vaccari fa consegnare il pugnale per il suicidio a Liu dalla stessa Turandot, scelta che non poteva non sembrarmi un errore registico: nella storia infatti Turandot sta facendo di tutto per sapere il nome del Principe Ignoto, unico modo di salvarsi da un matrimonio che non vuole; mi sento di poter dire che l’ultima cosa che vorrebbe è la morte di colei che, sola, conosce quel nome. Anche in questa produzione le prove non devono essere state tantissime e si sentono le idee del regista a tratti realizzarsi appieno, a tratti rimanere appena accennate, come se agisse a sprazzi di genialità senza il tempo di una costruzione più ampia. Ottimo il rapporto disegnato da Vaccari tra i due protagonisti, il lento sciogliersi delle ossessioni della principessa, il suo cedimento dopo il primo bacio, le sue incertezze, la sua voglia di fuggire, di non sottomettersi al fascino di quel sentimento che prova sempre più forte. Ottime le Maschere nei loro studiati e naturali movimenti (divertente la scena dei massaggi), dove Vaccari rinuncia alla gestualità artefatta tradizionale per dare una dimensione più umana ai tre personaggi. Coraggiosa, ma per me eccessiva, la scelta di far baciare le teste mozzate dei pretendenti alle ancelle di Turandot, citazione espressionista di Salome. Un po’ ripetitivo infine il gesto del coro che alza le mani ogni volta che canta “Gloria a te” e termina tutti gli atti con la stessa gestualità. La rivoluzione finale con il popolo che ha preso prigioniere le guardie e si prepara ad uccidere la principessa è originale e sposta ancora di più il discorso su una strada di realismo, come se Vaccari non fosse interessato a disconoscere l’umanità dei personaggi ed a viaggiare nella fiaba, con tutti i simbolismi che questo comporta. Mentre i pugnali stanno per abbattersi su Turandot lei pronuncia la parola “Amore” e tutto il mondo si trasforma, la luce diventa radiosa, i pugnali cadono e si lascia intendere che in quel paese di fiaba possa esserci un destino migliore, pur con due sovrani crudeli come i nostri due protagonisti. Molto positivo il messaggio che l’amore vince tutto, magari fosse davvero così: il teatro ha bisogno di lanciare messaggi positivi specialmente nei nostri tempi. Bello visivamente lo spettacolo, ben costruiti i rapporti tra i personaggi “umanizzati”. Una buona prova del regista.
Una doppia buona prova per tutto il Festival.
Marcello Lippi
MARCELLO LIPPI
Autore e Critico Musicale per la Cultura di Young diretta da David Colantoni
Baritono. Nato a Genova, si è diplomato presso il conservatorio Paganini; e laureato presso l’istituto Braga di Teramo con il massimo dei voti. E’ anche laureato in lettere moderne presso l’Università degli studi di Genova. La sua carriera comincia nel 1988 con La notte di un nevrastenico e I due timidi di Nino Rota e subito debutta a Pesaro al Festival Rossini in La gazza ladra e La scala di seta. In seguito canta in Italia nei teatri dell’opera di Roma (Simon Boccanegra, La vedova allegra, Amica), Napoli (Carmina Burana), Genova (Le siège de Corinthe, Lucia di Lammermoor, Bohème, Carmen, Elisir d’amore, Simon Boccanegra, La vida breve, The prodigal son, Die Fledermaus, La fanciulla del west), Venezia (I Capuleti e i Montecchi), Palermo (Tosca, La vedova allegra, Orphée aux enfers, Cin-ci-là, Barbiere di Siviglia), Catania (Wienerblut, Der Schulmeister, das Land des Lächelns), Firenze (Il finanziere e il ciabattino, Pollicino), Milano ( Adelaide di Borgogna), Torino (The consul, Hamlet, Elisir d’amore), Verona (La vedova allegra), Piacenza (Don Giovanni), Modena (Elisir d’amore), Ravenna (Elisir d’amore), Savona (Medea, Il combattimento, Torvaldo e Dorliska), Fano (Madama Butterfly), Bari (Traviata, La Cecchina), Lecce (Werther, Tosca), Trieste (I Pagliacci, Der Zigeuner Baron, Die Fledermaus, Al cavallino bianco, La vedova allegra), Cagliari (Die Fledermaus- La vida breve), Rovigo (Werther, Mozart e Salieri, The tell-tale heart, Amica), Pisa (Il barbiere di Siviglia- La vedova allegra), Lucca (Il barbiere di Siviglia) eccetera. All’estero si è esibito a Bruxelles (La Calisto), Berlin Staatsoper (Madama Butterfly, La Calisto), Wien (La Calisto), Atene (Il barbiere di Siviglia- Madama Butterfly), Dublin (Nozze di Figaro, Capuleti e Montecchi), Muenchen (Giulio Cesare in Egitto), Barcelona (La gazza ladra, La Calisto, Linda di Chamounix), Lyon (Nozze di Figaro, Calisto), Paris (Traviata, Nozze di Figaro), Dresden (Il re Teodoro in Venezia, Serse), Nice (Nozze di Figaro, The Tell-tale heart), Ludwigshafen (Il re Teodoro, Serse), Jerez de la Frontera (Nozze di Figaro), Granada (Nozze, Tosca), Montpellier (Calisto, Serse), Alicante (Traviata, Don Giovanni, Rigoletto, Bohème), Tel Aviv (Don Pasquale, Elisir d’amore, Traviata), Genève (Xerses, La purpura de la rosa), Festival Salzburg (La Calisto), Madrid (La purpura de la rosa, don Giovanni), Basel (Maria Stuarda), Toronto (Aida), Tokio (Traviata, Adriana Lecouvreur), Hong Kong (Traviata), Frankfurt (Madama Butterfly), Dubrovnik (Tosca), Cannes (Tosca), Ciudad de Mexico (La purpura de la rosa), Palma de Mallorca (Turandot e Fanciulla del west), Limoges (Tosca), Toulon (Linda di Chamounix) ed altre decine di teatri in differenti nazioni del mondo.
