LA RUPE – UN RACCONTO DI ILARIA PALOMBA
L’Uomo sale sulla rupe, la fatica riempie i muscoli e il vento getta terra sul volto e sugli abiti, annerendoli. Al culmine della rupe un giardino di cardi, ginestre, caprifogli, il sole allaga a macchie le foglie e seziona i petali dei fiori, s’incide su taluni illuminandoli mentre altri li evita.
Al centro del giardino, Il Vecchio, seduto sull’erba, in contemplazione.
L’Uomo s’inginocchia, stanco, pregno di terra e sudore.
Ho scalato la rupe, dice. E voglio passare.
Vi abbiamo dato tutto, dice Il Vecchio, e l’avete sprecato. Tornatene a casa. Non puoi passare.
L’Uomo si graffia le ginocchia con le unghie.
Ma se tornerò indietro, senza aver visto, mi uccideranno, dice.
E tu inventa di aver visto, dice Il Vecchio.
Ho lavorato tutta la vita, dice L’Uomo, per poter passare dall’altra parte, a cosa è valso?
Non disperare, dice Il Vecchio. La tua sorte è simile a quella dei tuoi pari, tutti morirete poiché avete dissipato i doni.
L’Uomo raccoglie tra le dita gli steli delle ginestre, dei cardi, dei caprifogli e li strappa dal suolo. Una pioggia di pollini viene giù dal cielo. Il Vecchio ride.
Quanta stoltaggine in ogni gesto, in ogni esternazione del tuo sentire. Vattene. Non ho tempo da perdere.
L’Uomo si mette a correre controvento, raggiunge Il Vecchio, lo supera. Guarda oltre il dirupo. Una distesa bianca balugina come un mare di neve e argento, tetti di stupa e cupole di antiche basiliche si ergono possenti, fuori dal bianco. L’Uomo pensa sia uno spreco, tutto quel mondo disabitato. Scavalca lo steccato e il piede s’incaglia in un roveto, qualcosa di affilato gli trapassa la caviglia. L’Uomo urla di dolore e si volta verso Il Vecchio che seguita a ridere.
Non ti è concesso di raggiungere La Nuova Città, dice. Lo spreco che avete fatto della vostra vi sia d’insegnamento. Ora torna a casa e racconta ai tuoi pari che La Città è inaccessibile.
L’uomo grida e impreca, la caviglia impigliata tra i rovi è pregna di sangue, l’intero piede ne è invaso.
Come posso tornare se il mio piede è stato ferito?, dice.
Usa l’altro piede e un bastone che troverai nello stesso roveto che ti ferisce, dice Il Vecchio.
L’Uomo libera il piede dai rovi di rete, alluminio e ferro, il sangue continua a stillare e L’Uomo perde la sensibilità del piede.
In mezzo alle lame, rami. L’Uomo prende un ramo abbastanza alto da servirgli da bastone. Ridiscende la rupe, i tagli si slargano come crateri, il sangue macchia ogni pietra, ogni sasso, ogni foglia. I crateri vermigli s’infossano, raggiungono il fascio muscolare della caviglia, lacerano l’osso, lo trapassano. All’imo della rupe il piede si stacca. L’Uomo cade.
Un nugolo di donne dagli abiti scuri corre incontro al corpo riverso dell’uomo. Una di loro, Leida, si protende verso di lui, lo abbraccia e gli ausculta il petto.
È vivo, dice alle altre, portatemi un carro.
Le altre corrono verso il villaggio. Leida cerca di parlargli ma L’Uomo è in deliquio e rovescia gli occhi.
Dimmi, dice Leida, cosa ha detto Il Vecchio? Perché non ti ha lasciato passare?
L’Uomo ascolta le parole ma non può rispondere. Soltanto sente lo scrosciare del ruscello, gli pare per un istante di udirne la voce.
La Vecchia Città non è ancora perduta, dicono le acque. Solo quando la Vecchia Città tornerà sana potrai accedere alla Nuova Città.
Le donne arrivano con un carro di legno, insieme sollevano L’Uomo e lo pongono sul carro. Il sangue stilla e L’Uomo trema tutto, la sua pelle diventa fredda.
Alla grotta, dice Leida, e si strappa un lembo di stoffa dell’abito nero per coprire la ferita dell’Uomo e bloccare l’afflusso.
