Donizetti piace al pubblico e questa è la migliore notizia che si può ricavare da questa produzione della “Pia de’Tolomei”, proposta ai teatri toscani della costa dal direttore artistico del Verdi di Pisa, Vizioli, e da me ascoltata e vista al teatro Goldoni di Livorno, per l’impossibilità di essere presente alle recite pisane.
La musica di Donizetti fa ancora presa per la sua immediatezza, la sua “facilità”, ed anche i meno colti non hanno perso la capacità di fruirne in modo positivo; chi frequenta i teatri da molti anni non può però non avvertire come non si tratti di un materiale musicale di primissimo ordine, limitato ancora da una rigorosa struttura a pezzi chiusi e basato su melodie apparentate con molte altre composizioni donizettiane e di altri autori. Messo da parte quindi lo stupore, da parte di chi scrive, per una proposta culturale così elitaria, contraria alle più recenti istanze di cui si era fatto portavoce il teatro pisano, stimolato e incuriosito dalla possibilità di vedere un allestimento di un’opera da me ascoltata sinora solamente in incisione, mi sono recato a teatro con i migliori propositi, curioso anche di vedere come Andrea Cigni, regista che stimo, sarebbe riuscito a rendere non noioso un polpettone drammaturgico simile.
Il teatro era solo pieno a metà, segno che, se la musica di Donizetti piace, le sue opere non riescono però ad attrarre pubblico sufficientemente, cosa che non deve assolutamente distogliere i direttori artistici dal proporle, educando il gusto del pubblico.
Ho assistito, povero me, all’ennesima trasposizione temporale, e ne ero preparato avendo seguito sui giornali le notizie in merito alle recite pisane: ancora una volta mi trovo a dover ribadire che le trasposizioni temporali dei soggetti storici non funzionano. Dopo che il maestro Vizioli, il più “social” dei direttori artistici, aveva guidato il suo pubblico di aficionados su Facebook in un percorso di filmati che lo vedevano in viaggio sulle tracce dei luoghi nei quali aveva vissuto Pia de’ Tolomei, appare strana la scelta dell’ambientazione in epoca fascista, con guelfi e ghibellini trasformati in camicie nere e partigiani. Ci sono due fazioni che si odiano, vero, ma allora perché non esagerare e ambientarlo ai nostri giorni, con protagonisti i tifosi di Juventus ed Inter e Pia de’Tolomei procace barista in un locale che trasmette le partite su Sky? Quando il soggetto è storico, purtroppo, lo ribadisco e non me se ne voglia, la trasposizione non funziona, e vedere un fascista che ragiona del suo conflitto nominando guelfi e ghibellini, spade ed altro, ascoltare Ghino cantare “a me stesso in core un ferro immergerò” impugnando una pistola, non può essere accettato dalla mia povera ragione. Ecco allora che la provocazione di Marco Beghelli sulla pagina della cultura di QN, con la quale conclude la sua recensione della “Bohème” bolognese il 21 gennaio, è tutt’altro che esagerata. Scrive il critico: “Se la scelta- tutt’altro che lecita e pacifica, ma oggi ormai usuale- è di stravolgere il “testo visivo” originale (ambientazioni, azioni, ecc), perché non completare la riscrittura drammaturgica modificando quella cinquantina di frasi del “testo verbale” che suonano assurde nel nuovo contesto? Su tale discrasia dovranno riflettere i futuri artefici di un teatro d’opera che si vuole oggi forzatamente rinnovato”.
Sperando di non vivere abbastanza a lungo per vedere un simile scempio!
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Questo vezzo di “modernizzare” o trasporre i soggetti delle opere liriche non è in realtà assolutamente una novità. E’ dagli anni settanta che i registi tedeschi ci propongono modernizzazioni delle opere. I registi italiani si sono a lungo opposti, difendendo il nostro patrimonio culturale da quella che era considerata una barbarie; oggi, invece, in ritardo di cinquant’anni, anche in Italia c’è chi considera “nuova e moderna” questo tipo di regia, unendosi al coro di chi considera morto il teatro romantico italiano. Io personalmente non lo ritengo tale e apprezzo le trasposizioni solo per le opere secentesche, basate in originale su un’idea di teatralità troppo lontana dall’attuale.
Bella, dicevamo, la musica di Donizetti ed ottimo, come sempre del resto, il direttore Christopher Franklin, potente nel gesto, vivace e vitalizzante nel creare colori e dinamiche, efficacissimo nel guidare ed assecondare i solisti, una prova maiuscola la sua alla guida di un’orchestra della Toscana in grande spolvero.
Ottima anche la prova del coro Ars Lyrica, istruito dall’ottimo Marco Bargagna. Vocalmente molto sicuro, il coro ha impreziosito l’esecuzione con una grande precisione ritmica e tecnica, garantendo il giusto colore e la corretta pastosità negli interventi. Alcune voci di questo coro sono molto interessanti anche in funzione solistica.