Dal 2004 al 2009 ha ricoperto l’incarico di Direttore Artistico e Sovrintendente del Teatro Sociale di Rovigo. Nel 2010 è stato direttore dell’Italian Opera Festival di Londra. Dal 2011 al 2016 è stato direttore artistico della Fondazione Teatro Verdi di Pisa.
Dal 2015 firma come regista importanti spettacoli operistici in tutto il mondo: ha appena terminato il Trittico di Puccini ad Osaka (Giappone), Cavalleria rusticana di Mascagni, Traviata di Verdi, Don Giovanni a Pafos, Tosca, Rigoletto e sarà presto impegnato in altre importanti produzioni estere ed italiane come Jolanta e Aleko. Ha firmato la regia anche di opere moderne come Salvo d’Acquisto al Verdi di Pisa e barocche come Il Flaminio con il Maggio Formazione di Firenze
Docente di canto lirico in conservatorio a La Spezia, Alessandria, Udine, Ferrara e ora a Rovigo
Ha insegnato Management del Teatro all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano.
Ha fatto Master Class in varie parti del mondo, per esempio Kiev (accademia Ciaikovski), Shangai, Chengdu, Osaka, San Pietroburgo, San Josè de Costarica ed in moltissime città italiane.
Musicologo, ha pubblicato molti saggi: Rigoletto, dramma rivoluzionario 2012; Alla presenza di quel Santo 2005 quattro edizioni e 2013; Era detto che io dovessi rimaner… 2006; Da Santa a Pina, le grandi donne di Verga 2006 due edizioni; Puccini ha un bel libretto 2005 e 2013, A favore dello scherzo, fate grazia alla ragione 2006 e 2013; La favola della ”Cavalleria rusticana” 2005; Un verista poco convinto 2005; Dalla parte di don Pasquale 2005; Ti baciai prima di ucciderti 2006 e 2013; Del mondo anima e vita è l’amor 2007 e 2014Vita gaia e terribile 2007; Genio e delitto sono proprio incompatibili? 2006 e 2012; Le ossessioni della Principessa 2008 e 2012; Dal Burlador de Sevilla al dissoluto punito: l’avventura di un immortale 2014; L’uomo di sabbia e il re delle operette 2014; Un grande tema con variazioni: il convitato di pietra 2015; E vo’ gridando pace e vo’ gridando amor 2015; Da Triboulet a Rigoletto 2011; Editi da Teatro Sociale di Rovigo, Teatro Verdi di Padova, Teatro Comunale di Modena, Festival di Bassano del Grappa, Teatro Verdi di Pisa.
Ha pubblicato “una gigantesca follia” Sguardi sul don Giovanni per la casa editrice ETS a cura di da Alessandra Lischi, Maria Antonella Galanti e Cristiana Torti dell’Università di Pisa. Nel 2012 Ha edito un libro di poesie “Poesie 1996-2011” presso la casa editrice ABEdizioni. E’ nell’antologia di poeti contemporanei “Tempi moderni” edito da Libroitaliano World. E’ iscritto Siae ed autore delle versioni italiane del libretto delle opere: Rimskji-Korsakov Mozart e Salieri; Telemann Il maestro di scuola; Entrambe rappresentate al Teatro Sociale di Rovigo ed al teatro Verdi di Pisa. Dargomiskji Il convitato di pietra rappresentata al teatro Verdi di Pisa