25 aprile 2018.
Come qualcuno dei miei pochissimi lettori sa, sono stato amico e dunque conseguentemente allievo di Aldo Rosselli, il figlio e il nipote di Nello e Carlo Rosselli. Aldo si è preso cura di me, sgrossando più che ha potuto la mia rozzezza intellettuale abruzzese proveniente dalla stessa contrada marsicana da cui era venuto e fuggito Silone, il Fucino, per oltre 25 anni, praticamente da quando ero ancora adolescente, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2013 e lasciando questa sua ardua opera del tutto incompiuta. Proprio il 25 Aprile appena scorso, tra le pagine di un libro, ho ritrovato la brutta copia, come si usava ancora una volta, di una lettera che gli scrissi da una Lugano di 15 anni fa. Ero allora un giovane 30enne in grave ritardo di conoscenza su tutto quel che avrei dovuto sapere con almeno 15 anni di anticipo, e che non avrei mai saputo se non avessi avuto la fortuna di questo rapporto. La lettera di questo giovane italiano a un Rosselli, la lettera di un diligente scolaro fiero di trasmettere al maestro quanto abbia appreso, a rileggerla nel giorno della liberazione e nei giorni di queste elezioni sempre più aridamente tecniche, mi è sembrato essere un elemento di archeologia politica e antropologica di un qualche valido interesse – nel frattempo ho smesso da fumare da 10 anni e questa è stata la mia personale lotta -vinta- di liberazione biopolitica.
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Lugano 2003
Caro Aldo,
sono da tre giorni in Svizzera, nel Cantone Ticino, ospite della mia amica cineasta A. Curzen, nella sua meravigliosa casa che affaccia dall’alto di una collina a strapiombo sulle acque increspate del lago di Lugano. Dietro di noi l’imponenza del monte Generoso si tinge ancora di luce quando qui già sera.
Devo continuamente far mente locale di non essere in Italia, dal momento che qui si parla la nostra lingua e le insegne sono scritte in italiano. Mi rendo conto che risulta strano per la coscienza sentirsi stranieri in mezzo alla propria lingua madre e questa situazione mi sta inducendo a parecchie piccole riflessioni che non vale la pena di scriverti, tranne che il primissimo giorno mi sono innervosito perché mi sembrava assurdo non trovare la marca di sigarette che fumo perchè appunto a causa della stessa lingua mi distraevo dal fatto di essere in un’altra nazione e il nervosismo era dovuto alla sensazione di stizza che potrei provare nel non riuscire ad uscire dal sogno di trovarmi in una Italia alla quale una perfida regia onirica avesse tolto tutti i dettagli che la farebbero essere realmente tale. Lingua e oggetti si sono contesi duramente nella mia distrazione il potere di farmi sentire ora estraneo ora appartenente, e così per tutto il primo giorno. Siamo in Svizzera, giusto, continuavo a ripetere ad A., ogni qualvolta ero costretto da un intoppo di questo genere a far mente locale al fatto che avevo attraversato una frontiera. Le implicazioni non sono affatto scontate quando si va in un paese straniero che parla e scrive la tua stessa lingua. Ad ogni modo.
In questi giorni ho letto moltissimo. Mi sono portato due libri di circa un centinaio di pagine l’uno, che ho avuto in regalo questa estate da una mia carissima amica, Francesca Riolo, e che appartenevano al padre, un socialista che aveva fatto la resistenza nel cui studio campeggiava una grande foto di Sandro Pertini dedicata di suo pugno al “caro compagno Riolo”.
Questa trentina di rarissimi libri che mi sono stati regalati di mia scelta da questa biblioteca sono libri scritti quasi tutti nel primo decennio del dopoguerra e riguardano tutti la storia della resistenza italiana e i problemi e le valutazioni che la neonata Repubblica Costituzionale si trovò ad affrontare. Sono raccolte di scritti, quello che sto leggendo Ora, dal titolo “Dieci Anni Dopo”, firmati da Longo, Valiani, Battaglia, Calamandrei e da altri importanti esponenti dei tre partiti di sinistra che insieme a DC, Partiti Liberale e al Repubblicano formavano il CLN Alta Italia, quindi il Partito d’Azione, Il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano.
