La Favorite di Donizetti
La domanda che occorre porsi sempre di più nel mondo del teatro è come combattere lo spiazzamento dei criteri di fondo imposto da una società volutamente sempre più ignorante e a-culturata (con una c sola). Riproporre i capolavori del passato filologicamente come opere esposte in un museo o ricordarsi che di opere vive si tratta e che vivono in un luogo sacro dell’umanità pensante che è il teatro, specchio di una società che esse devono riflettere? E se si decide di seguire i mutamenti del gusto nella recitazione e nella teatralità in senso lato, fino a che punto l’operazione può dirsi corretta e non sconfinare nella violenza, nell’insulto all’opera d’arte stessa, quando non agli spettatori? In questo sottile equilibrio sta il futuro del teatro, che deve trovare il modo di essere attuale pur nel rispetto dell’opera d’arte, come l’ha pensata e voluta l’autore. Ben diverso infatti è l’approccio che una produzione deve avere, per esempio, verso un’opera pucciniana, nella quale il compositore scrive ogni piccolo particolare della messa in scena e guida gli interpreti alla costruzione del personaggio, da quello che magari può avere verso un’opera barocca, nata in altro contesto per un pubblico disattento ed impegnato a conversare o cibarsi, imperniata su una teatralità difficile da riproporre oggi e spesso basata su soggetti mitologici ormai fuori dalla conoscenza comune.
Se nella seconda è possibile, forse doveroso, “modernizzare” il linguaggio scenico nel rispetto della musica, nella prima è un vero delitto oltraggiare quanto il compositore ha esplicitamente voluto. Le opere del “Belcanto italiano” però in quale dimensione si collocano? Certamente hanno una teatralità fragile per i nostri gusti, influenzati da un’abitudine allo scorrere rapido d’immagini e segni, spesso occulti, che caratterizza i Social Network; l’idea che due solisti rimangano fermi durante un lungo duetto o compiano passettini privi di senso, si guardino poco e pensino solo alla musica, non è un’idea consona al teatro contemporaneo, tranne, per assurdo, a quello di prosa d’avanguardia. Ci sono dunque capolavori che sono forzatamente a rischio noia, perché la musica, meravigliosa, non basta a placare l’ansia di narrazione che lo spettatore prova nel momento in cui dalla logica del concerto si passa a quella della messa in scena. Qualunque teatro, allora, nel momento in cui decida di dare vita ad uno di questi capolavori, deve impegnarsi a fondo a garantire almeno due condizioni: voci non solo buone, ma eccellenti, e regista capace di vivificare scenicamente quanto è stato scritto in un’epoca nella quale le ragioni della musica prevalevano ampiamente sulla verosimiglianza scenica e sulla realtà attoriale.
Il che è stato parzialmente soddisfatto dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino in questa circostanza.
La direzione d’orchestra è stata affidata a Fabio Luisi e si può senz’altro dire che avere sul podio un maestro di tale livello fosse di per sé un’ottima scelta ed una garanzia di esiti felici. Il piglio con cui ha preso in mano sin dalle prime note la sempre eccellente Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ha dimostrato ulteriormente cosa significhi avere in buca un grande direttore capace di trasmettere a orchestra, palcoscenico e pubblico energia, passione e vita. Perfette le sue scelte dinamiche, i colori, le sfumature che ha chiesto a molti interpreti: è stato un autentico godimento ascoltare con quanta finezza, eleganza, proprietà stilistica sia stato trattato il materiale musicale e quanto lavoro sui cantanti ci fosse dietro l’esecuzione dell’opera. Il Maestro è chi sa trasmettere un’idea, una chiave d’interpretazione, cui tutti i solisti ricollegano le proprie individuali esigenze interpretative creando un’unità artistica. In questa “Favorite” quest’unità stilistica è stata raggiunta, se possibile anche troppo, perché a tanta raffinatezza del coté musicale doveva corrispondere una vivacità registica che purtroppo non abbiamo visto. Ecco che allora si sarebbe auspicata qualche maggiore imperfezione, qualche spunto di vivacità musicale maggiore in un tessuto espressivo che, non trovando riscontri nell’azione, s’adagiava in una versione simil-concerto molto elaborata, ma anche molto sterile nella sua supercoerenza con l’idea di base. Ho molto apprezzato pertanto il coraggioso stacco di tempo nel finale terzo condotto a termine con assoluta sicurezza dal maestro, nonostante la rapidità. Peccato che poi il quarto atto sia iniziato con il coro e l’organo in quinta talmente deboli da essere quasi inudibili, almeno dalla mia posizione.
