L’inconsapevole trinità : Quinta Puntata del romanzo di Marcello Lippi. Qui il link della prima puntata , seconda puntata , terza puntata e quarta puntata.
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PREFAZIONE
Scritto durante gli anni di permanenza in Cile dell’autore, questo romanzo racconta una storia affascinante e piena di colpi di scena, in cui agiscono fianco a fianco, secondo quella che è l’assoluta normalità nei paesi del Sudamerica uomini e spiriti, ninfe e personaggi letterari, tutti vivi di un’unica vita che da queste pagine prende corpo e significato. La vera protagonista è una donna, o meglio una creatura leggendaria della letteratura cilena, Osilas, la ninfa che oscilla (donde il nome) tra due mondi e che coinvolge, guida, illumina la vita dei protagonisti maschili. La sua voce è talmente potente e meravigliosa da muovere le onde del mare, il suo operare è benefico e potente per la vita di chi la incontra, siano esseri umani o personaggi letterari resi immortali dalla loro condizione e desiderosi invece di umanità. Il simbolo, il segno, le dimensioni dell’essere. La cattedrale nell’oceano è il racconto di tre vite, o non-vite, alla ricerca del significato del mondo: la prima attraverso la negazione della casualità e l’interpretazione estrema del reale come segno, la seconda attraverso la conflittualità dell’amore non corrisposto, la terza attraverso l’abbandono confidente ad un reale che supera i confini della normalità e ragionevolezza. Tre vite che si intersecano: quella di Pierre de Craon protagonista della pièce di Paul Claudel L’annonce faite à Marie , condannato per un gesto maldestro di violenza ai danni della giovane Violaine a peregrinare in eterno per il mondo con una lieve, ma contagiosa, forma di lebbra in corpo. Immortale perché personaggio di teatro, ma reale, più reale di altri personaggi, nella sua avventura fascinosa e ricca di sorprese, nel suo girovagare attraverso i secoli, maledicendo Dio per la punizione che gli ha inflitto, negandogli anche la redenzione, perché un reale tanto evidente nega la possibilità salvifica della fede; quella di un critico teatrale che, alle prese con un evento imprevisto e destabilizzante, il ritrovamento di una ragazza morente per overdose, si lascia coinvolgere, pensando a questo incontro come ad uno squarcio che deve spezzare la sua vita di prima e creare i presupposti per una nuova, nella quale gli si possibile intuire la ragione del suo esistere, operare ed amare; quella di un pensionato vedovo e solo che incontra uno spirito su una scogliera ed accetta di seguirne le indicazioni fino ad avere una nuova meravigliosa vita in Sudamerica accanto ad una giovane fanciulla. Cos’hanno in comune? Forse nulla, forse un mondo di sensazioni e verità che appartiene solo a loro e del quale Osilas, la creatura del mito andino che oscilla tra le due dimensioni e si coinvolge con l’esistenza di tutti e tre, possiede le chiavi. Il lettore è chiamato ad accettare in questa opera non solo l’operare congiunto di creature terrene, di esseri intermedi tra la dimensione della materia e quella dello spirito e di personaggi di teatro umanizzati, ma anche che i personaggi di una storia corrispondano a quelli dell’altra, che un personaggio possa essere nel contempo morto e vivo in uno sdoppiamento che trova le sue ragioni nel suo essere fortemente angelico e nel contempo simbolico.
Redazione Cultura
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L’inconsapevole trinità
o
La cattedrale nell’ Oceano
ROMANZO di MARCELLO LIPPI
quinta Puntata
9
I preparativi per la partenza richiesero un certo tempo: Francesco pensò soprattutto a vendere tutto ciò che poté per racimolare denaro da investire nella sua nuova missione, mentre padre Ignazio si preoccupò di spiegargli quali fossero le condizioni di vita del paese in cui stava per trasferirsi. Il religioso aveva in realtà sperato nell’adesione da parte di qualcuno un po’ più giovane di lui, ma vedendolo così pieno di energia e determinato, aveva finito per lasciarsi convincere a lasciarlo partire. Ora occorreva istruirlo un po’ sulla gestione di una scuola e fargli un corso accelerato di lingua spagnola, anche se buona parte dei collaboratori che avrebbe trovato in loco conoscevano l’italiano. Francesco, che aveva ritrovato il buon umore e l’energia dei giorni passati alla scogliera, apprendeva come un ragazzino, con mente fresca e curiosa, e non mostrava la minima preoccupazione per un viaggio in un altro continente, nonostante avesse viaggiato pochissimo in vita sua e non avesse mai varcato i confini dello stato, se non per una breve escursione nella Svizzera italiana durante una gita aziendale. Non sapeva nulla del Cile e si stupì non poco di apprendere che le stagioni erano invertite e che avrebbe trovato l’inverno anziché l’estate: aveva infatti preparato una valigia di indumenti leggeri come se partisse per le Seichelles.