Le donne trascinano il carro fino alla grotta che divide la terra dal fiume, il fiume dal mare. La grotta è ampia, odora di muschio. Nella grotta, molti attrezzi: scimitarre, bende, fasce, stoffe, ampolle, banchi. La grotta è il rifugio della Vecchia Città, l’unico luogo incontaminato. Le donne lasciano il carro poggiandolo sul suolo della grotta. Il corpo dell’Uomo scivola dal carro. Leida dice: Sul banco. Le donne prendono l’uomo dai fianchi, dalle ascelle, lo sistemano sul banco di legno. Leida ordina loro di raccogliere l’acqua del mare e tutte le stoffe della grotta. Le donne raccolgono l’acqua nelle ampolle e la gettano sulla ferita dell’Uomo. Prendono le bende e gli fasciano la caviglia senza piede. Il flusso del sangue scema, il cruore si rapprende e diventa solido. L’uomo smette di tremare e il suo corpo non è più freddo, i suoi occhi sono chiusi ma il battito cardiaco è ancora costante.
Leida dice: Dobbiamo nutrirlo.
Tutti gli animali sono morti, dice una delle donne.
L’uomo rantola nel dolore, nella prostrazione. Gli occhi si rivoltano e le immagini si fanno largo nella mente. La casa di pietra e cemento. Leida piegata sul lastricato, l’Uomo ricorda il proprio nome: Re.
Re guardava Leida, ne carpiva l’afrore di biancospino. Guardandola e sorbendo il suo odore, la immaginò montagna. Lei divenne il primo monte su cui salire e lui vi salì. Le ghermì i larghi fianchi e le arrotolò le vesti fino a denudarla. La piccola Leida si dibatteva tra le brame del suo padrone ma non seppe ribellarsi. Si trovò nuda e pregna di sangue. E lo amò, come si ama un deserto. La notte pianse nella sua stanza bianca, domandò perdono per non essere stata capace di un vero diniego e neppure complice di un desiderio reale.
Re, levatosi presto, vide il sole gonfiare la terra e nascere come una promessa. Uscì dalla sua casa di pietra e salutò i suoi fratelli, Principe, Angelo e Destino, fuori dal cancello.
Disse loro: Come stanno le bestie?
Angelo rispose: I polli sono sazi e i maiali anche.
Principe disse: dobbiamo prenderci cura dei cani, li sento latrare ogni notte.
Destino disse: I cani moriranno.
Re disse ai fratelli: Prendete tre cani e portateli nel bosco. Cacciate gli uccelli e le vacche. Portatemene per cena.
I fratelli si misero in cammino sul viale dei salici fino al bosco.
Re aveva le chiavi di casa dei fratelli. Entrò prima in casa di Angelo. Anna annaffiava le rose del giardino, aveva lunghe trecce del colore del grano e occhi cerulei di un luccicore niveo.
Quando lo vide entrare Anna smise di annaffiare. Re sentì il profumo di rosa per la prima volta.
Cosa fai per le tue rose, Anna?, disse.
Le annaffio ogni giorno, disse Anna.
E se per un giorno smettessi di farlo?, disse Re.
Le rose morirebbero, disse Anna.
Sul volto di Re si allagò un riso furioso.
Tu non annaffierai le tue rose oggi, disse Re.
Le si fece innanzi e Anna vide le rose farsi bocche, spalancare le fauci. Addentarla.
Re entrò in casa di Principe e trovò Principessa distesa sul gigantesco letto di velluto, le andò incontro. La donna aveva un corpo molto esile, due grandi occhi glauchi, una pelle bianchissima screziata di efelidi. Indossava una lunga camicia da notte di raso che lasciava trapelare forme ossute e gracili. Principessa fu sorpresa nel vederlo avvicinarsi con piglio così ferreo.
Non è andato a caccia con i suoi fratelli, maestà?, disse.
Ho lavorato tutta la vita per i miei fratelli e oggi voglio che i miei fratelli lavorino per me, disse Re.
Come mai proprio oggi?, disse Principessa.
Perché oggi sento battere il cuore troppo forte, disse Re.
Principessa posò il libro di fiabe sulla coperta blu e si coprì le spalle con le mani sentendosi nuda.
In cosa possa servirla, maestà?, disse.
Togliti le vesti, disse Re.
La donna ritrasse le gambe e le portò al petto.
Perché mi chiede questo, maestà?, disse.
Perché tu sei moglie del mio fratello più amato e come appartieni a lui appartieni a me, disse lui.
Mio Re, non posso consegnarmi, disse lei.
Devi, disse Re. È un ordine.
Prima, disse Principessa, voglio leggerle una storia.
Re si assise sulla coltre del letto e sollevò l’abito da notte della donna, fino alle cosce.
C’era una volta un Saggio, disse la donna, che abitava in cima a una rupe. Il Saggio aveva dieci figli e la sua donna era morta al decimo parto. Il Saggio diede ai figli una Città e chiese loro di prendersene cura. Popolò la città di donne e bestie e disse ai figli di procreare e allevare le bestie. Popolò la città di piante e disse alle donne di prendersi cura delle piante. Gli uomini e le donne procrearono e vissero in pace con gli animali, usandoli come nutrimento, fino al giorno in cui uno tra loro si proclamò Re e s’impose sui suoi fratelli. Le bestie più fedeli agli uomini contrassero un morbo e latrarono lunghi lamenti poiché la legge dei fratelli era stata infranta.