Della regia già si sapeva, visto che si tratta di una ripresa dello storico allestimento del Gran Liceu di Barcelona del 2002, in coproduzione anche con il teatro Real di Madrid. Facile comprendere le ragioni di un’operazione di coproduzione con due teatri di tal calibro e di tale qualità e che queste ragioni giustifichino anche l’adesione ad un progetto non del tutto vincente. Sappiamo anche quanto il Ministero proponga con forza le coproduzioni fra teatri, nell’idea (a volte del tutto illusoria) di un’ottimizzazione dei costi e di una qualità maggiore del prodotto. Dunque abbiamo rivisto sorgere in palcoscenico una rocca di Gibilterra, un immenso roccione ruotante con aperture varie e scale, girato e rigirato in varie posizioni come scenografia unica; qualunque fosse l’ambiente da ricostruire, l’interno del monastero di Santiago de Compostela o la spiaggia dell’isola di Léon o il palazzo dell’Alcazar di Sevilla, la scena era dominata da questa roccia, come se tutto in realtà si svolgesse in un canyon. Roccia imponente, bella a vedersi, ma con la sua stessa imponenza mortificava la vicenda narrata, particolarmente nell’episodio dell’isola, dove il coro femminile è stato costretto a rimanere confinato su strette passerelle a contatto con l’immancabile parete, senza che fosse lasciato spazio ad un salutare (per gli spettatori) movimento di qualunque genere.
Se poi, in una scenografia così concepita, il regista di allora Ariel Garcia-Valdès o il coregista che ha ripreso l’allestimento ora per Firenze Derek Gimpel non introducono una varietà di movimenti innanzitutto con i protagonisti, (come già detto, in questa circostanza spesso lasciati a se stessi in versione simil-concerto), oppure muovendo figuranti, mimi, comparse oppure ancora variando con luci e proiezioni per creare un interesse visivo imprescindibile avendo a disposizione buoni interpreti, ma non straordinari, il rischio noia è in agguato. L’impressione che si è avuta è che ci si fosse limitati a mettere i protagonisti “nello spazio”, lasciandoli poi liberi di fare (e non fare). L’unico tocco registico palese e dominante è stato l’inginocchiamento dei protagonisti: non c’è stata un’aria o un duetto nel quale, ad un certo punto, l’esecutore non sia stato messo in ginocchio, a volte in modo incongruo con gli sviluppi, unicamente per rompere l’assoluta staticità della recitazione. Un po’ poco, ma era gioco forza, avendo scelto un allestimento privo di attrezzeria, mobilia, di qualunque cosa potesse dare movimento e vita all’azione declamatoria dei personaggi.
In questo contesto ottima la prova del Coro del Maggio Musicale Fiorentino, diretto egregiamente da Lorenzo Fratini. Solenni ed eleganti soprattutto gli interventi del coro dei frati (ovviamente maschile), nonostante i pianissimo richiesti dal maestro che hanno a tratti reso inudibili le voci, particolarmente negli esterni, e il coro femminile nell’episodio dell’isola, ove le signore del coro hanno dovuto indossare le stesse improponibili parrucche ricce (adattissime ad un’Aida) dell’allestimento catalano e riproporle anche nella scena dell’Alcazar di Siviglia.