Una certezza granitica muoveva ogni suo gesto: sapeva di avere poco tempo e lo usava con avidità. Ora aveva capito la sua destinazione: gli era stato detto che “Carlos” doveva partire. Perché lo avrebbero chiamato con un nome spagnolo se non per indicargli la lingua del posto in cui doveva recarsi? Perché cambiargli il nome se non per consacrarlo ad una missione come Dio aveva fatto con Abramo e Gesù con Pietro? Un dubbio era così sciolto. Ora sapeva la sua destinazione e ciò che era chiamato a fare. L’altro dubbio si sciolse quando Francesco decise di parlarne a padre Ignazio, il quale gli disse che Osilas non era un nome di persona usato in Cile, ma una figura mitologica degli indios andini dal nome col tempo spagnolizzato: la fanciulla che oscilla (“Osilas” appunto) tra due mondi, tra il mondo spirituale e quello materiale. A queste parole tutto si era fatto nello stesso momento più chiaro e più misterioso per Francesco. Se, da un lato, comprendeva il mistero dei nomi scritti sulla statuetta, dall’altro non poteva spiegare alla luce della propria ragione l’esistenza non-esistenza di una creatura oscillante tra l’umano e il divino.
Del resto, quando aveva chiesto a padre Ignazio, un poco imprudentemente, se qualcuno avesse mai visto questa ragazza, il sacerdote era scoppiato in una gran risata e gli aveva detto:
-” Ci sono le stesse probabilità di incontrare il Minotauro a passeggio per il centro città! Sono leggende antiche, Francesco, sogni di poeti contadini di un’epoca nella quale i confini del mondo coincidevano con quelli del proprio villaggio!”
Aveva avuto la tentazione di confidarsi, di dirgli ciò che non aveva osato raccontare a don Carlo in tanti mesi, ma la reazione ridanciana del sacerdote lo scoraggiò e decise di tenere per sé il segreto. Nessuno avrebbe potuto convincerlo che ciò che i suoi occhi avevano visto, che la creatura che aveva amato fisicamente e spiritualmente con tanta intensità fosse un parto della sua mente stanca e provata e non avesse invece i connotati della ierofania, della manifestazione del sacro in un essere al quale vengono conferiti dalla divinità poteri di mediazione entro i due mondi. Quella ragazza, Osilas o qualunque fosse il suo vero nome, era stata lo strumento potente di una volontà che lo aveva chiamato alla morte ed alla risurrezione in una dimensione di totale alterità. Ne era stato affascinato al punto da accettare di tagliare i ponti con tutto ciò che era stato: lo avrebbe fatto se la sua vita di prima gli fosse piaciuta? Tutte le cose dolorose che gli erano successe erano finalizzate a renderlo disponibile al passo radicale? L’ipotesi era ragionevole e questo bastava a dargli una grande forza interiore: non andava solo, questa Volontà agente lo avrebbe guidato.
La partenza era fissata per il giorno 11: all’agenzia aveva stretto il biglietto in mano con orgogliosa commozione, come fosse un lasciapassare per la sua nuova dimensione. Il giorno precedente la partenza depose per l’ultima volta un mazzo di fiori sulla tomba di Carla e si stupì di sentire il caldo umore delle lacrime accarezzargli le guance, muta testimonianza di un grande amore che nulla aveva potuto cancellare, nemmeno lo spegnersi della sua coscienza e la sua lunga agonia. Ugualmente per l’ultima volta volle percorrere il sentiero della costa, che trovò però affollato di bagnanti schiamazzanti e irrispettosi e ingombro dei loro rifiuti; ripensava ad ogni istante alla sirena che lo aveva incantato e serbava nel cuore la segreta possibilità del miracolo di poterla rivedere. Ma il rumore dei bagnanti e la visione dei loro corpi, alcuni nudi come quello di lei ma volgari con il loro odore di creme e di oli abbronzanti ed il loro giacere pigramente esposti ai raggi violenti del sole, lì, negli stessi luoghi del loro amore, gli fu insopportabile e decise di ritornarvi a sera alla ricerca dei suoi ricordi e dei suoi pensieri, come aveva fatto solo pochi mesi prima, quando Carla era ancora con lui.
Fece anche una breve visita in città perché ad essa in fondo si sentiva legato e, perché no?, anche un’ultima passeggiata davanti alla ditta nella quale aveva per tanti anni lavorato. Ogni saluto, più o meno triste che fosse, era un pezzo della sua memoria che lo abbandonava e lo invitava a partire, con più forza, con più assolutezza, verso il suo nuovo destino. Salutò don Carlo, il quale gli offrì un pranzo preparato con amore dalla perpetua, ed i pochi parrocchiani rimasti in città in estate: tutto era pronto! I bagagli preparati con cura, con i libri amati e i pochi abiti necessari ed il cuore già al di là dell’oceano.
