Parterre d’intenditori alla prima esecuzione di venerdì 19 gennaio al Teatro del Giglio, lieti di poter riascoltare un titolo purtroppo non molto frequente nei teatri italiani. Un plauso pertanto a Cristina Ferrari, direttrice del teatro di Piacenza, che ha proposto questa produzione, supportata dai teatri di Modena e Reggio Emilia e doverosamente da quello di Lucca, città nativa di Alfredo Catalani, che ne ha fatto questa ripresa, a distanza di un anno, modificando orchestra, coro, direttore e solisti.
Il palcoscenico del teatro lucchese, lo sappiamo, è assai limitato e pertanto l’impianto scenico risulta angusto, incombente, complicato da un sistema di passatoie inclinate che restringono ulteriormente gli spazi. Il risultato è un contesto claustrofobico in un’opera dove invece dovrebbero fare la parte del leone i panorami montani con la loro apertura naturale e spirituale all’assoluto. Particolarmente il secondo atto risulta ingolfato, condannato all’immobilità, perché nella taverna di Afra c’è una tale densità di persone accatastate che nemmeno in un dormitorio cinese a Prato! Risultato è che una delle scene più mosse, quella del ballo, soprattutto del “ballo del bacio”, venga in sostanza eliminata: danzano…insomma…si muovono solo i due protagonisti, con il coro schierato ed ammassato a fare da cornice.
La staticità la fa da padrona ed è un peccato, ma da un certo punto di vista, in questa produzione, è stato un bene, viste le molte problematiche musicali di assieme tra le varie componenti del gioco scenico. Stando fermi, almeno, credo abbiano potuto concentrarsi maggiormente sugli attacchi del maestro. Dal punto di vista registico, poi, la stasi ha aiutato l’idea della morte incombente (anche se in questo caso non per soffocamento), e del cammino dei due protagonisti verso il loro crudele destino.
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Come sottolineato dal sindaco lucchese Tambellini in una breve uscita a proscenio prima dell’inizio dell’opera, c’era molto orgoglio cittadino in questa “prima”: lucchese l’autore e poi lucchesi la protagonista Farnocchia, il basso Facini ed il direttore Balderi (di Seravezza, diplomato al Boccherini). C’erano gli estremi per una calorosa accoglienza, come è infatti stato.
Una buona produzione, anche se non eccellente, rimasta un poco nella “normalità”, senza raggiungere mai la soglia della commozione. Su ciò ha influito la non precisione ritmica di molti artisti, soprattutto del coro, alcune voci non perfettamente a fuoco, ma soprattutto questa scena così incombente, con muri che si supporrebbero essere di neve, troppo evidentemente invece composti da altro materiale e troppo precisamente sagomati, come blocchi di ghiaccio da igloo. Eppure nessun solista mostra mai di avere freddo! Che tempra questi tirolesi!
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Francesco Facini disegna uno Stromminger solido, imponente, autorevole, con una recitazione esperta e controllata; ha il fisico del ruolo e ne ha la voce per cui mostra sicurezza scenica, nonostante una qualche incertezza ritmica che lo porta a scandire il tempo con piccoli movimenti corporei abbastanza fastidiosi e a seguire il maestro con gli occhi anche nei momenti di maggior concitazione scenica. La voce è a tratti ingolata, trattenuta a cercare il colore a scapito della proiezione ed è un peccato perché l’artista ha una voce molto bella. Risulta così poco incisivo vocalmente.
Paola Leoci è pressoché perfetta nel ruolo di Walter: statura minuta, movenze splendidamente da ragazzino, che denotano possesso di un’ottima arte scenica, inizia in modo un po’ dimesso, faticando a passare con i suoni il volume orchestrale, ma si ritempra presto e crea, anche vocalmente, un personaggio gradevolissimo ed efficace, con le agilità sciolte e bene eseguite.