Bello il timbro scuro di Ugo Guagliardo, un père Balthazar giovane, ma di tutto rispetto per la vocalità generosa e la misura dei gesti. La gioventù e la scenografia gli fanno dimenticare un poco l’austera staticità dell’autorevole religioso, ma la voce è carezzevole e profonda, adatta al belcantismo per il fraseggio morbido. Dovrebbe evitare però di “fare il baritono” sui suoni acuti, scegliendo suoni più “raccolti” e meno forzati ed evitando l’eccessiva apertura della vocale
Celso Abelo è un ottimo interprete, canta con un gusto raffinatissimo ed un fraseggio elegantissimo; ha una voce dolcissima, suadente, affascinante, ma rinuncia troppo all’appoggio, particolarmente in zona acuta dove l’istinto lo porta alla voce flautata e agli effetti di pianissimo perfettamente in linea con l’idea del direttore d’orchestra. Certi suoi smorzati sono da brividi, ma quando lo sviluppo dell’azione richiede una vocalità potente ed un acuto forte che attraversi la sala come una lama, improvvisamente pretende di cambiare impostazione appoggiando con veemenza sui muscoli pettorali e sfruttando la tensione per sostenere il suono. Questi suoni acuti (pochi in verità eseguiti in questo modo) sono disomogenei con il resto della sua prova e nel primo atto rischiano l’incidente: non usa adeguatamente la respirazione a fini proiettivi ed ha un atteggiamento eccessivamente rilassato, come se temesse il coinvolgimento con l’azione, ma così facendo non riesce a sostenere i momenti, come la cabaletta, nei quali dovrebbe essere militaresco ed invece risulta fiacco nello slancio emozionale. E’ un interprete maturo e conscio dei propri mezzi, ma si compiace un po’ troppo del suono a discapito della partecipazione erotica verso la partner, della quale non appare mai realmente innamorato. Sono in disaccordo totale con l’isolata contestazione negli applausi finali, forse dovuta agli esagerati applausi iniziali della claque: la prova di Abelo è stata di buon livello e se il pubblico gli ha rimproverato l’eccessivo canto di testa ( e a volte un po’ nasale) al limite del falsetto, questo tipo di canto, il tenore “di grazia”, è pur corrispondente al repertorio ed è una caratteristica dell’artista che non va abbandonata, va anzi esaltata in un percorso che lo porti ad uniformare il suono in tutta la gamma, per evitare che le note acute siano a volte meno sonore di quelle centrali. Ci auguriamo che perfezioni un pochino la lingua francese evitando le molte consonanti doppie, anzi ancor più marcate, quasi triple, che hanno contraddistinto la sua dizione. Naturalmente, per le sue caratteristiche, è stato esemplare nell’esecuzione di “Ange si pur”, eseguita con una voce dolcissima, legati perfetti e fiati molto lunghi.
Il duetto del primo atto è un esempio lampante della staticità della regia. I due interpreti non sanno palesemente cosa fare e fanno movimenti incongrui, come di pesci in un acquario.
Buona la prova di Francesca Longari come Inès. Non si capisce perché lei e Léonor siano le uniche dell’isola a non indossare la parrucca di Aida (meno male), forse corrisponde ad una diversità di grado nella gerarchia di quel luogo. Buona l’emissione, conforme al ruolo, con un po’ di carenza di volume nei suoni gravi e qualche difettino di pronuncia. Disegna un personaggio simpaticamente gradevole.