Così Francesco, a sera, come il sole accennò a tramontare, si recò per l’ultima volta al sentiero per salutare il suo mare, ora così inquinato dai veleni di un’umanità incosciente che il gioco estivo delle correnti portava a depositarsi a riva, trasformandolo in una melma maleodorante di schiuma biancastra e rifiuti non biodegradabili. In quell’acqua si erano immersi fino a poco prima i bagnanti. A quell’acqua egli si accostò, incurante di alcuni pescatori che stavano a poca distanza da lui. Scese fino al luogo sacro del loro amore, con profonda tristezza, con nostalgia e rimpianto per quei momenti perduti e per il corpo di lei, mai più unito al suo.
Si sedette a lungo ad ascoltare il rumore delle onde, il respiro del mare morente, imporporato dai raggi del sole calante. L’aria era ancora eccessivamente calda e Francesco sentì battere forte il proprio cuore, un po’ per la fatica della discesa, un po’ per il peso opprimente del ricordo: riusciva appena a respirare. Fu per questo che, con la naturalezza di chi ripete un gesto consueto, cominciò a cercare la profondità del proprio respiro, come Osilas gli aveva insegnato, chiudendo gli occhi ed assumendo la posizione del loto, che gli riuscì stranamente facile nonostante l’intorpidimento delle membra. Cercò di concentrarsi sul suono delle onde, ma troppe erano le macchine che a monte percorrevano la strada statale ed il loro rumore, complice l’assenza di vento, lo raggiungeva, innervosendolo. Decise così di cercar refrigerio nell’acqua, incurante della sporcizia che vi galleggiava ed a questo fine si spogliò.
I pescatori non vi fecero troppo caso, abituati come erano a vedere nudisti su quella scogliera, né lui si preoccupò di poter essere riconosciuto. Il mare lo chiamava a sé per offrirgli il suo tenero abbraccio e solo questo ora gli importava. Dapprima il contatto con l’acqua riscaldata tutto il giorno dal sole impietoso di luglio non gli diede alcun refrigerio, ma appena poté raggiungere, scansando la sporcizia, il punto dove il fondale s’inabissava e l’acqua si faceva profonda, s’immerse sentendo il fresco contatto delle correnti sottomarine.
Laggiù non lo raggiungeva più alcun rumore e tutto il suo mondo scompariva nell’oscurità di un mare non più trasparente. I ricordi lo avvolsero come un manto e i muscoli si rilassarono nel beato affidarsi al movimento dell’acqua, ascoltando il suono amplificato e misterioso del proprio cuore.
Pensò che era tale la beatitudine di quell’immersione, che, se non avesse avuto un imperativo all’azione, avrebbe potuto lasciarsi andare per sempre a quell’abbraccio potente, unendosi al mare in un supremo gesto di amore. Ma così non fu! Si riscosse, sentendo il raggrinzirsi della pelle non più abituata al lungo contatto con l’acqua, e riguadagnò la riva.
Udì appena o non volle udire la voce di un pescatore che gli chiedeva come fosse l’acqua e, incurante della propria nudità, uscì e si sedette a guardare in lontananza gli ultimi bagliori del sole morente. Ad essi, improvvisamente, cantò con il cuore tutto il proprio amore ed il dolore dell’abbandono, come di un figlio che lascia la madre, e lo fece come gli aveva insegnato Osilas: dalle sue labbra chiuse sgorgò una melodia d’oriente, la stessa che aveva sentito scaturire dall’anima dell’amata.
Ed il mare rispose. Lentamente l’attenzione di Francesco si spostò dal sole a questa voce soprannaturale, potentissima, che scaturiva dal profondo del suo essere ed era un canto d’amore, di liberazione, di richiamo. Non si sorprese di sentirla scaturire dal proprio corpo, senza la presenza intermedia della ragazza; la riconobbe, la salutò con gioia e gratitudine, si sentì in comunione con la sua amica e la chiamò senza parole inutili; come un canto di gabbiano o di delfino, come voce d’angelo, il canto si impadronì di lui, tanto che non si curò delle onde che colpivano violentemente il suo viso. Senza aprire gli occhi poteva sentire la forza potente di quella stessa luce che aveva avvolto il corpo di Osilas quando, dopo l’amore, gli era apparsa, realmente o in sogno che fosse, nella sua splendida nudità, seduta sullo scoglio in fronte a lui. Questa luce gli raccontò di mondi favolosi e dell’ amata; non un solo rumore lo raggiungeva, come se fossero soli al mondo: lui con il suo canto, quella luce ed il mare. La chiamò come lei gli aveva detto di fare.
– “Tu sai come”
Solo ora lo capiva, perché solo ora questa voce scaturiva da lui pura e potente. L’avrebbe raggiunta? Non aveva dubbi e non si stupì, aprendo gli occhi, di trovarsela di fronte, in piedi sullo scoglio. I suoi contorni erano però sfumati come se quella che lui vedeva fosse solo un’immagine della fanciulla, proiettata dalla sua mente sullo sfondo magico di quella luce misteriosa. Ma quell’immagine parlò:
– “Ciao, Carlos!”
