La Traviata di Verdi al Teatro Carlo Felice di Genova 2 maggio 2018
Quante volte avrò letto “La signora delle camelie”, commuovendomi sempre per quella creatura meravigliosa, Margherita Gautier, disegnata da Alexandre Dumas come un’esile, elegantissima farfalla, vissuta un solo giorno e rimpianta per sempre dal suo Armand Duval? Quante ho ascoltato, cantato, messo in scena “La traviata” di Verdi che, pur con la cruenta scena della festa di Flora ed inventando un mai avvenuto ricongiungimento finale dei due amanti, dalla storia di Margherita prende le mosse e con la forza mirabile della musica dà vita ad un personaggio sublime come Violetta Valery? Che cosa aggiungere a tanta meraviglia? Un’idea registica nuova? Un simbolismo semplice semplice che mi spieghi qualcosa di Violetta-Margherita che non colsi? La regia di Giorgio Gallione sembra voler fare questo, sin dall’ouverture; è originale, certo, ma poco comprensibile. L’idea chiave è: Violetta in bianco, gli altri in nero, bene e male, un albero bianco scheletrico a simboleggiare la vita, ovviamente abbattuto nel terzo atto, fondale rosso sangue nel terzo atto e richiami continui al sangue negli abiti delle ballerine ed in modo disgustoso, ma iperrealistico, nel fazzoletto che lei ha sempre in mano, perde e riprende ed è impugnato perfino da Germont padre nel secondo atto per gettarle in faccia la sua vergogna. “Un luogo stilizzato, antirealistico, simbolico, sterile” come dice lo stesso Giorgio Gallione nelle sue brevi note di regia, dove domina la morte sin dall’inizio, la “speranza è assente e la vita rischia di essere nient’altro che una tragica carnevalata” (ibidem). I personaggi ridotti conseguentemente a simboli, sforzati, piegati da un’idea registica confusa ma incisiva. Sì, ma Verdi? Ma Dumas? Dov’è lo strazio di Dumas nel raccontare la morte a soli 23 anni della sua amatissima Duplessis? Dov’è la commozione del compositore Bussetano nel leggere quelle pagine e decidere per quell’ineluttabilità che origina la vera arte, di metterle in musica? Dov’è la commozione del pubblico, che infatti è rimasto distante, perplesso, critico, freddo come il ghiaccio che trasmetteva la scena? La Traviata è dramma romantico di passione, d’amore, di sentimenti forti e veri che sfidano le convenzioni, ha bisogno dell’umanità dei personaggi: togliere loro l’umanità e “stilizzarli” significa eliminare il melodramma stesso. In questo allestimento del Carlo Felice gli artisti non possono che trasmettere distacco, per volontà del regista, perfino nei momenti chiave della passionalità, perfino nell’abbraccio disperato che Violetta dovrebbe dare ad Alfredo nell’”Amami Alfredo”, che il regista fa cantare infatti alla protagonista all’impiedi, dietro Alfredo accucciato a terra, come un bambino che giochi con non si sa che, disinteressato lui e disinteressata lei al dramma che si pretende coinvolga il pubblico.
Prima ancora che inizi la musica è comparsa in proscenio una figura maschile nero vestita, con la fisicità imponente di Manrico Signorini, che ha aperto il sipario ed ha fatto ingresso nella scena per non uscirvi pressoché più: figura demoniaca, la morte, il destino, chissà quale fosse l’idea del regista; qualunque cosa fosse era inidentificabile dal pubblico, che avrà pensato dapprima a un Alfredo Germont invecchiato che ricorda il passato, come nel film di Zeffirelli, poi a Dumas o Verdi, poi a Germont padre, prima di localizzare questa figura nel dottor di Grenville, ruolo di competenza del buon Signorini. Ciò che si è visto in scena, sulle note d’ouverture che Verdi ha scritto per creare un pathos narrativo, era confuso: più figure femminili, tre avvolte in un velo, una libera (poi rivelatasi come Violetta), ballerini-mimi come ectoplasmi vestiti di nero con ombrello aperto come ad evocare un funerale (immagine molto bella), Violetta che danza riferendosi al dottor-Morte e poi cade. E’ finita l’ouverture e tutti ci siamo chiesti come ci si sarebbe trasferiti in un attimo alla sala delle feste di casa Valery ed ecco che con uno scatto i ballerini hanno chiuso gli ombrelli e si sono riciclati al volo come invitati della festa, tutti rigorosamente in nero.