Re non volle ascoltare la fine della storia. Strappò le vesti alla donna e la fece sua.
Per ultimo entrò in casa di Destino. Trovò Maga ad attizzare il fuoco della fornace. Maga aveva lunghi capelli neri e occhi profondi di tenebra. Non fu sorpresa della venuta di Re. Non distolse gli occhi dalla fiamma, vide le sciagure successive.
I cani moriranno, disse Maga. Poi moriranno i maiali e per ultimi i polli. Tu rantolerai nel dolore e sarai sepolto dal risentimento.
Prima che Re glielo imponesse Maga si denudò e si consegnò a lui. I suoi gemiti furono un lungo lamento. I cacciatori lo sentirono dal limitare del bosco.
Destino, a capo dei fratelli, giunse in casa sua e trovò Re e Maga giacere insieme all’ombra del fuoco. Destino puntò il fucile contro suo fratello ma Re glielo sfilò dalle braccia e gli sparò. Maga si gettò nel fuoco e ne venne fuori trasfigurata. Viva ma completamente arsa, scarnificata, irriconoscibile.
Principe e Angelo accorsero e videro. Re sparò loro prima che potessero parlare. Principessa strappò tutte le stoffe, le vesti, l’organza del letto, le tende. Anna sradicò le rose dal terreno e si punse con le spine. Con le mani sanguinanti cosparse di rose i corpi dei tre defunti.
Leida restò murata in casa.
Nei giorni seguenti i cani morirono. I maiali morirono. I polli morirono.
La terra non fu più feconda e le piante morirono. Restò solo la grotta e le donne si rifugiarono nella grotta.
Leida disse a Re: Vai dal Vecchio e chiedigli di passare nella Città oltre la rupe, quando tornerai ci trasferiremo nella Nuova Città. Se il Vecchio non ti farà passare noi ti uccideremo.
Poi lo schernì. Con un’occhiata lo frantumò.
Perché hai disonorato la casa dei tuoi fratelli?, disse Leida.
Perché sono Re, disse lui.
E perché li hai uccisi?, disse Leida.
Perché sono Re, disse lui.
E su chi regnerai ora che i tuoi fratelli sono morti, gli animali sono morti, le donne piangono e le piante appassiscono?
Regneremo sulle donne che piangono, disse Re.
Leida rise.
Le donne, quando disperano, sono ingovernabili, disse.
Alle sue spalle le donne dei suoi fratelli, e tutte le donne della Vecchia Città, gridavano e si strappavano i capelli.
Re s’incamminò lungo la rupe.
Man mano che la ferita smette di sanguinare, il corpo dell’Uomo riprende vigore, la sua pelle torna calda e i suoi occhi non sono più rovesciati. Le donne tornano con in braccio una cesta gremita di foglie macinate: biancospino, valeriana, tiglio, camomilla, melissa, passiflora, una sporta di coriandoli gialli, verdastri e grigi.
Perché non avete portato i frutti?, dice Leida.
Sono appassiti, dice Anna.
Sono marci, dice Principessa.
Sono morti, dice Maga. La terra ci divorerà se non lo uccidiamo.
Leida alza lo sguardo, brandisce il bastone dell’Uomo che una volta si faceva chiamare Re.
Non toccatelo, dice Leida. È l’unico uomo vivo.
Maga raccoglie i frutti marci caduti dagli alberi. Mele, albicocche, arance, limoni, prugne, ciliegie, fragole, fichi, tutto annerito e putrido. Raccoglie insozzandosi le dita. Principessa e Anna la imitano, le altre donne restano con Leida.
L’Uomo guarda Leida stremato.
Io ti ho tradita, perché mi salvi?, dice.
Leida inspira l’odore del sangue, la pelle dell’Uomo ne è pregna.
Sei stato il mio Re, dice lei. Ora sarai mio servo.
Devi andare dal Vecchio, dice L’Uomo, devi dirgli che, per il bene delle donne, dobbiamo raggiungere la Nuova Città, dice L’Uomo.
Andrò dal Vecchio, dice Leida. E vi porterò nella Nuova Città.
Dunque mi lasci con le donne disperate?, dice l’Uomo.
Devo, dice Leida, lo sai anche tu.
Leida sale sulla rupe. La fatica riempie i muscoli e il vento getta terra sul volto e sugli abiti, annerendoli. Al culmine della rupe un giardino oscuro. Solo la luna rischiara in una clessidra di luce fioca il volto del Vecchio raschiato da solchi profondi.
Ho servito il mio Re tutta la vita, dice Leida, e sono sopravvissuta alla sua follia. Per tutte le donne del villaggio che hanno perduto i mariti a opera del mio sciagurato Re, lasciami passare nella Nuova Città.