– “Ciao! Volevo salutarti!”
– “Perché? Non vuoi più rivedermi?”
– “E come? Sto partendo per il Sudamerica e non credo che farò ritorno, visto che non ho nessun motivo per tornare e nulla mi lega a questa città.”
– “Mi troverai laggiù, non temere.”
– “Verrai anche tu?”
La ragazza sorrise, senza rispondere.
– “Vorrei rivederti.”
– “Lo stai facendo.”
– “No, mi hai capito benissimo. So che questo è un sogno e che tra poco mi sveglierò sentendomi male per la nostalgia di te.”
– “Carlos, ma che dici? Ancora non hai capito?”
– “Che cosa?” – disse con un’espressione confusa e sofferente- “Ti prego, mi sento impreparato a quello che mi sta succedendo e temo mi manchi il coraggio, ora che ti ho rivista, di fare ciò che mi hai chiesto.”
– “Non dovrei, ma, se proprio ne hai bisogno, vieni stasera al bar di piazza Campetto; ci saluteremo là, solo pochi minuti, e promettimi che non farai domande: non mi è concesso dirti di più.”
– “Te lo prometto: a stasera Osilas!”
– “A stasera, Carlos!”
Lentamente il suo corpo fu invaso dalla luminosità che dapprima le stava alle spalle e scomparve, fondendosi in essa. Fu la mano ruvida di un pescatore a destarlo:
– “Si sente bene?”
– “Si, grazie, credo di essermi solo addormentato!”
– “Ha bisogno di qualcosa?”
– “Sì, grazie, le sarei grato se mi volesse aiutare a rivestirmi ed a risalire, perché mi sento molto debole.”
Vincendo la vergogna, si fece aiutare a riguadagnare il sentiero. Il buon pescatore non lo volle abbandonare fino alla strada principale, per paura che un giramento di testa lo potesse far precipitare sugli scogli sottostanti: là giunti gli offrì un caffè e se ne andò solo quando fu sicuro che Francesco si fosse ripreso completamente. Tornato a casa, non osò disfare i bagagli già pronti e chiese a don Carlo se non avesse un abito da prestargli. Questi aveva da offrirgli solo un vecchio abito di suo padre, un completo “spezzato” decisamente fuori moda, ma che Francesco indossò con gioia, pensando che per Osilas non sarebbe stato certo un problema la sua mancanza di stile nel presentarsi.
– “Dove vai?”
– “Devo salutare una persona, prima di partire.”
– “Non far tardi, domani avrai una giornata faticosa!”
– “Stai tranquillo, non sono un bambino!”- sorrise con tenerezza a questo prete più giovane di lui, così paterno nei suoi confronti, e salì in casa per farsi una doccia.
Poi uscì per andare in centro. Che cosa lo rendeva così sicuro di trovare Osilas all’appuntamento? Aveva sognato o no? In ogni modo non poteva rassegnarsi a non sapere e quindi doveva andarci, a rischio di passare la serata tristemente solo in un bar del centro storico. Se lei non fosse venuta, sarebbe stata la prova della dimensione puramente onirica di tutto l’avvenimento che lo stava coinvolgendo? Questo pensiero lo sfiorò appena: il ricordo della statuetta, dell’unica vera materialità che emergesse da tutta la vicenda, lo confortò. Era disposto a credere all’incredibile, ma non era disposto a dubitare dei propri sensi e di un oggetto materiale che aveva toccato e ritoccato e che ora stava, protetto dall’imballaggio, ben chiuso in valigia.
Osilas doveva certamente aver capito la sua incredulità ed era ricorsa ad un regalino d’addio per lasciargli qualcosa di inconfutabile, d’inattaccabile dal dubbio e dalla tentazione della miscredenza. Si sentì un bambino: da un lato gli suscitava tenerezza l’amorevole cura della ragazza, dall’altro lo offendeva il suo non averlo considerato capace di farcela senza l’aiuto della statuetta.
Si affrettò, rendendosi però conto di non ricordarsi l’ora dell’appuntamento. Gliel’aveva detta Osilas? Oppure se ne era scordata? La prospettiva di un’attesa di ore non lo scoraggiò: prese un taxi per essere in loco più velocemente possibile e si calmò solo quando fu seduto ad un tavolino, davanti ad una bella coppa di gelato misto portatagli da una cameriera molto simpatica e carina che gli sorrise riempiendolo di orgoglio maschile. Si era portato un libro sul Cile per ingannare l’attesa e prese a leggerlo con passione, meravigliandosi di fronte alla varietà dei paesaggi che le immagini gli mostravano, dai deserti infuocati del nord ai freddi e verdeggianti territori del sud così simili agli scenari del nord-Europa. Passò molto tempo senza che la ragazza si facesse vedere, ma questo non lo turbò. Solo quando il padrone gli fece notare che era quasi l’ora della chiusura si fece scuro in volto e si sentì disorientato: mancavano pochi minuti, poi sarebbe dovuto uscire dal locale e non avrebbe saputo dove trovarla. La cameriera, nel frattempo, stava pulendo i tavolini e quando arrivò al suo, lo pregò di togliere il libro per consentirle di svolgere il suo lavoro.
