Lo comunica e con le parole che ha scelto, Simona Vinci, sembra sostenerlo sin dalle prime pagine del romanzo, “Se hai paura, chiedi aiuto”. E’ vero. E’ chiaro. Lo sappiamo. Ma sapere e conoscere qualcosa mette in atto un’azione? E se la mette in atto, si può dare per scontato sia quella giusta? Per il nostro bene?
Il termine paura che dà il titolo al romanzo come soggetto “Parla, mia paura” (Einaudi) si direbbe, tra i sentimenti, possedere il podio come quello che immobilizza l’uomo, la donna; perché essa atterrisce, destabilizza. La paura accade che si fa dolore e allontana dalla condivisione con l’altro. Isola.
Difatti, “Per molto tempo non ho detto niente a nessuno”, racconta la Vinci. A nessuno, l’autrice rivela, per lungo tempo a nessuno lei raccontava i suoi attacchi di panico e di ansia. La sua depressione.
E così, lei, a trentatré anni non sapeva chi fosse, scopriva invece che “La vita era faticosa. E tutta quella fatica non valeva la pena”. Non valeva la pena di vivere, confessa l’autrice. Desiderava, la Vinci, morire. La sua stessa morte. Tutto era difficoltà: “Niente mi legava, eppure tutto mi condizionava”.
Sceglieva il suicidio? Ci pensava.
Ecco, poi, che d’improvviso però, con la possibilità di suicidarsi davanti ai suoi stessi occhi, ecco che il racconto di Simona Vinci, questa lunga confessione su parte della sua vita di donna, questo lungo racconto che narra le debolezze, le caratteristiche e la quotidianità di una vita in difficoltà, ben presto diventa la narrazione del suo opposto. Si trasforma. Diviene la narrazione della possibilità di vivere. Della vita. Perché la paura, se è vero che paralizza, può diventare anche una vera e importante opportunità. Una possibilità, e forse l’unica opportunità di vita che ci si dona con consapevolezza perché, come scrive la Vinci, “accettando l’idea di morire, senza esserne consapevole, mi sfidai a vivere”.
Cosa diventa allora Parla, mia paura? Non un romanzo, non un saggio. Si direbbe un lungo racconto intimo, un flusso di coscienza, una confessione dell’autrice che mentre si rivela ai lettori, alle lettrici e sempre lontana dalle finzioni, licenziando l’ipocrisia come il non detto, mentre tutto questo accade la Vinci dona ai lettori la sua esperienza personale, nel modo in cui questa esperienza, divenuta conoscenza, sembrerebbe diventare un invito a ricordare a chi si riconosce nelle sue pagine che la salvezza non solo è possibile, è proprio quella possibilità di vita che si vuole ottenere. Ottenere con le proprie forze. E pure, chiedendo aiuto, tendendo la mano a chi saprebbe aiutare, senza rifiutare alcun sostegno, e pure affrontando i propri sentimenti. Saranno – queste mani – anche quelle di un uomo e di una donna. I loro ruoli nella vita dell’autrice.
Sarà che la Vinci si è data l’opportunità di rischiare di cambiare. “Di fare le cose che aveva di nuovo desiderio di fare o che doveva fare”. Non avrebbe scacciato la paura, se si fosse presentata ancora, l’avrebbe narrata agli altri, nell’attesa che essa passasse… Nell’attesa che la paura si facesse tranquillità, e che lei potesse riscoprirsi cambiata.
Ma cambiare, trovare un nuovo equilibrio, non significa non avere ricadute, non ricadere nella paura. Anche questo tiene la Vinci a spiegare.
Sembra crudele, a volte, quando narra il suo ruolo di madre, all’apparenza appare ruvida, perché nasce il figlio, e lei con questo arrivo ricade nel precipizio. Ecco la sua ricaduta. Lo ammette, “Avere un figlio è avere paura”.