Il Vecchio ride e il lucore lunare s’incide nel suo occhio sinistro lasciando baluginare una scintilla.
La Nuova Città è scomparsa, dice. Guarda tu stessa.
Leida a tentoni si avvicina al dirupo, vi si sporge.
Al posto della Nuova Città campeggia un impero di cenere. La polvere si solleva in larghe folate sulla luna piena.
Leida si volta camuffando l’angoscia in uno sguardo implacabile.
Cosa ne è stato?, dice.
Mentre salivi le tue sorelle hanno sepolto il tuo Re. La Nuova Città è sprofondata con lui.
Leida seguita a sorridere al Vecchio ma una lacrima le riga il volto umettando le narici, le labbra.
È morto il mio Re?, dice Leida.
No, dice Il Saggio, ma morrà presto.
Leida ridiscende la rupe con tanta foga da arrivare a valle con le gambe piene di profonde lividure. Raggiunge le donne e vede una montagna di frutti marci, è un tempio.
Non sente lo scrosciare del ruscello, non ne ode la voce, e si accorge che tutte le acque della Città sono prosciugate. Il letto del fiume è un canale di fango e pietre. L’intera Città un sepolcro.
Disseppellitelo, urla. La Nuova Città è scomparsa, urla.
Ma le donne, invasate, danzano nude intorno alla tomba dell’Uomo. Masticano carne e hanno le labbra laide di sangue.
Mangiate la carne putrida degli animali?, dice Leida.
Solo più tardi si accorge che ai piedi delle donne più giovani vi sono le più vecchie, riverse, sventrate. E ai piedi delle più vecchie, le più giovani, senza un seno o senza un braccio, dilaniate, sanguinanti, fatte a pezzi.
Quale legge governa ora la mia Città?, dice Leida. Dove nasconderò la vergogna della mia razza?
Ma le donne danzano e non si curano della sua disperazione. Proseguono nel rito cannibale travolte in una coreutica di possessione.
Davanti a tutte Maga. Maga trasfigura nella carne lasca di un’anziana, tanto simile al Vecchio Saggio, quanto agli anni della Terra.
Leida s’inginocchia piangente.
Anche tu, dice Maga, hai desiderato la disfatta. Anche tu hai amato un carnefice e hai bramato un’invenzione di ruoli. Anche tu sei volontà di potenza.
La metamorfosi di Maga è completa. Ormai è divenuta Il Vecchio in cima alla rupe. E la rupe è composta dalle carcasse delle donne, degli uomini, degli animali, dei frutti. Il Vecchio Saggio banchetta in cima alla rupe.
Puoi scegliere di restare con me, dice il Vecchio. Banchetteremo insieme.
Sulla morte?, dice Leida.
E si getta dalla rupe.
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Biografia
Ilaria Palomba è una scrittrice italiana.
Ha pubblicato il romanzo “Fatti male” (Gaffi), tradotto in Germania per Aufbau-Verlag nella collana Blumenbar, con titolo “Tu dir weh”; la raccolta di racconti “Violentati” (ErosCultura), di cui un racconto pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti per il Mammoth Book, l’antologia di racconti curata da Maxim Jakubowski. Grazie a una Borsa di Studio Internazionale, ha elaborato il saggio “Io sono un’opera d’arte. Viaggio nel mondo della performance art” (Dal Sud), durante un anno di studi al CeaQ, diretto dal Prof. Maffesoli; il romanzo “Homo homini virus” (Meridiano Zero), d’ispirazione per molte performance teatrali e di body-art e vincitore del ControPremio Carver 2015 e terzo al Premio Nabokov 2015; il romanzo “Una volta l’estate” (Meridiano Zero), a quattro mani con Luigi Annibaldi, Premio L’Aringo Essere Donna Oggi 2016; la silloge poetica “Mancanza”; l’autofiction “Disturbi di luminosità” (Gaffi).
Il racconto “Il potere della negazione” e il racconto “Tu, mia compagna di viaggio”, tradotti in francese e pubblicati in duplice lingua nei numeri “le BAROQUE” (2015) e “LA RUE” (2016) della rivista internazionale “Les Cahiers européens de l’imaginaire”, fondata da Michel Maffesoli e Gilbert Durand.
Il racconto “Le altalene” pubblicato su Retabloid di Oblique.
Due racconti pubblicati rispettivamente nelle antologie “Il mestiere più antico del mondo?” (Elliot) e “Sorridi siamo a Roma” (Ponte Sisto).
Alcune sue poesie sono state pubblicate su Nuovi Argomenti.
In via di pubblicazione la silloge poetica “Deserto” (Fusibilia) vincitrice del Premio di Profumi di Poesia.