– “Grazie, Carlos”
– “Come, scusi?”
– “Hai promesso di non far domande! Il padrone non vuole che chiacchieri con i clienti; aspettami fuori: uscirò tra cinque minuti.”
– “Ma, sei tu?”
La ragazza lo guardò fisso negli occhi ed egli non ebbe più alcun dubbio.
– “Non capisco più nulla, aiutami!”
– “Aspettami fuori, ti prego; parleremo dopo!”
Salutò il padrone ed uscì completamente sconvolto: quella era la sua voce, erano i suoi occhi, ma il corpo non era il suo! Cosa stava succedendo? E chi era Osilas? Aveva veramente incontrato la creatura della leggenda? Il cuore gli batteva forte e non poteva pensare: la guardava attraverso i vetri con gli occhi sbarrati, come durante un incubo e non poteva muovere un muscolo. Lei uscì frettolosamente e lo prese a braccetto.
– “Tu sai poco di me, amore mio dolcissimo, o forse sai già troppo, ma io non posso dirti nulla di più. Guarda con gli occhi dell’anima e capirai da solo quanto desideri capire.”
Francesco era allibito, sentiva di stare per urlare. Quella ragazza sconosciuta era bellissima, ma non era lei, o meglio era lei non essendo lei. La confusione era totale nella sua testa.
– “Scusami un attimo!”
Osilas si allontanò un minuto per parlare con un giovane dall’aria losca che sostava in un portone; lui le diede qualcosa e lei ricambiò ponendo qualcosa nella mano di lui. Poi lo raggiunse e ripresero a camminare stretti nella notte, lungo i vicoli ormai silenziosi della città.
– “Devo ancora fare una cosa, stanotte, per cui possiamo stare assieme solo pochi minuti; vieni, sbrigati!”
Sedettero in una sporca panchina e lei prese le sue mani guardandolo nuovamente senza dire una parola: si salutarono così, muti, un uomo maturo ed una ragazza mano nella mano in un angolo oscuro della città addormentata, e si promisero di rivedersi presto, là dove lui sarebbe andato. Osilas gli fece capire con il silenzio più di quanto avrebbe potuto con le parole, e venne il momento di separarsi. Lui ora sapeva! Un lungo bacio appassionato suggellò il loro patto.
Poi lei si allontanò in fretta, come aveva fatto al sentiero, ma Francesco questa volta disubbidì e la seguì. Fece fatica a starle dietro e forse l’avrebbe persa se lei non si fosse fermata nell’androne di un portone: si nascose poco distante per spiarla, ma ciò che vide non gli piacque e non poté fare a meno di fare un movimento che fu notato dalla ragazza. Osilas ne fu sorpresa e lo chiamò a sé:
– “Che stai facendo qui? Mi hai seguita?”
– “E tu? Che diavolo stai combinando?”
– “Non sono affari tuoi, non ti immischiare; ciò che devo fare è molto importante e non posso fallire. Guarda se vuoi, ma guai a te se intervieni! Qualunque cosa accada devi rimanere immobile e silenzioso, altrimenti non mi vedrai mai più!”
La voce di Osilas era irata, eppure ancora tenera: lui l’aveva seguita solo per amore! Obbediente, Francesco si nascose dove la ragazza gli indicò ed osservò.
Ciò che vide fu terribile: la giovane si iniettò qualcosa nelle vene, poi parve cercare un posto preciso nell’oscurità della via e lì si sdraiò nascondendosi tra un cumulo di rifiuti.
Colui che Osilas stava aspettando giunse pochi istanti dopo: era uno strano personaggio sulla trentina, con un’aria da intellettuale ed un’andatura da sognatore. Credendo di non essere visto, parlava da solo, interrompeva la camminata, faceva gesti strani ad un interlocutore invisibile e poi proseguiva con un’aria soddisfatta sul viso. Quando le passò accanto trasalì e fece per accostarsi, poi per andarsene, infine tornò sui suoi passi e scoprì il corpo della ragazza. Non gridò, non sembrò sconvolto, parve a Francesco che già sapesse che lei era là per lui, aspettandolo nell’oscurità. Non chiamò aiuto, se non più tardi quando qualcosa che doveva aver visto lo turbò e lo spinse all’azione. Allora corse verso di lui; Francesco ebbe paura di poter essere visto ed uscì dal suo nascondiglio, ma un impulso irrefrenabile gli fece scaturire un’incontenibile risata che risuonò potente nella strada deserta. L’uomo si accorse allora della sua presenza, ma Francesco si allontanò di corsa e, celandosi in un portone aperto che richiuse alle sue spalle, lo seminò. Rientrò a casa euforico e consapevole ed il giorno seguente, sull’aereo che lo stava portando a Santiago, ripensò agli avvenimenti della notte ed ancora ne rise, da solo, come un pazzo.