Per un qualche motivo, queste letture fatte in Svizzera hanno un sapore particolarmente vibrante e vitale ai sensi della coscienza. Lo ammetto, il confine di questo paese neutrale in cui si rifugiarono molti antifascisti della prima ora, ma che permise la salvezza di intere formazioni partigiane durante alcune aspre battaglie con i nazisti nell’inverno del 44, in cui i nazifascisti intensificarono al massimo i rallestramenti e lo sforzo per annientare la resistenza, la famosa crisi del 44, in cui sembrava fosse scoccata l’ultima ora per la resistenza italiana, come ricorda anche Fenoglio, ebbene questa vicinanza, questi luoghi sembrano ancora riecheggiare e vibrare di tutto ciò e danno a queste letture una strana suggestione.
Leggevo un saggio di Leo Valiani qualche giorno fa inserito nella raccolta intitolata “10 anni dopo”, scritto nel 54, intitolato “La questione politica” in cui si affronta il problema della cristallizazione del potere nelle mani della Democrazia Cristiana con i suoi vari corollari, ma di questo ne parla poi Calamandrei nello stesso libro, in un saggio dedicato alla costituzione, come ad esempio la sospensione della creazione dell’organo di garanzia costituzionale, la corte costituzionale, che i democristiani procrastinarono a proprio vantaggio per oltre un decennio dopo la guerra, in modo da evitare di essere contestati sulla costituzionalità delle loro leggi.
Mentre ieri mi capitava di vedere una puntata televisiva su Rai Tre dedicata al festeggiamento imminente del mezzo secolo di vita della televisione italiana. Il 3 gennaio 1954 la prima annunciatrice della RAI, tale Silvia Colombo, annunciava le prime trasmissioni televisive della storia italiana. “Alle 11 inaugurazione, alle 15 sport”.
Ricordo un passaggio di una lettera di un giovane dall’italia scritta da Chiaromonte nel lontano 1934 sui quaderni di Giustizia e Libertà. Parlava Chiaromonte di questo regime di adunate, sagre, raduni sportivi. Parlava del fascismo, ma pareva profetizzare sul nostro presente. Durante la trasmissione di ieri sera, uno dei nostri più celeberrimi duci televisivi (duce in senso di conductor) Pippo Baudo, che i miei occhi conoscono fin dalla nascita, si recava in una casa di riposo in cui risiedeva ormai da anni l’arzilla vecchietta che iniziò le italiche trasmissioni per farle una intervista.
La bellissima anziana raccontò un aneddoto che mi parve assai illuminante. Disse che quando al provino le chiesero di annunciare una qualsiasi cosa, lei non ebbe migliore idea che annunciare la fine del mondo. Fu richiamata e le fu assegnato il posto quale prescelta per aprire l’era della televisione in Italia. Un tragediografo greco non avrebbe fatto di meglio. Meglio delle ciocche dei capelli sulla tomba di Agamennone per introdurre l’inconscio alla catastrofe imminente della tragedia.
La televisione italiana aveva dunque iniziato se stessa con l’annuncio della fine del mondo. Come non pensare a ciò che aveva detto Pasolini sulla nuova preistoria? Nella stessa trasmissione, poco prima di questa intervista, Baudo aveva mostrato con trepidante nostalgia un grande pupazzo chiedendo al pubblico in studio se lo ricordava. Era, credo, il pupazzo di “Lascia o raddoppia”; il pupazzo rappresentava un giovane uomo dalla postura simile a quella di un ubriaco, con l’espressione beota di un ebete. Due enormi occhi con sguardo vacuo che avrebbe voluto rappresentare una qualche concentrazione e invece perso nel vuoto.
Mi viene subito in mente che quel pupazzo non sia un pupazzo bensì un criptoprogramma sociale e politico. Mi viene da pensare questo perché ho in mente un’altra immagine di gioventù. Sono i giovani uomini e donne delle SAP e delle GAP cittadine, quelli che solo nove anni prima della comparsa di questo pupazzo presidiano le centrali elettriche, le fabbriche, i complessi industriali, le grandi infrastrutture cittadine al momento delle grandi insurrezioni finali delle città del nord Italia, Milano, Torino, Genova etc, per non farle distruggere dai nazifascisti.
