La fanciulla del west di Puccini è un’opera complessa da mettere in scena per un teatro di tradizione, opera corale che richiede moltissimi “comprimari”, tutti di qualità, e una scenografia evocativa di un mondo a noi tanto lontano, che però non cada nella banalità di uno “spaghetti-western”. Un elogio particolare dunque all’operazione che ha permesso questa messa in scena sabato 18 novembre al Teatro del Giglio di Lucca, teatro certamente piccolo di dimensioni per ospitare opere di questa grandezza. Si tratta di una coproduzione a quattro soggetti che vede assieme al teatro lucchese la New York City Opera, l’Opera Carolina ed il Teatro Lirico di Cagliari, un gemellaggio Italia-Usa che celebra meritatamente la creatività del compositore lucchese.
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Visto l’alto costo della produzione, è da lodarsi la condivisione coproduttiva dei costi, che ne avrà sicuramente limitato l’incidenza sui bilanci dei singoli teatri. Dopo il debutto italiano a Cagliari, nel mese di ottobre, ha preso il via da Lucca un’altra cordata coproduttiva che porterà l’opera nei teatri di Pisa, Ravenna, Modena e Livorno. Un modo d’ottimizzare le risorse finanziarie e di sostenersi reciprocamente nell’affrontare un titolo pericoloso, per la qualità che richiede negli interpreti e perché non è tra le opere più amate del maestro lucchese, forse perché molto corale e forse anche per il lieto fine e l’assenza di eventi luttuosi.
In essa si esalta dunque la coralità, come dimensione collettiva del sentimento e sua esaltazione, nel contrasto, mai troppo netto, tra bene e male: Puccini disegna piccoli ritratti, piccoli uomini, padri, mariti lontani da casa, in un contesto fortemente maschilista, nel quale si muove a proprio agio la sola Minnie, unica presenza femminile insieme all’ indiana Wowkle. Questi uomini non sono però voci di coro, ma hanno una precisa identità che si esprime in brevi tratti di penna, minuscoli interventi che non sono coloristici, ma hanno una forte motivazione narrativa.
Da questo gruppo di uomini alla ricerca di una fortuna difficilissima da conseguire si stagliano i personaggi principali che devono avere voci importanti, ma soprattutto una forza attoriale di prima grandezza. Rispetto alle recite di Cagliari la formazione protagonista è tutta cambiata se si eccettua Enrique Ferrer che in quel teatro era il Johnson della seconda compagnia dopo Giordani. La direzione artistica del teatro, o dovrei dire, le direzioni artistiche dei teatri coproduttori, siccome ci sarà stata un’ovvia concertazione prima della scelta, ha optato per una Minnie di sicuro fascino e dalla grande voce: Amarilli Nizza, che ha in questi anni sviluppato un percorso artistico che l’ha portata a essere tra i migliori soprani a livello mondiale, con una professionalità aliena da bizze, una serietà assoluta e la capacità di tessere rapporti con i colleghi che generano brividi relazionali tra i personaggi.
La sua voce è calda e potente e sgorga felicemente accarezzando le sfumature dinamiche con morbidezza e sicurezza. Solo in alcuni acuti, risolti con una strana pressione sulla laringe ed abbassamento corporeo, ha perso qualche sfumatura della potenza che aveva qualche tempo fa: non erano pari al resto del fraseggio, ma comunque gradevoli e sicurissimi, a riprova del valore dell’interprete, giustamente molto apprezzata e amata, come hanno testimoniato gli applausi conclusivi. Lodevole il suo sforzo di camminare da “maschiaccio”, quasi celando la sua bellezza per assomigliare ai rudi cercatori d’oro. Mi ha fatto piacere riascoltarla e anche rivederla insieme a Enrique Ferrer: mi ha riportato alla memoria una riuscitissima edizione di “Amica” di Mascagni all’Opera di Roma.
Allora ci si chiedeva se questo tenore fosse nato per quel tipo di repertorio, oggi dobbiamo dire che ha convinto e convince, sebbene nel suo colore si leggano sempre altre possibilità e altri mondi forse a lui più connaturali. Il suo suono è sempre un po’ “spinto”, non nel senso di sforzato, ma arricchito di un’apertura maggiore della necessaria, proprio per rendere il timbro più vicino possibile a un’idea di tenore adatto alla Giovane Scuola Italiana e ai suoi capolavori. Preso dalla tonalità eroica con la quale pensa il personaggio, lo disegna un po’ truce, anche per quei capelli lunghi da bandito, perfino nei momenti dell’eros, e ci regala il primo sorriso aperto solo durante i meritatissimi applausi finali. Vocalmente sicuro, si permette alcuni acuti presi dal basso che non trovano né lo squillo necessario né il giusto slancio, ma non è mai a disagio, mai affaticato nel tratteggiare un personaggio impegnativo di delinquente braccato, lontano sicuramente dal suo cuore, che è molto buono.