10
– “Come hai fatto a trovarmi?”
– “Fortuna, solo fortuna. Ho letto un articolo che parlava di te a Köln e so che alloggi sempre nell’albergo migliore della città. Come vedi non è stato così difficile”
Pierre guardava sorpreso Catherine sorseggiare il caffè, con addosso il suo pigiama di ricambio e con i capelli spettinati a contorno del viso giovanissimo. Come sempre quando era con una donna, dopo un po’ il suo pensiero trapassava l’occasionale compagnia del momento e vagava lontano, come se di lei gli interessasse solo il primo sguardo e non i successivi; come se fosse degno d’attenzione solo il non conosciuto e il già conosciuto perdesse ogni attrattiva. Anche ora, seduto dall’altra parte del tavolo della sua suite, mentre lei, con un fiume di parole, raccontava i particolari inutili del viaggio fatto per raggiungerlo, il suo sguardo vagava seguendo le tracce dello scorrere delle gocce d’acqua sui vetri e il suo pensiero era profondamente turbato: cosa gli stava accadendo?
La sua vita era stata incredibilmente monotona fino al giorno prima, ordinatissima, senza un solo elemento di novità o di interesse che non fosse il lavoro e la cura assidua nel dissimulare il proprio mistero e la propria identità. Poi di colpo tutte queste sorprese! Qualcosa si stava muovendo, era stata spezzata la lugubre immobilità della sua sopravvivenza.
Ma qual’era il significato di questi avvenimenti? L’infinito si era accorto di lui? Il termine era stato finalmente fissato?
Scosse lievemente il capo: non voleva ancora una volta illudersi di poter aver un tempo normale a disposizione, di poter cominciare ad invecchiare e consumarsi come gli altri esseri umani, di veder il proprio colorito impallidire e le vene farsi più evidenti su quelle mani perfette che tanto avevano costruito e tanto distrutto.
L’unica saggezza era nella rassegnazione; era inutile cercare di capire: tutto muoveva ad un fine che gli era sconosciuto. La sua stessa vita gli aveva chiesto in mille modi che lui l’amasse, che aderisse ai suoi contorni come al profilo di una sua cattedrale, ma Pierre non era mai stato disposto a perdonarsi, mai disposto a non essere ciò che lui stesso aveva edificato a priori, contro ogni evidenza, contro ogni alibi. Il personaggio da lui inventato per rispondere all’assurdità della propria condanna era più forte della realtà ispirante perché ancora più immutabile della sua immota vita e lentamente si era trasformato da scappatoia in cella, restringendogli sempre più i limiti di azione. Sacro e profano si erano dunque nel tempo così mescolati in lui da creare una genialità assoluta, perché consapevole fino in fondo della propria grandezza e del proprio abbandono.
Una volta aveva scritto sul proprio taccuino che era come se Dio avesse scelto come veggente un giocatore d’azzardo, gli avesse dato poteri unici, anche se incontrollabili, ed il veggente avesse rifiutato di accettarli, respingendoli come figli non suoi e gridando al Cielo il suo rifiuto a lasciarsi, come Pierre amava dire, “sequestrare” dall’Infinito. Pierre era una cosa, Dio un’altra, e se Pierre non poteva negare l’evidenza del divino, si sentiva però negato dal divino stesso che gli precludeva la propria indipendenza e libertà, forzando la sua debole volontà con gesto potente. Dio gli aveva lasciato una cosa sola: la possibilità di alzare le mani verso l’infinito in una supplica desolata; lui era tutto racchiuso in questa domanda di significato che attraversava il tempo e lo spazio: era un interrogativo dolente personificato. Non gli era concessa quell’illusione consolatrice che muoveva uomini ed animali nel loro quotidiano indaffararsi, l’affermazione cioè del valore del particolare, ciò che spingeva i suoi amici sotto il ponte ad affannarsi intorno alle loro povere cose così come il capitalista intorno al suo denaro, credendo tutti di fare qualcosa di fondamentale e di essere al centro dell’universo.
Lui vedeva i contorni della futilità persino nella propria eternizzazione: tutto era vano, se non l’Assenza che si era fatta Presenza per un istante nella sua vita e poi si era fatta silenzio ed attesa lunga secoli, si era fatta notte! Essa si serviva di lui, questo era chiaro, perché nelle pietre delle sue costruzioni non c’era solo il suo spirito, bensì la voce di un potere eterno che muoveva le sue intenzioni e le sue decisioni ed attraverso le sue mani creava.