Veronica Simeoni mi convince sempre di più ogni volta che ho il piacere di ascoltarla. E’ palese il percorso di progressivo rafforzamento della corda mezzosopranile, tuttora ancora un po’ carente per il colore abbastanza chiaro della voce. Disegna una Favorite particolare, puntando assai poco sul fascino e sull’eleganza e più sulla gioventù e sulla sofferenza interiore; non è matronale, come in altre edizioni dell’opera mi è capitato vedere, ma neanche molto accattivante sensualmente. L’idea che ci lascia è quella della povera ragazza che ha subito un gravissimo torto e alla quale viene negata la possibilità di amare: nessuna traccia del lusso di chi è l’amante di un re. Elegante il suo fraseggio, teneri gli accenti, sicura in zona acuta; vocalmente risulta solo mancante di quel peso che le avrebbe dato un colore più scuro mentre dinamicamente risulta perfettamente conforme ai volumi di Abelo, tanto da risultare una coppia vocalmente bene affiatata (ma poco credibile come coppia di amanti). Molto applaudita (e giustamente) per “O mon Fernand” nella quale aria, però, ricerca eccessivamente i pianissimo a scapito della tenuta del fiato. La voce è molto bella, come il legato. Peccato per l’applauso del pubblico a metà aria, segno che il buon Donizetti necessita una rivalutazione anche al di fuori del teatro di Bergamo. La cabaletta è stata eseguita senza mordente e conclusa con un acuto sopranile di grande effetto (e dubbio stile), però un po’ teso, avendo fatto ricorso l’interprete all’irrigidimento della muscolatura laterale. Perfetta nell’aria finale “Fernand, imite la clemence”. Una grande esecuzione.
Il duetto finale tra i due protagonisti è stato il punto musicalmente più alto dell’opera. Peccato solo, ancora una volta, che la regia non abbia guidato Léonor nel considerare l’imminente morte, evitandole quindi di balzare in piedi come un capriolo, piena di energia e salute.
Il re Alfonso di Mattia Olivieri è sicuramente interessante vocalmente per la qualità timbrica dell’interprete; agli applausi finali è stato il più premiato e credo significhi che il pubblico fiorentino non disdegni le voci importanti e ben proiettate, che non ha spesso modo di ascoltare nel suo teatro. Olivieri però avrebbe avuto bisogno di maggior controllo, sia vocalmente, perché “spara” eccessivamente nei pezzi d’assieme superando ampiamente in volume mezzosoprano e tenore che dovrebbero essere le linee melodiche principali, sia scenicamente perché immette nel personaggio la sua naturalezza in modo eccessivamente libero. Comprendo che non faccia il re di professione, ma forse dovrebbe porre più attenzione a come un re si muove sulla scena, a non voler disegnare invece un sovrano folle sul modello del Caligola di Tinto Brass (se fosse stata questa l’idea del regista mi scuso, ma allora andava resa più evidente). Scatti improvvisi da bambino, camminate veloci con le braccia tese lungo i fianchi, gran gesticolare delle braccia, comportamento nevrotico e grande disomogeneità vocale, alternando frasi ben impostate da baritono donizettiano a frasi semi-parlate con vocali eccessivamente aperte. Ha una voce di notevole bellezza ed un gran bel legato, forse se lavorasse ancora un poco sull’aspetto scenico non sarebbe male, in vista di possibili e probabili nuovi ruoli da persona autorevole. Molto facili i suoni acuti e ottimamente eseguita l’aria; sono certo che in futuro si dedicherà con maggior cura al fraseggio, spostando sulla frase l’attenzione esecutiva che è ora troppo spesso sui singoli suoni. Magnifico il diminuendo con cui ha concluso l’aria, ma troppi i pianissimo con i quali arricchisce la sua prova. Anche lui non dimostra alcuna attenzione erotica per la povera Léonor, nemmeno per un momento: il suo atteggiamento verso di lei è violento, mentre il suo “danzare” con il corpo quando canta gli toglie moltissima autorevolezza, con gesti di rabbia fanciulleschi, come la rapida piroetta su se stesso che fa per manifestare lo sdegno.