Ma quanto diventa umana l’autrice quando racconta i suoi timori, l’arrivo di un bambino – il pensiero primario, certo, così lo definisce -, eppure un figlio che le cambia la vita, perché dal suo venire al mondo l’autrice racconta di una donna che non ha più il tempo per le parole; sarà brava a scoprire che lei stessa e il figlio è proprio nelle parole che si sono incontrati.
Fino a quando “Le parole non mi hanno mai tradita – scrive la Vinci, – mi aiuteranno ancora”. Simona Vinci a esse si affida e ai lettori e alle lettrici le consegna come fossero un dono, o forse anche un antidoto, una cura. La cura. “La sua cura”, la stessa che generosamente prescrive ai lettori, e alle lettrici.
C’è un libro meraviglioso di Oliver Sacks, L’uomo che scambio sua moglie per un cappello, una raccolta di storie di pazienti; in quelle pagine Sacks spiegava che “Una malattia non è mai semplicemente una perdita o un eccesso, che c’è sempre una reazione, da parte dell’organismo o dell’individuo colpito, volta a ristabilire, a sostituire, a compensare e a conservare la propria identità, per strani che possano essere i mezzi usati”. Il lungo racconto della Vinci non è altro che questo, la storia – e la dimostrazione – che a una malattia, e qui anche alla paura ci si può abbandonare quel tanto che serve a conoscerla, a riconoscerla, ma poi fare di essa un’importante opportunità di vita. E’ il segreto sembrerebbe essere, in primis, la parola da condividere con gli altri. La parola che salva, che quando diventa condivisa, quando diviene l’espressione di un dolore da condividere, trasforma tutto questo in nuova possibilità.
“La mia esperienza è stata questa, è questa – racconta la Vinci. – Ma i temi dell’ansia, della paura e della depressione sono troppo ampi e ognuno li sperimenta in modi differenti; anche se al fondo probabilmente c’è qualcosa che lega tutti coloro che soffrono nel corso della vita di questa malattia.”
Simona Vinci è tornata in libreria con Parla, mia paura dopo aver vinto il Premio Campiello nel 2016 con La prima verità.
Simona Vinci
Vive a Budrio, in provincia di Bologna. Il suo esordio letterario risale al 1997, con il romanzo Dei bambini non si sa niente, edito da Einaudi nella collana Stile libero; il libro, vincitore nel 2000 del Premio Elsa Morante opera prima, fa ottenere alla scrittrice un grande successo di pubblico e di critica, suscitando anche scandalo e polemiche per il tema trattato. Il romanzo è stato tradotto in dodici paesi, tra i quali gli Stati Uniti. Nel 1999 il suo libro di racconti In tutti i sensi come l’amore arriva nella cinquina finale del Premio Campiello. Nel 2003, sempre al Premio Campiello, il suo romanzo Come prima delle madri si classifica al secondo posto per pochi voti. Nel 2009 è stata fra gli ospiti del festival letterario Mondello Giovani dedicato agli autori di nuova generazione. Collabora con vari quotidiani nazionali e ha lavorato per la televisione (su Rai 3 nel 2000 ha condotto Cenerentola, un programma di Gregorio Paolini, e nel 2006 Milonga Station , come autrice e conduttrice insieme a Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi) e per la radio (Radio Rai Due).
È traduttrice letteraria dall’inglese (ha tradotto fra gli altri Steve Erickson).
I suoi libri sono tradotti e pubblicati in quindici paesi.
Alla fine di maggio del 2012 è diventata mamma del piccolo Ettore
Nel 2016 ha scritto il suo primo testo teatrale Porta della Rocca Ostile, diretto da Andrea Adriatico all’interno del progetto Bologna, 900 e duemila, dedicato ai 900 anni del Comune di Bologna, e allestito alla Scalinata del Pincio di Bologna.
Il 29 marzo 2016, dopo otto anni di gestazione, esce il romanzo La prima verità pubblicato da Einaudi Stile libero, che vince il Premio Campiello 2016 e altri sei premi.
Il 19 settembre 2017 pubblica il romanzo autobiografico Parla,mia paura nel quale narra la propria lotta contro la depressione e gli attacchi di panico.
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