Ma come spiegare il male che a volte scaturiva dal suo corpo come acqua sporca da una sorgente malata? Come spiegare la superbia, la gelosia, il suo desiderio di possesso di una donna, quasi non avesse dentro di sé quella terribile malattia come segno concreto di una rimembranza scavata nel vivo della carne? Forse era quello il vero Pierre? In questo caso, forse, quel ritratto alla parete della suite avrebbe disegnato contorni non così difformi da quelli della sua anima. Ciò che di buono era in lui non lo avvertiva come proprio: non gli rimaneva che cercare se stesso nella melma del disordine e della propria imperfezione, nella speranza di un lampo illuminante, oppure, a testa bassa e senza curarsi di nulla, continuare a dare del tu al potente rivale contro il quale aveva combattuto come Giacobbe fino a portarne i segni nel corpo. Così, del resto, aveva sempre fatto, pregando a volte di notte nel silenzio di un tempio con le parole di sant’Anselmo: “Fa’ tu, o Cristo, quello che il mio cuore non può. Tu che mi fai chiedere, concedi”.
– “Pierre, io rivoglio ciò che ti sei preso.”
– “Di che parli Catherine?”
– “Della mia anima. Non posso farne a meno. Da quando sei partito mi sono sentita vuota, disarticolata come un burattino al quale avessero tagliato i fili; non ho più potuto studiare, né pensare ad altro che non fossi tu: nulla mi dava piacere, nulla tristezza. Rivoglio la mia capacità di vivere l’umano, rivoglio la mia normalità, i miei dubbi, le mie distrazioni!”
Pierre scoppiò a ridere: decisamente nella sua vita qualcosa stava cambiando! Si stupì lui stesso della freschezza della sua risata, della gioventù che la coloriva e la rendeva spontanea ed inoffensiva.
– “Dunque sarei per te l’equivalente di Mephisto ed andrei in giro per il mondo a depredare le fanciulle della loro anima?”
– “Te lo dissi a Lyon, ma fu per gioco. No, so bene chi sei e che in te non c’è nulla di oscuro. Solo, con la tua partenza mi hai trasformato e non ero pronta a subirlo. Certo, da quando mi
hai lasciato portandoti dietro la parte più importante di me sono diventata adulta: come mi dicesti una volta, essere adulti è appartenere coscientemente e volontariamente a qualcuno
ed io ti appartengo così, Pierre. Ma non posso appartenerti e starti lontano: l’appartenenza crea uno spazio che chiede di essere riempito, se no è pura futilità, è abbandono. Mi hai
reso una triste vedova, ma io mi sento giovane, Pierre, e voglio essere come le mie amiche, senza questa responsabilità imprescindibile. Voglio la leggerezza, l’aria libera e pura che si respira fuori dalle tue cattedrali di marmo. Liberami, ti prego, da questa catena! Restituiscimi la mia libertà: hai vinto, lo riconosco! Sii generoso: tienimi con te o fai qualcosa che sparga l’oblio, che scavi un abisso tra la mia coscienza ed il tuo ricordo.”
Pierre colse appieno e con profondo stupore la rapidità della trasformazione avvenuta in Catherine: aveva lasciato una fanciulla dall’eloquio incerto e dalle certezze aggrovigliate e si trovava ora davanti una donna profonda ed audace, che fissava gli occhi diritto nei suoi e non si curava delle sue distrazioni.
Ora lei sapeva, questo era evidente!
– “Tu mi chiedi la tenebra, Catherine, o mi chiedi d’essere ciò che non sono!”
Si alzò meccanicamente e le voltò le spalle, mentre lo sguardo cercava riposo al di là dei vetri fradici delle finestre.
– “Persino l’alba non riesce ad apparire: è scuro quasi fosse notte e non cessa questa pioggia affannosa.” – riprese fiato- “Ma tu sei sicura di ciò che dici?”
– “Come di averti davanti a me in questo momento.”
– “Una creatura inanimata, dunque! Scusami, Catherine, ma sei ben altro!”
– “Non è più tempo di parole: decidi di me ciò che credi, ma decidi ora!”
– “Non sta a me, non sta a me decidere. Non tentarmi!”
– “Sono dunque io ad avere in mano le chiavi del gioco?”
– “Tu?”-la guardò con infinita tenerezza, tanto che lei si sentì profondamente turbata e avvinta.
Le si avvicinò e le sue labbra cercarono quelle di lei.
In quell’istante suonò il telefono, violentemente, importunamente come non mai. Il trillo percosse la coscienza di Pierre insieme con i sensi e lo ridestò dal sogno di normalità che lo stava avvolgendo e seducendo. Gridò senza suono: i muscoli del suo viso si contrassero in uno spasimo atroce, gli occhi quasi schizzarono fuori dalle orbite per un terrore cieco che lo invase dalla testa ai piedi, lo vinse, lo piegò e lo fece cadere al suolo come se una forza feroce gli avesse spezzato le ginocchia; si prese il capo tra le mani e cominciò a singhiozzare.