Marcello Rosiello ha una voce particolare, sicuramente più bari-tenorile che baritonale, ha acuti splendidi e facilissimi e una zona grave non adeguatamente sonora. Gellner è un personaggio che asseconda la sua corda per cui può mostrare le sue doti di acutista. Limitato da un lavoro scenico non approfondito, non riesce a trasmetterci la sua passione per Wally, sacrificata a vantaggio della cattiveria, e si adagia troppo spesso incanalando pigramente il suono in risonanze nasali, nel registro centrale, che dovrebbe evitare, ma che invece sembra cercare per aumentare l’impressione di cattiveria. A suo agio nel ruolo e credibile come personaggio, risente come tutti di un’atmosfera non tranquilla dal punto di vista ritmico negli ensemble.
Zoran Todorovich è artista da me molto stimato; la voce è potente, sicurissima in acuto; il personaggio riesce ad essere giovanile e ricco di baldanza atletica. Ha alcuni difetti che si trascina da tempo: vocali troppo aperte, specialmente le “A”, suoni presi dal basso, con intonazione messa a rischio, forzature d’impeto, legati a volte meravigliosi, a volte poco curati, ma è sicuramente un artista completo in grado di esaltare la vocalità del suo personaggio, specialmente quando si tratta di quel repertorio impropriamente chiamato “verista”. Simpatico, guascone, crea un Hagenbach convincente. Tanto si permette eccessive aperture delle vocali in zona centrale quanto colloca gli acuti nei punti di risonanza frontali e, con una sapiente apertura intercostale ed un robusto appoggio, sa emettere suoni di grande potenza e bellezza. La grande frase “Il bacio che ti presi” è stata eseguita in modo perfetto.
Serena Farnocchia, al suo debutto nel ruolo, non ha tutto il colore che avrei voluto sentire e ci ha regalato una prova un po’ preoccupata all’inizio, ma sempre più convincente con il passare dei minuti. Si è impegnata a fondo per interpretare un personaggio dalle molte sfaccettature, complicato, quando non complesso. La chiave registica, anche nel suo caso, ha privilegiato la ribellione, sottraendo al personaggio molta di quella fragilità che lo rende commovente. Non comprendo per esempio perché quando tutti vanno a messa nel secondo atto lei sia sieda in poltrona in modo trasandato e rimanga nel locale, invece di essere fermata da Gellner mentre s’incammina. Ne esce un personaggio spigoloso, molto forte, duro. Un personaggio molto lontano dall’indole della Farnocchia, che è persona dolcissima. Molto buona l’esecuzione di “Ebben ne andrò lontana”, sottolineata da una giusta ovazione del pubblico. Precisa negli acuti, ha un fraseggio curatissimo e morbidissimo.
Irene Molinari mi ha derubato del personaggio di Afra, sicuramente non per volontà sua. Troppo irosa, scostante ed incoerente, visto che maltratta il povero Hagenbach dimostrando tutta la gelosia possibile, ma poi, ricevendo in faccia del liquido lanciato da Wally, non reagisce se non con il pianto. La fragilità e bontà di Afra era necessaria per far percepire Hagenbach come conteso tra due donne entrambe degne, situazione molto più funzionale allo svolgimento drammatico. Vocalmente corretta, ma non sufficientemente presente, Molinari ha comunque garantito una buona prova.
Insolitamente non sufficiente il coro del Festival Puccini, depauperato numericamente dall’esigenza di stipare gli artisti in quella scena così esigua. Una trentina di coristi sono pochini per Catalani, a maggior ragione se il maestro non si cura sempre di tenere basso il volume orchestrale, cosicché nel primo coro si è fatta molta fatica ad intendere le voci, coperte dal suono proveniente dalla fossa. Molto incerti gli artisti del coro sugli attacchi (ma qui il maestro non è stato molto preciso), incerti anche nel gestire ritmicamente le frasi e spesso, per esempio i tenori (dei quali ogni attacco celava perigli e azzardi), poco fusi in unità e con suoni a volte non gradevoli.