I personaggi di questo allestimento non sono mai soli; sin dall’inizio c’è l’ingombrante presenza di un manipolo di ballerini, poi assiste sempre qualcuno, anche alle scene più intime, o Grenville-Mephisto, che spia dietro una tenda in modo risibile o rimane impalato a pochi passi (duetto Violetta- Alfredo), o Annina o uno degli stessi protagonisti, tanto che Alfredo canta “Lunge da lei” con lei presente ed ascoltante! Un istante dopo Violetta chiede ad Annina se abbia visto il suo Alfredo (che era lì fino a quell’istante), e nel terzo atto Annina stessa viene mandata da Violetta a chiamare un dottore che è già lì presente e che si limita a girarsi su se stesso. Tutto simbolico, si è detto, ma in questo modo la realtà teatrale è perduta e abbiamo assistito era alla Traviata di Gallione, non a quella di Verdi, cosa comune certo, anzi richiesta da parte della critica e del pubblico, non da chi va a vedere “la Traviata” per vedere semplicemente “la Traviata” di Giuseppe Verdi, perché ama l’opera così come è stata scritta dal compositore e la rispetta.
Intendiamoci, nulla di dissacrante, nulla di sconvolgente nella regia di Gallione che, secondo me è riuscito a scontentare sia coloro che ritengono l’opera morta e da rileggere, sia coloro che la ritengono viva, la rispettano e non vogliono stravolgimenti. Un amico, nel foyer, commentava lapidariamente “Non c’è una sola cosa al suo posto”. Ecco, è questa l’immagine che questa Traviata ci lascia, con la bellezza di alcune scene, come quello pseudo-funerale dell’ouverture o lo specchio che riflette la scena nel terzo atto (tributo a Svoboda o copiatura?), ma con un senso generale d’insoddisfazione e svuotamento. Non si è pianto, tutti erano indifferenti e freddi, come i protagonisti, che rivedendosi dopo lungo tempo nel finale nemmeno si abbracciano e rimangono ai lati opposti del palcoscenico.
Si è piuttosto sorriso in certi passaggi al limite dell’errore teatrale, dovuti sempre all’impostazione simbolica. Per citarne alcuni: Violetta dice “oh, qual pallor” senza avere nessuno specchio a portata di mano e parlando ad un Grenville che non dovrebbe essere lì, oppure nel terzo atto Violetta morente cade in avanti e Alfredo che le sta alle spalle guardandole le terga esclama “Tu impallidisci!”; Annina poi canta “Mi richiedeste” senza che nessuno abbia suonato alcun campanello (il simbolismo!). Ingiustificati e sbagliati i gesti di violenza tipo il ceffone che Giorgio Germont assesta al figlio prima della cabaletta “No, non udrai rimproveri” nella quale avrebbe dovuto rassicurare il figlio: così sembra invece dirgli che non udrà rimproveri, ma prenderà un sacco di sberle! Inaccettabile che Alfredo infierisca su Violetta picchiandola ancora e lanciandole oggetti dopo “Che qui pagata io l’ho” nell’indifferenza di tutti, senza che nessuno intervenga per fermarlo e mentre lui, che si dovrebbe essere reso conto dell’errore canta “Oh Dio che feci, ne sento orrore!”. Del resto aveva già buttato a terra il padre alla fine della scena precedente.
Per fortuna c’era Lana Kos, che ha saputo regalarci un personaggio vocalmente molto valido, pur senza la puntatura al mi bemolle, non necessaria, nella prima aria. Dotata di un timbro sicuramente più lirico di molte Violette attualmente in auge, ha reso la drammaticità della protagonista verdiana lottando per tutta la rappresentazione con le contraddizioni di un difficile rapporto tra la musica e la regia. Costretta ad un’improbabile pettinatura bionda alla Marylin Monroe, che sicuramente non la aiutava, ha attraversato la vicenda cercando sempre di darle un significato, con un’emissione ricca di sfumature, calda, sicura in tutti i registri e soprattutto in acuto. Una certezza. Ma anche ad un’artista così non si possono chiedere i miracoli e quindi dal suo cantare su un albero (l’albero della vita) nel primo atto, all’aria finale dello stesso atto cantata in presenza dei ballerini e della morte con tanto di cadavere, al suo essere in scena senza un solo oggetto a supporto durante aria e cabaletta di Alfredo per cui ascolta anche “O mio rimorso o infamia” dovendo “ocheggiare” come Marylin, è trapelato un imbarazzo crescente. Il non-sense registico è arrivato perfino a farla muovere nel finale strisciando a terra verso Alfredo, anche lui a terra e non si è capito perché, dopo che il dottore ha sentenziato “E’ spenta” riferendosi forse ad una qualche luce sul palcoscenico, dato che Violetta era ancora viva. Potenza del simbolismo! Mirabile la sua “Addio del passato..”, con voce pastosa e robusta, intimamente commossa, pur cantata in presenza del dottore mentre…nevica in casa.