Elia Fabbian, vestito con un costume di scena dal colore improponibile che ne fa una sorta di Mago Zurlì, , è una persona generosa di voce e d’animo. La sua voce è potente e ricca di armonici e giustamente risalta sempre sul tappeto sonoro, a volte prepotente, dell’orchestra. Morbidissimo e naturale nella fonazione, inserisce una bontà inusitata nel personaggio, una vena malinconica che prevale sulla rude tempra del “biscazziere-sceriffo”. Ne scaturisce un uomo meno amaro di quanto dica il libretto, più pensoso e con un senso dell’onore più sviluppato rispetto ai consueti Jack Rance: più “buono”, in fondo, come è l’artista, un grande baritono che non ha mai perso un senso profondo di gratitudine per il dono della voce e ha fatto dell’umiltà e della disponibilità la proprie caratteristiche principali che lo rendono tanto amato. Sceglie giustamente di aprire molto i suoni acuti adattandosi al canto “spiegato” pucciniano; si ricordi però di tornare a “raccogliere” i suoni in zona acuta quando si riaccosterà a Verdi.
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Non amo le scenografie che usano proiezioni in movimento. Tanto belle sono le scene di Ivan Stefanutti, singolarmente prese, per fotogramma, se si potesse bloccarne il divenire, quanto sono disturbanti ed inefficaci le animazioni sul fondale, a partire dall’ouverture nella quale si mostra, con compiaciuta soddisfazione, l’abilità del videomaker che “costruisce” la scenografia virtuale di sfondo davanti agli occhi del pubblico, proseguendo con le irreali e fuorvianti animazioni della nevicata e i continui mutamenti climatici o di panorama imposti al pubblico come si fosse al cinema.
Ivan Stefanutti, nato come ottimo scenografo e divenuto nel tempo anche regista, ha un gusto speciale e ci regala effetti bellissimi, ma l’ansia di muovere, di non lasciare stabile il fondale, crea nello spettatore il disagio di chi stia assistendo ad una proiezione con musica come si usava un tempo per i film muti. Splendidi gli elementi scenici, curatissimi, come sempre con questo regista, particolarmente il soppalco della capanna di Minnie, efficacissimo per i movimenti scenici che permette ai protagonisti, ma davvero non valide le proiezioni che dal secondo atto non solo si muovono di continuo perdendo il valore di elemento scenografico per diventare una sorta di commento del regista agli avvenimenti, ma distraggono il pubblico senza aggiungere nulla allo svolgimento dell’opera. Il fare illuminare di rosso delle travi per spiegare che Johnson sta perdendo sangue, il mostrarci le carte proiettate sullo sfondo per chi non avesse capito cosa stanno facendo Rance e Minnie, mi è sembrato pleonastico ed ingombrante. Stefanutti non ci spiega le ragioni della sua messa in scena: nel consueto spazio sul libretto dedicato al regista, non si cura nemmeno di donarci un breve discorso costruito. Si limita a pensierini sparsi e slegati che vorrebbero forse essere aforismi, ma sono ovvietà che non spiegano la chiave di lettura del regista.
Ottimo il lavoro di Stefanutti con i solisti e il coro: le relazioni tra i protagonisti sono chiare e i movimenti quasi sempre efficaci. I “comprimari” sono stati tutti ben delineati e riescono ad avere la loro caratterizzazione, che li fa al momento giusto emergere dalla massa dei cercatori. Sembra scontato, ma invece ciò non sempre accade nelle produzioni di “Fanciulla”.
Legnoso il direttore d’orchestra, che sa il suo mestiere e si vede, ma impone troppo ai protagonisti, costretti a volte a inseguirlo, più spesso ad aspettarlo (come Rance nella sua aria). Il maestro James Meena sa il suo lavoro e lo compie con scrupolo, ma senza quel “cuore”, quella capacità di volare che avremmo desiderato. Tiene molto bene insieme tutti i protagonisti e questo non è poco in un’opera tanto delicata e difficile; soprattutto tiene l’orchestra a un volume tale da non coprire mai i solisti, tranne a volte con qualche tenore comprimario. La sua prova pertanto è da ritenersi buona ed efficace come concertazione.
L’orchestra della Toscana è compressa nella buca e nei palchetti, ma nonostante il forzato disagio nella sistemazione, ben guidata dal maestro Meena, non fa rimpiangere orchestre più titolate e con più professori. Bene il coro del Festival Puccini istruito da Elena Pierini.
Numerosissimi, come detto, i “comprimari” e tutti bravi, con alcune eccellenze come Marco Voleri (Harry), Tiziano Barontini (Joe), Federico Cavarzan ( Larkens e Billy), Sabina Cacioppo (Wowkle), artisti di grande prestigio capaci di dare un’importante “presenza” vocale e scenica al loro personaggio. Efficace il robusto Jack Wallace di Carlo di Cristoforo. Simpatico e ottimamente interpretato il Nick di Gianluca Bocchino, un po’ in difetto di volume, come pure altri tenori del gruppo. Una menzione particolare va all’ottimo Sonora di Giovanni Guagliardo.
(photo credits: Andrea Simi)
MARCELLO LIPPI
Autore e Critico Musicale per la Cultura di Young diretta da David Colantoni