Manuel Amati tratteggia un cattivo Gaspar lavorando tutto sulla “punta” con suoni stretti, mai liberi. E’ una scelta, ma ci auguriamo che presto l’artista possa affrontare un ruolo diverso nel quale possa lasciar libere le risonanze di fare il proprio dovere, senza collocare il suono necessariamente solo nei seni nasali e frontali.
Particolari e molto innovativi i costumi di Jean-Pierre Vergier, mentre ci si sarebbe atteso un po’ di più dalle luci di Dominique Borrini, con effetti belli, ma troppo a lungo immutati, creando ulteriore staticità alla produzione.
Ed adesso attendiamo con curiosità la produzione estiva in concerto prevista quest’anno al Covent Garden di Londra dell’“Ange de Nisida”, prima versione della “Favorite”, mai andata in scena e recuperata da una studiosa italiana.
(foto crediti Pietro Paolini terra project – Contrasto)
MARCELLO LIPPI
Autore e Critico Musicale per la Cultura di Young diretta da David Colantoni
Baritono. Nato a Genova, si è diplomato presso il conservatorio Paganini; e laureato presso l’istituto Braga di Teramo con il massimo dei voti. E’ anche laureato in lettere moderne presso l’Università degli studi di Genova. La sua carriera comincia nel 1988 con La notte di un nevrastenico e I due timidi di Nino Rota e subito debutta a Pesaro al Festival Rossini in La gazza ladra e La scala di seta. In seguito canta in Italia nei teatri dell’opera di Roma (Simon Boccanegra, La vedova allegra, Amica), Napoli (Carmina Burana), Genova (Le siège de Corinthe, Lucia di Lammermoor, Bohème, Carmen, Elisir d’amore, Simon Boccanegra, La vida breve, The prodigal son, Die Fledermaus, La fanciulla del west), Venezia (I Capuleti e i Montecchi), Palermo (Tosca, La vedova allegra, Orphée aux enfers, Cin-ci-là, Barbiere di Siviglia), Catania (Wienerblut, Der Schulmeister, das Land des Lächelns), Firenze (Il finanziere e il ciabattino, Pollicino), Milano ( Adelaide di Borgogna), Torino (The consul, Hamlet, Elisir d’amore), Verona (La vedova allegra), Piacenza (Don Giovanni), Modena (Elisir d’amore), Ravenna (Elisir d’amore), Savona (Medea, Il combattimento, Torvaldo e Dorliska), Fano (Madama Butterfly), Bari (Traviata, La Cecchina), Lecce (Werther, Tosca), Trieste (I Pagliacci, Der Zigeuner Baron, Die Fledermaus, Al cavallino bianco, La vedova allegra), Cagliari (Die Fledermaus- La vida breve), Rovigo (Werther, Mozart e Salieri, The tell-tale heart, Amica), Pisa (Il barbiere di Siviglia- La vedova allegra), Lucca (Il barbiere di Siviglia) eccetera. All’estero si è esibito a Bruxelles (La Calisto), Berlin Staatsoper (Madama Butterfly, La Calisto), Wien (La Calisto), Atene (Il barbiere di Siviglia- Madama Butterfly), Dublin (Nozze di Figaro, Capuleti e Montecchi), Muenchen (Giulio Cesare in Egitto), Barcelona (La gazza ladra, La Calisto, Linda di Chamounix), Lyon (Nozze di Figaro, Calisto), Paris (Traviata, Nozze di Figaro), Dresden (Il re Teodoro in Venezia, Serse), Nice (Nozze di Figaro, The Tell-tale heart), Ludwigshafen (Il re Teodoro, Serse), Jerez de la Frontera (Nozze di Figaro), Granada (Nozze, Tosca), Montpellier (Calisto, Serse), Alicante (Traviata, Don Giovanni, Rigoletto, Bohème), Tel Aviv (Don Pasquale, Elisir d’amore, Traviata), Genève (Xerses, La purpura de la rosa), Festival Salzburg (La Calisto), Madrid (La purpura de la rosa, don Giovanni), Basel (Maria Stuarda), Toronto (Aida), Tokio (Traviata, Adriana Lecouvreur), Hong Kong (Traviata), Frankfurt (Madama Butterfly), Dubrovnik (Tosca), Cannes (Tosca), Ciudad de Mexico (La purpura de la rosa), Palma de Mallorca (Turandot e Fanciulla del west), Limoges (Tosca), Toulon (Linda di Chamounix) ed altre decine di teatri in differenti nazioni del mondo.