Stefano Secco, come Alfredo Germont, è una garanzia di qualità con la sua voce molto morbida, ma in questa circostanza non ha convinto appieno, tanto che in foyer molti si chiedevano se fosse in forma. Rispetto ad altre circostanze nelle quali ho avuto la fortuna di ascoltarlo, ha allargato i centri, forse dedicandosi ad un repertorio più lirico, ed ha perso incisività negli acuti, sempre sicuri ma meno potenti dei centri. Coinvolto nella “stilizzazione” ed in molte situazioni incoerenti sul piano registico, non si è calato con convinzione nel personaggio, riuscendo poco credibile. Eccellente nel duetto del secondo atto, dove ha fatto a gara con la Kos in smorzati, filati e dolce emissione ed in quello del terzo atto, dove ha affrontato la non semplice scrittura verdiana con assoluta padronanza, domina il ruolo con sicurezza ritmica e tecnica, privilegiando a volte centri un po’ più aperti del dovuto a scapito come si è detto della brillantezza degli acuti. Bene nell’aria e nella cabaletta nonostante l’imbarazzante presenza di Violetta. Ha dovuto comparire in scena anche durante la prima aria di lei, circondato dai ballerini neri del funerale con l’ombrello, nonostante Verdi avesse previsto fuoriscena il suo intervento. Nel secondo atto sopravvive ad una cabaletta molto lenta e ne esce con l’acuto di prammatica, ma molto esile, quasi da tenore leggero.
Rodrigo Esteves, Giorgio Germont, è un buon baritono, ma evidentemente non ha approfondito la paternità deforme del personaggio, le sue ansie, il suo perbenismo, il fascino alla Javert che prova per ciò che combatte; Esteves si muove come un ragazzo, rapidamente, a scatti, e predilige la rabbia verso Violetta ed il disprezzo per la sua malattia. Sarà forse l’impronta registica, ma nel duetto si perde il fiume di pensieri contraddittori che affollano la mente di Germont padre: il fascino di Violetta, l’affetto paterno, la “rispettabilità” sociale, infine la pietà verso quella donna generosa e grande. Resta un ruolo ben cantato, ma senza quel “cuore” grande che può rendere Germont vicino alla nostra sensibilità ed umanità e che ce lo fa comprendere. Vocalmente non lega come Verdi vorrebbe, anzi tende a marcare tutti i suoni spezzando anche le frasi di “Pura siccome un angelo” per respirare. In “Un dì quando le veneri” lo staccato è più rossiniano che verdiano. Le sue buone qualità vocali gli permetterebbero di interpretare musicalmente un personaggio di spessore superiore, come avviene, infatti, nell’aria. Il personaggio che gli ha costruito il regista è freddo, spietato, ha il coraggio si mostrare a Violetta con disprezzo il fazzoletto insanguinato segno della sua malattia, non l’abbraccia nemmeno quando lei glielo chiede. I suoi acuti sono facili, ma blocca i muscoli pettorali rendendoli un po’ aspri.
Marta Leung, con un improbabile parrucca corta rossa, sembra più il principe Orlovsky del Pipistrello piuttosto che l’amica Flora Bervoix, e ne rimane scenicamente molto condizionata, anche se vocalmente ha offerto una prova convincente.
Validi il Gastone di Didier Pieri, molto elegante, anche se un po’ lacunoso come volume negli acuti, Il barone Douphol, insolitamente giovane ed aitante, di Ricardo Crampton, il più che potente Marchese d’Obigny di Claudio Ottino, con qualche problema d’intonazione nel registro acuto, il dottor Grenville di Manrico Signorini, diventato protagonista sempre presente della vicenda per volontà registica, senza poter assumere quei connotati diabolici che forse si sarebbero voluti, a causa del viso da bravo ragazzo, quale egli è . Ha svolto il suo compito con partecipazione. Considero Paola Santucci un’artista validissima ed ho avuto modo di ammirarla come donna Elvira nel Don Giovanni di Mozart; mi è dispiaciuto ritrovarla a fare un ruolo molto più piccolo di quanto i suoi mezzi vocali e artistici pretenderebbero (Annina) e, per di più, nel vederla così a disagio nell’interpretarlo, quasi ne fosse schiacciata, limitata, costretta a non potersi valorizzare e mettere in gioco.