Di Francesca Tiburzi dobbiamo elogiare soprattutto il coraggio nell’affrontare un ruolo nato per le primedonne, che avrebbe richiesto forse un’artista più esperta e dal timbro differente. Francesca ha una bella voce, calda, pastosa, dal colore brunito quasi mezzosopranile. Affascinante in un ruolo da “Giovane scuola italiana-verismo”, più problematico in un ruolo belcantistico: canta sempre con grande apertura dello “strumento”, alla ricerca appunto del colore (che a tratti è affascinante), ma, partendo da una posizione di canto così bassa, si costringe ad una muscolarità eccessiva sugli acuti, che risultano sempre rischiosi e incoerenti con il resto della tessitura, a volte stretti e violenti, mentre la posizione di attacco causa a volte un’intonazione periclitante. Regge magnificamente il ruolo dal punto di vista scenico, ha una vocalità interessante, ma le manca la necessaria leggerezza per il belcantismo.
Giulio Pelligra è stato un Ghino eccellente per equilibrio della fonazione e sicurezza; la sua vocalità è perfettamente “in stile” con il belcantismo, forse leggermente “leggera”, ma questo è il suo punto di forza, tranne quando duetta con Pia e viene messo a disagio dal timbro brunito della Tiburzi. Pelligra ha fatto un percorso di altissimo livello in questi anni ed è un elemento chiave di questa produzione, abilissimo nella zona acuta e dotato di un fraseggio morbidissimo.
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Valdis Janson potrebbe davvero essere uno delle eccellenze della lirica in chiave baritonale se solo rinunciasse a “schiarire” troppo, ogni tanto, la voce. Ha una vocalità eccellente, una figura dominante, quando usa i risonatori frontali e la “maschera” regala al pubblico suoni da grande baritono, poi, improvvisamente e senza una ragione, alterna frasi “spoggiate” con timbro sbiancato, forse illudendosi di trovare il piano nell’eliminazione del colore. Potrebbe evitare questo problema facilmente se solo vi ponesse attenzione. Credo che Janson possa essere uno dei migliori baritoni attualmente in carriera, se solo trovasse questa uniformità di fonazione. Molto valido è stato il duetto con Ghino, mentre invece lacunosa d’ intensità l’entrata “L’uscio dischiudi o perfida”. Meravigliosa la zona acuta della sua tessitura, mentre appare lacunosa quella grave.
Marina Comparato alle prese con il ruolo “en travesti”, interpreta un Rodrigo sicuramente ragazzino, come è giocoforza che sia; molto valida vocalmente e sicura interpretativamente, sebbene sia stata poco aiutata dalla regia in generale a conquistare una credibilità guerresca. Troppi i respiri “rubati” all’interno del fraseggio, ma è peccato veniale; le agilità sono state condotte in maniera validissima e ha piazzato una cadenza di gran classe al termine di una cabaletta però non indimenticabile.
Buona la partecipazione di Andrea Comelli, Silvia Regazzo, Christian Collia e Nicola Vocaturo, interpreti assolutamente di lusso di questa produzione.
Pia de’ Tolomei è stata dunque immaginata dal regista Andrea Cigni come una collezionista d’arte toscana del 1930-40 che custodisce e protegge le opere d’arte da un’imminente guerra. Pertanto la scena è un insieme di quadri e cornici con un fondale a sua volta a quadrati. Questi quadri e queste cornici vengono di tanto in tanto spostati, creando un movimento che i protagonisti, invece, quasi sempre fermi o che passeggiano a vuoto come pesci nell’acquario, non riescono a dare. La vivacità non è stata infatti la caratteristica precipua di questa produzione. Alcune scene sono state molto belle a vedersi e Cigni, che conosce perfettamente il mestiere ed è un ottimo regista, ha ben lavorato sulle intenzioni dei protagonisti. L’idea iniziale, la trasposizione temporale, è rimasta però un’idea attuata solo nei costumi e nell’attrezzeria. Non si è osato andare oltre facendo succedere qualcosa che giustificasse meglio la collocazione storica. Gradevoli alcune proiezioni, come quella della pioggia (sebbene troppo insistita), discutibili altre come i panorami mossi molto velocemente. Il messaggio di pace finale di “Pia” è in questo contesto un’improbabile riappacificazione tra fascisti e partigiani.
Serata gradevole di ottima musica, dunque, ma con le perplessità di fondo da parte di chi ama davvero l’opera: perché proporre un titolo desueto e trasporlo? Se si fosse trattato della duecentesima “Traviata” della stagione capisco si possa provare il desiderio di fare qualcosa di diverso, ma un’opera quasi mai rappresentata perché non farla vedere ed ascoltare come è stata scritta? Ascoltare alcuni commenti del pubblico in foyer su un’opera di Donizetti con i gerarchi fascisti non mi fa sorridere, in quest’epoca di sostanziale ignoranza storica: mi allarma. Detto questo, e mi ricollego alla mia recensione della Carmen di Firenze (https://you-ng.it/2018/01/carmen-bizet-al-maggio-musicale-fiorentino-10-01-2018-marcello-lippi/), fa molto più rumore una regia “strana” che una tradizionale, e la logica generale è del “purché se ne parli”. Credo si possa dire ancora dei “no” ogni tanto prima di avere i teatri vuoti e veder vincere l’idea che occorra fare “qualcosa” di strano perché il teatro, di per sé, non ha più valore e capacità di comunicare.
(foto di Imaginarium Creative Studio)
MARCELLO LIPPI
Autore e Critico Musicale per la Cultura di Young diretta da David Colantoni