Periclitante l’andamento degli ensemble in tutta l’opera, forse a causa di poche prove, ma a volte si creavano piccole dissonanze non volute dall’autore. Il maestro Marco Balderi ha buona esperienza, ma il suo gesto non è stato sempre chiaro e deciso. Ha guidato benissimo i protagonisti nelle parti solistiche, ma si è perso un poco negli ensemble. Nei due preludi (terzo e quarto atto) sono stati lacunosi la fusione orchestrale, l’impasto, la simbiosi timbrica, lo slancio, il fraseggio e sono quindi risultati “normali”, senza fuoco sentimentale: corretti, ma freddini. Credo si potesse fare meglio, pur essendo indiscusse le qualità del maestro.
Sicuramente l’orchestra Filarmonica Pucciniana ha la sua responsabilità in queste lacune, con imprecisioni negli archi sin dall’inizio.
Abbiamo già detto delle scelte non felicissime del regista Nicola Berloffa, che scegliendo una scenografia ingombrante si è limitato moltissimo lo spazio di azione, specialmente al Giglio, che è il teatro più piccolo tra i coproduttori. Altre considerazioni potremmo fare di carattere più narrativo: in ogni storia infatti, ci sono punti cardine, sui quali il regista non dovrebbe agire e, se lo fa, snatura automaticamente il soggetto: era importante, per esempio, che Hagenbach, invece di essere a capo scoperto, avesse in testa il cappello, avvicinandosi a Wally per invitarla a danzare. Non si tratta di un elemento secondario, perché Catalani aveva studiato con cura le usanze popolari tirolesi apposta per non commettere errori ed ha indicato con precisione che Hagenbach, prima di avvicinarsi a Wally, siccome ha intenzione di mentirle per vendicare Afra e ha scommesso con gli amici al riguardo, deve togliere la piuma al cappello e rimontarla, non visto, a rovescio. Questo gesto è come per noi incrociare le dita dietro la schiena mentre si fa un giuramento: significa che il soggetto mente e non ne è responsabile. Un altro elemento importante è la presenza del Crocefisso sul ponte dell’Hochstoff: Catalani la prevede, mentre Berloffa non lo inserisce e lo fa apparire all’atto successivo. Il gesto di Gellner che spegne la luce sul ponte prima di commettere il tentato omicidio sarebbe stato molto più forte se la luce spenta fosse stata quella del crocifisso, come a fare in modo che Gesù non vedesse. Dopo che l’uomo ha spento la luce non c’è stata stranamente nessuna diminuzione di luminosità sulla scena per cui è stato abbastanza buffo che Hagenbach facesse finta, in piena luce, di non vedere nulla. Non approvo infine il concedersi di Wally sessualmente a Gellner a fine atto secondo, come per suggellare il patto scellerato, pagando da subito la ricompensa. Wally è più elevata moralmente di una donna che fa prezzo del proprio corpo per avere un favore del genere, ed è molto più pura. Dell’estrema staticità abbiamo detto: se il Berloffa muove bene i protagonisti, il coro è quasi sempre immobile spettatore della vicenda, perfino quando i due protagonisti danzano e dicono cose che nessuno dovrebbe sentire. La scena del ballo avrebbe dovuto consistere in una danza nella quale gli uomini tentassero di baciare le donne, e avrebbe dovuto coinvolgere tutti i presenti, ma così non è stato per i suddetti motivi. Ci si aspettava infine la valanga, almeno proiettata, nel finale, ma, a parte uno spruzzo di fumo laterale, non è successo nulla e i due protagonisti si sono buttati nel crepaccio come la Tosca da Castel sant’Angelo.
Buona globalmente la produzione, efficaci i costumi di Valeria Donata Bettella, tranne quello di Wally, troppo da signora. Pubblico contento a fine spettacolo senza raggiungere il tutto esaurito.
MARCELLO LIPPI
Autore e Critico Musicale per la Cultura di Young diretta da David Colantoni