Molti i momenti di incertezza ritmica tra orchestra e solisti, (soprattutto nel duetto dell’atto secondo) ed i punti nei quali i cantanti sono stati messi in difficoltà dai tempi eccessivamente “seduti” (per esempio “Di Provenza” con improvvisi accelerandi su “il mar il suol” e rallentandi che non vengono poi recuperati dilatando i tempi progressivamente) richiesti dal direttore Daniel Smith, un talento di comunicazione e professionalità, che, ormai conosciutissimo in ambito sinfonico, deve forse ancora un poco approfondire il rapporto con i cantanti, le diverse vocalità e le difficoltà che possono insorgere nel corso di un’esecuzione scenica. L’orchestra del Teatro Carlo Felice ha risposto bene ad una direzione misurata ed efficace, con frequente anticipo del gesto, da parte del maestro. Bene il Coro del Teatro Carlo Felice preparato dal maestro Franco Sebastiani. Discutibili i costumi e le scene di Guido Fiorato, in linea con l’impostazione registica. Bellissime le maschere carnevalesche-demoniache e l’abito di Violetta, mentre non condivido l’androginia di Flora e Annina, sicuramente non richiesta né voluta da Verdi. Immagino l’imbarazzo di Germont padre nel cantare “Pur tanto lusso” con in scena solo un albero e delle mele.
I mimi e danzatori DEOS coreografati da Giovanni di Cicco hanno ben interpretato quanto loro richiesto dalla regia, infatti a loro è stata affidata l’atmosfera “antirealistica”. Ho trovato il loro intervento iniziale affascinante, mentre successivamente la loro presenza in scene nelle quali Verdi non aveva previsto il loro apporto (per esempio il coro “Si ridesta in ciel l’aurora”) non è stata positiva, creando un effetto di distrazione dello spettatore dalla vicenda e dalla commozione.
MARCELLO LIPPI
Autore e Critico Musicale per la Cultura di Young diretta da David Colantoni
Baritono. Nato a Genova, si è diplomato presso il conservatorio Paganini; e laureato presso l’istituto Braga di Teramo con il massimo dei voti. E’ anche laureato in lettere moderne presso l’Università degli studi di Genova. La sua carriera comincia nel 1988 con La notte di un nevrastenico e I due timidi di Nino Rota e subito debutta a Pesaro al Festival Rossini in La gazza ladra e La scala di seta. In seguito canta in Italia nei teatri dell’opera di Roma (Simon Boccanegra, La vedova allegra, Amica), Napoli (Carmina Burana), Genova (Le siège de Corinthe, Lucia di Lammermoor, Bohème, Carmen, Elisir d’amore, Simon Boccanegra, La vida breve, The prodigal son, Die Fledermaus, La fanciulla del west), Venezia (I Capuleti e i Montecchi), Palermo (Tosca, La vedova allegra, Orphée aux enfers, Cin-ci-là, Barbiere di Siviglia), Catania (Wienerblut, Der Schulmeister, das Land des Lächelns), Firenze (Il finanziere e il ciabattino, Pollicino), Milano ( Adelaide di Borgogna), Torino (The consul, Hamlet, Elisir d’amore), Verona (La vedova allegra), Piacenza (Don Giovanni), Modena (Elisir d’amore), Ravenna (Elisir d’amore), Savona (Medea, Il combattimento, Torvaldo e Dorliska), Fano (Madama Butterfly), Bari (Traviata, La Cecchina), Lecce (Werther, Tosca), Trieste (I Pagliacci, Der Zigeuner Baron, Die Fledermaus, Al cavallino bianco, La vedova allegra), Cagliari (Die Fledermaus- La vida breve), Rovigo (Werther, Mozart e Salieri, The tell-tale heart, Amica), Pisa (Il barbiere di Siviglia- La vedova allegra), Lucca (Il barbiere di Siviglia) eccetera. All’estero si è esibito a Bruxelles (La Calisto), Berlin Staatsoper (Madama Butterfly, La Calisto), Wien (La Calisto), Atene (Il barbiere di Siviglia- Madama Butterfly), Dublin (Nozze di Figaro, Capuleti e Montecchi), Muenchen (Giulio Cesare in Egitto), Barcelona (La gazza ladra, La Calisto, Linda di Chamounix), Lyon (Nozze di Figaro, Calisto), Paris (Traviata, Nozze di Figaro), Dresden (Il re Teodoro in Venezia, Serse), Nice (Nozze di Figaro, The Tell-tale heart), Ludwigshafen (Il re Teodoro, Serse), Jerez de la Frontera (Nozze di Figaro), Granada (Nozze, Tosca), Montpellier (Calisto, Serse), Alicante (Traviata, Don Giovanni, Rigoletto, Bohème), Tel Aviv (Don Pasquale, Elisir d’amore, Traviata), Genève (Xerses, La purpura de la rosa), Festival Salzburg (La Calisto), Madrid (La purpura de la rosa, don Giovanni), Basel (Maria Stuarda), Toronto (Aida), Tokio (Traviata, Adriana Lecouvreur), Hong Kong (Traviata), Frankfurt (Madama Butterfly), Dubrovnik (Tosca), Cannes (Tosca), Ciudad de Mexico (La purpura de la rosa), Palma de Mallorca (Turandot e Fanciulla del west), Limoges (Tosca), Toulon (Linda di Chamounix) ed altre decine di teatri in differenti nazioni del mondo.
