Nell’ora violetta. Un libro, un sentimento.
“Figlio, dove hai male, che posso fare per te? Nel tuo lettino respiri e sudi con gli occhi aperti, guardando qualcosa che non c’è, concentrato nel tuo dolore”. Pablo, il figlio di Sergio del Molino aveva la leucemia e il padre, “Non mi sono sentito mai così solo e non avevo mai avuto tanta paura in vita mia”, ha scritto, raccontando ai lettori e alle lettrici le conseguenze di questa malattia nella sua vita, come in quella di Cris, sua moglie; e lo ha fatto pure narrando un’agonia lunga quasi due anni, terminata con la morte di Pablo – non certo del dolore, in chi ancora vive, è la fine. Del Molino sa narrare anche questa continuità del dolore, questo sentimento che lo lega al figlio nel tempo, anche quello successivo al suo decesso.
Una lettura toccante, dunque, diventa subito Nell’ora violetta di Sergio del Molino, tradotto da Maria Nicola per Sellerio e pubblicato in Italia nel mese di marzo 2017; una lettura non meno coinvolgente. Nessuno lascerebbe indifferente.
Nelle pagine, nel racconto della malattia di Pablo, difatti, diventa un sentimento comune soffrire con Sergio e Cris; come comune è il sentire l’amore di questi genitori per il loro Pablo. Se in effetti ci sia più sofferenza, o più amore, non è chiaro. Entrambi dominano il libro.
Ma è inevitabile, quasi da subito, domandarsi come si fa a sopravvivere alla morte di un figlio di poco più di un anno (che è anche la morte di un figlio-bambino). E’ un fatto talmente raro e così impensabile che neanche esiste un nome per definire i genitori che restano senza figli. Non si è pensato di coniare un nome per identificarli. Una sola parola non esiste.
E’ facile anche domandarsi, durante questa sopravvivenza, che inizia a manifestarsi durante il patimento del corso della malattia di Pablo, come sia possibile assegnare alla quotidianità uno spazio umano di vita, che a piccole dosi, nei momenti possibili, permette di parlare di felicità.
Di qualcosa di simile a essa. Del Molino lo sa e lo narra. Come nel giorno del primo compleanno di Pablo, quando la malattia già si era manifestata e allora diventa delicato e commovente il racconto che Del Molino fa di quei momenti; è una parentesi di gioia, un’intermittenza – Il grado massimo del benessere, li ha definiti Mario Benedetti, questi attimi – e l’autore ne coglie (tra i vari) uno, è “Pablo, sul suo seggiolone, al centro del mondo. (..) Niente punture, niente flebo, niente pigiami dell’ospedale. Qualcosa di molto simile alla felicità”.
Qualcosa di molto simile a essa Del Molino ha così saputo riconoscere, sentire e raccontare. Una “quasi felicità”, quella poi narrata, che in questo libro non si può mai scindere dal dolore; perché esso è lì, durevole, persistente. Turba quando scopriamo la malattia di Pablo, quando leggiamo dei ricoveri subiti, delle visite improvvise e impreviste e delle corse in ospedale.
Ma Nell’ora violetta commuove anche e commuove non poco per quanto amore Del Molino sa mettere nelle pagine e nelle relazioni di Pablo con i medici, o meglio nel modo in cui veniva seguito, curato e amato da tutte, da tutti.
A fine lettura si scopre che il titolo del romanzo arriva da T. S. Eliot; nella Terra desolata è “il fremito prima della fuga”, l’ora in cui si abbandonano le convenzioni e si indossano “le maschere” che si preferiscono per presentarsi al mondo”. Esiste, ci racconta Del molino, dunque, solo come momento di passaggio. Un momento che lui non si era ancora impegnato a cercare. Per lui quello della scrittura di questo libro era il tempo in cui Io sono il mio dolore e il mio dolore sei tu, ha scritto del Molino riferendosi a Pablo.
Sono trascorsi, oggi, diversi anni dal decesso del figlio. Curiosamente, a fine lettura, ho cercato Del Molino. Quale sia oggi il suo rapporto con il dolore, poterlo scoprire, mi è parsa quasi più una premura che una curiosità.
“La mia relazione con il dolore è la stessa. Il dolore mi tiene attaccato a mio figlio, è il ricordo di lui. Non è cambiato quasi nulla, solo l’intensità – mi ha spiegato -. Logicamente con il dolore ci vivo, nel tempo riesco a controllarlo. In un certo senso per me è come una invalidità, come se mi mancasse un braccio o mi mancassero le gambe, o un sentimento. Posso continuare a vivere, sì, certo – ha ammesso – ma con questa restrizione. E posso anche essere felice”. Sei felice? Gli avrei domandato a questo punto, ma del Molino mi ha anticipata. “Di fatto – è questo il suo racconto sulla vita di oggi – sono felice, però ho una coscienza del dolore che la maggior parte delle persone con cui mi relaziono non ha e questo mi allontana da loro. Mi rende peggiore. Meno empatico. Un amico peggiore. Il dolore mi rende egoista – spiega di sé – e non mi fa capire i dolori piccoli e quotidiani delle persone. E’ difficile relazionarsi con me; è difficile, per me, avere quell’intimità che richiede la comprensione”.
Nell’ora violetta, una lezione sul dolore e sull’amore; il racconto dell’inconsapevolezza di Pablo di quanto stava accadendo e il racconto della consapevolezza di Sergio e Cris. Due racconti differenti nella stessa storia d’amore e di dolore.
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Isabella Borghese è nata a Roma dove lavora come giornalista e ufficio stampa. Dirige dal 2015 l’agenzia di comunicazione Book Media Events. Ha scritto il reportage “Da ex fabbrica occupata a «città» multietnica” per la rivista Reportage. Dalla sua parte (2013, Edizioni Ensemble) è il suo esordio. Curatrice delle antologie: Sto qui perché una casa non ce l’ho (2013 Edizioni Ensemble, con Ascanio Celestini, Paolo Berdini e Walter De Cesaris) e Una bella bici che va (Giulio Perrone editore, con Stefano Benni, Fulvio Ervas, Andrea Satta); è inoltre ideatrice del progetto stylish editoriale Livres & Bijoux (2009) e della giornata nazionale Gruppo di Lettura Day