Sono i giovani uomini e donne dei comitati di liberazione nazionali che tessono la rete della resistenza, non mero fatto d’armi, ma fondamentale laboratorio politico in cui si sperimenta la democrazia dopo venti anni di regime fascista. Cosa hanno a che spartire queste donne e uomini con il pupazzo ebete di Lascia o Raddoppia?
Mi balena in mente che senza volerlo l’ideatore del pupazzo del celebre programma non aveva avuto un rapporto mimetico con gli uomini del suo tempo, ma che guardava alle generazioni future che la televisione avrebbe disfatto nella demenza nazionale.
Quel pupazzo era il programma politico del giovane del futuro italiano svuotato di ogni valore. Esprimeva quell’icona miserabile il modello dell’uomo futuro che si voleva costruire tramite il mezzo televisivo. Giustamente la giovane conduttrice nel suo provino di ammissione decideva di annunciare la fine del mondo, perché esattamente di questo si trattava in quel momento, della fine di un mondo millenario che di li a poco sarebbe stato per sempre spazzato via dalla società spettacolare e dall’industria culturale, e anche di un mondo culturale e politico di una nazione che aveva raggiunto nelle sue elités una maturità e una temperatura morale forgiata dalla sofferenza della dittatura e delle prigioni che aveva spinto il paese quasi a una rivoluzione, mancata solo per lo spaventoso squilibrio di rapporti di forza tra il popolo italiano e le potenze mondiali che mai avrebbero permesso una simile evoluzione italiana a partire dal reazionario Churchill, passando per la morte di un Roosvelt a cui successe un Truman a finire al dittatore totalitario Stalin e di Togliatti che non desiderava il bene di un popolo ma innanzitutto quello di una classe, ricordiamoci bene questo fatto questo, che in quanto tale era sovrannazionale.
L’Italia era solo una preda di guerra chiamata zona d’influenza. Si trattava di una o più generazioni che dalla capacità di sacrificio della loro stessa vita appresa ed espressa in anni di lotta al fascismo, le cui dinamiche si sviluppano a partire dagli stessi anni venti con le stesse avanguardie intellettuali antifasciste, e che deflagrano negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale come fatto ormai di popolo avrebbero potuto esprimere, come aveva detto Calamandrei nel libro “Uomini e città della resistenza” appartenuto a tua madre che mi regalasti tempo fa, una classe politica che avrebbe tradotto la sua capacità di sacrificio della vita per il bene comune di cui aveva dato prova nella resistenza in una classe dirigente immune da ossidazioni verso la corruzione, verso l’interesse personale per almeno diversi decenni, quanto sarebbe bastato per imprimere a questa nazione una rotta ben diversa dalla corruzione generale endemica verso cui si va inabissando.
Infine la triste e ineluttabile fatalità volle uno strumento del tutto inedito sul teatro della storia umana capace di plasmare le coscienze a milioni anzi miliardi di individui, i mass media. Non possiamo proprio pensare il fascismo come distinto dalla potenza amplificatrice e spettacolare della tecnica. Non c’è bisogno di dire più di quanto non sia già stato detto da Guy Debord nella sua atroce radiografia ne “la società dello spettacolo”.
Si tratta di prendere solo dolorosissimo atto di tutto ciò. Inoltre mi sovviene, tanto per dire, che Alleanza nazionale fu il nome della organizzazione creata da un dei primi antifascisti attivi della storia italiana, Lauro de Bosis. Il Fronte della gioventù era l’organizzazione dei giovani resistenti italiani. Entrambi questi nomi di organizzazione politica e oggi sono stati presi dalla destra: la sinistra nemmeno si ricorda che furono suoi.
La federazione delle regioni fu uno dei più arditi e voluti progetti dei costituenti, nata come mimesis della stessa resistenza io credo, la quale opponeva i governi locali dei CLN regionali, cittadini, o di fabbrica, in contrapposizione allo stato centrale mitico e totalitario del fascismo, ed ora è divenuta il cavallo di battaglia di un partito etnicista, la lega.
Niente altro che strane suggestioni, come tutta questa lettera che non vuole essere altro, strane suggestioni di una brevissima vacanza dissidente nella Svizzera contemporanea. Ti abbraccio. A presto.
Lugano 28-9-2003