Dal 2004 al 2009 ha ricoperto l’incarico di Direttore Artistico e Sovrintendente del Teatro Sociale di Rovigo. Nel 2010 è stato direttore dell’Italian Opera Festival di Londra. Dal 2011 al 2016 è stato direttore artistico della Fondazione Teatro Verdi di Pisa.
Dal 2015 firma come regista importanti spettacoli operistici in tutto il mondo: ha appena terminato il Trittico di Puccini ad Osaka (Giappone), Cavalleria rusticana di Mascagni, Traviata di Verdi, Don Giovanni a Pafos, Tosca, Rigoletto e sarà presto impegnato in altre importanti produzioni estere ed italiane come Jolanta e Aleko. Ha firmato la regia anche di opere moderne come Salvo d’Acquisto al Verdi di Pisa e barocche come Il Flaminio con il Maggio Formazione di Firenze
Docente di canto lirico in conservatorio a La Spezia, Alessandria, Udine, Ferrara e ora a Rovigo
Ha insegnato Management del Teatro all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano.
Ha fatto Master Class in varie parti del mondo, per esempio Kiev (accademia Ciaikovski), Shangai, Chengdu, Osaka, San Pietroburgo, San Josè de Costarica ed in moltissime città italiane.
Musicologo, ha pubblicato molti saggi: Rigoletto, dramma rivoluzionario 2012; Alla presenza di quel Santo 2005 quattro edizioni e 2013; Era detto che io dovessi rimaner… 2006; Da Santa a Pina, le grandi donne di Verga 2006 due edizioni; Puccini ha un bel libretto 2005 e 2013, A favore dello scherzo, fate grazia alla ragione 2006 e 2013; La favola della ”Cavalleria rusticana” 2005; Un verista poco convinto 2005; Dalla parte di don Pasquale 2005; Ti baciai prima di ucciderti 2006 e 2013; Del mondo anima e vita è l’amor 2007 e 2014Vita gaia e terribile 2007; Genio e delitto sono proprio incompatibili? 2006 e 2012; Le ossessioni della Principessa 2008 e 2012; Dal Burlador de Sevilla al dissoluto punito: l’avventura di un immortale 2014; L’uomo di sabbia e il re delle operette 2014; Un grande tema con variazioni: il convitato di pietra 2015; E vo’ gridando pace e vo’ gridando amor 2015; Da Triboulet a Rigoletto 2011; Editi da Teatro Sociale di Rovigo, Teatro Verdi di Padova, Teatro Comunale di Modena, Festival di Bassano del Grappa, Teatro Verdi di Pisa.
Ha pubblicato “una gigantesca follia” Sguardi sul don Giovanni per la casa editrice ETS a cura di da Alessandra Lischi, Maria Antonella Galanti e Cristiana Torti dell’Università di Pisa. Nel 2012 Ha edito un libro di poesie “Poesie 1996-2011” presso la casa editrice ABEdizioni. E’ nell’antologia di poeti contemporanei “Tempi moderni” edito da Libroitaliano World. E’ iscritto Siae ed autore delle versioni italiane del libretto delle opere: Rimskji-Korsakov Mozart e Salieri; Telemann Il maestro di scuola; Entrambe rappresentate al Teatro Sociale di Rovigo ed al teatro Verdi di Pisa. Dargomiskji Il convitato di pietra rappresentata al teatro Verdi di Pisa