Dal 2004 al 2009 ha ricoperto l’incarico di Direttore Artistico e Sovrintendente del Teatro Sociale di Rovigo. Nel 2010 è stato direttore dell’Italian Opera Festival di Londra. Dal 2011 al 2016 è stato direttore artistico della Fondazione Teatro Verdi di Pisa.
Dal 2015 firma come regista importanti spettacoli operistici in tutto il mondo: ha appena terminato il Trittico di Puccini ad Osaka (Giappone), Cavalleria rusticana di Mascagni, Traviata di Verdi, Don Giovanni a Pafos, Tosca, Rigoletto e sarà presto impegnato in altre importanti produzioni estere ed italiane come Jolanta e Aleko. Ha firmato la regia anche di opere moderne come Salvo d’Acquisto al Verdi di Pisa e barocche come Il Flaminio con il Maggio Formazione di Firenze
Docente di canto lirico in conservatorio a La Spezia, Alessandria, Udine, Ferrara e ora a Rovigo
Ha insegnato Management del Teatro all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano.
Ha fatto Master Class in varie parti del mondo, per esempio Kiev (accademia Ciaikovski), Shangai, Chengdu, Osaka, San Pietroburgo, San Josè de Costarica ed in moltissime città italiane.
Musicologo, ha pubblicato molti saggi: Rigoletto, dramma rivoluzionario 2012; Alla presenza di quel Santo 2005 quattro edizioni e 2013; Era detto che io dovessi rimaner… 2006; Da Santa a Pina, le grandi donne di Verga 2006 due edizioni; Puccini ha un bel libretto 2005 e 2013, A favore dello scherzo, fate grazia alla ragione 2006 e 2013; La favola della ”Cavalleria rusticana” 2005; Un verista poco convinto 2005; Dalla parte di don Pasquale 2005; Ti baciai prima di ucciderti 2006 e 2013; Del mondo anima e vita è l’amor 2007 e 2014Vita gaia e terribile 2007; Genio e delitto sono proprio incompatibili? 2006 e 2012; Le ossessioni della Principessa 2008 e 2012; Dal Burlador de Sevilla al dissoluto punito: l’avventura di un immortale 2014; L’uomo di sabbia e il re delle operette 2014; Un grande tema con variazioni: il convitato di pietra 2015; E vo’ gridando pace e vo’ gridando amor 2015; Da Triboulet a Rigoletto 2011; Editi da Teatro Sociale di Rovigo, Teatro Verdi di Padova, Teatro Comunale di Modena, Festival di Bassano del Grappa, Teatro Verdi di Pisa.
Ha pubblicato “una gigantesca follia” Sguardi sul don Giovanni per la casa editrice ETS a cura di da Alessandra Lischi, Maria Antonella Galanti e Cristiana Torti dell’Università di Pisa. Nel 2012 Ha edito un libro di poesie “Poesie 1996-2011” presso la casa editrice ABEdizioni. E’ nell’antologia di poeti contemporanei “Tempi moderni” edito da Libroitaliano World. E’ iscritto Siae ed autore delle versioni italiane del libretto delle opere: Rimskji-Korsakov Mozart e Salieri; Telemann Il maestro di scuola; Entrambe rappresentate al Teatro Sociale di Rovigo ed al teatro Verdi di Pisa. Dargomiskji Il convitato di pietra rappresentata al teatro Verdi di Pisa