Catherine rimase allibita, sorpresa dalla fulmineità del crollo di quell’uomo grande e grosso, ridotto in un istante da una pazzia incontrollata alla miseria più umiliante. Si chinò su di lui e tentò di accarezzargli i capelli. Ma Pierre, quasi presagendo il suo gesto, si ritrasse come una fiera e si rincantucciò sotto il tavolo: tremava come se un gelo misterioso fosse entrato nelle sue ossa. La ragazza corse al telefono e sollevò il ricevitore per chiedere aiuto. Gridò qualcosa nella cornetta, ma si rese subito conto che dall’altra parte del filo non c’era una voce amica e solidale, bensì un’imbarazzatissima voce di donna che le chiese in inglese:
– “Chi parla?”
– “Non importa, venga, per favore, ho bisogno di aiuto: il maestro sta male!”
Le fu subito chiaro chi fosse l’ospite importuna non appena aprì la porta e vide quella ragazza che portava in viso il più grande imbarazzo e forse anche qualcosa di simile alla vergogna, ma aveva negli occhi la più ferma risoluzione a non cedere di un passo di fronte a colei che senza alcun dubbio le si presentava come un’insospettata rivale. Si guardarono per un lungo istante, ognuna studiando l’avversaria per scoprirne i difetti e per convincersi di non assomigliarle : era un patetico confronto in una situazione fin troppo chiara nei suoi contorni.
Greta ruppe il silenzio per prima:
– ” Zum Teufel, wer bist du?”
ed ottenne come risposta un imbarazzatissimo silenzio ed una richiesta :
– “Est-ce-que tu parles français, toi?”.
La difficoltà linguistica stemperò l’impeto iniziale del confronto, perché le due protagoniste si sentirono ridicole nella loro impossibilità di dialogo immediato. Si accordarono civilmente sull’inglese e, dopo essersi entrambe presentate come allieve del maestro, senza risparmiarsi occhiate feroci, si avviarono all’interno della suite. Per un istante il maestro era passato totalmente in secondo piano, lo avevano dimenticato, ed era rimasto solo l’orgoglio ferito a muovere i loro pensieri e movimenti: erano come belve in attesa di sferrare il colpo fatale, ma con la crudeltà tutta umana di chi non colpisce per necessità, ma solo per difendere la propria onorabilità ed il proprio territorio. Il maestro era in quel momento morto per entrambe, ma nessuna delle due avrebbe mai voluto o potuto rinunciarvi per non dare all’altra questa soddisfazione. Pierre le sorprese ancora un volta: se lo trovarono davanti, seduto in poltrona ed in perfetta salute. Egli le guardava con sorridente, cinico distacco.
– “Greta, che bella sorpresa! Come sta papà?”
– “Bene grazie, si è ripreso completamente e stamattina si è già arrabbiato con gli infermieri che lo hanno voluto trattenere in osservazione. Ma tu, piuttosto, mi ha detto la tua amichetta che stavi male, anzi lo ha gridato nel telefono, se no non mi sarei certo precipitata qui ed invece ti trovo in splendida forma. Che significa?”
– “Ogni istante è creazione, non dicevi questo ieri alla festa? Perché escludere l’umano dall’ambito potente dell’illusorietà?”
– “Dunque recitavi?”
Catherine non comprendeva nulla di cosa si dicessero in tedesco, ma non dava a vedere il suo imbarazzo:
– “Cosa dice la bambolona?”- chiese all’amico
– “Credo voglia sapere chi sei”- replicò Pierre assolutamente divertito dalla situazione.
Continuò in inglese:
– “Se non volete costringermi a tradurre ogni frase del nostro dialogo sarà bene usare una lingua comprensibile a tutti, siete d’accordo? Dunque: la signorina qui presente, cara Greta, è Catherine, una studentessa di Lione che è venuta a trovarmi, ma è stata sorpresa dalla pioggia, si è inzuppata e solo per questo indossa la mia vestaglia. Cara Catherine, questa è Greta la figlia di Herr Fuchs, mio attuale datore di lavoro, ora ricoverato in ospedale per causa mia: è venuta a prendermi come previsto dal calendario di impegni della giornata. La vostra presenza simultanea qui, nella mia suite, è dovuta ad uno di quelli che normalmente chiamiamo “scherzi del destino”, atti leggerissimi e potentissimi dell’umorismo della Suprema Intelligenza.”
Si mise a passeggiare per la stanza.
– “Per quanto riguarda il mio malore, esso è stato assolutamente reale e Catherine era sinceramente preoccupata per la mia salute quando tu, Greta, hai chiamato: è stata una leggera crisi di un male antico che mi perseguita da tempo, nulla di preoccupante, tanto che già godo di ottima forma e splendido umore. E poiché il destino mi ha riservato questo movimentatissimo risveglio, vorrei avere il privilegio di invitarvi entrambe a colazione, non appena Catherine si sarà rivestita.”
Le due ragazze assentirono senza abbandonare la reciproca ostilità e mentre Pierre ordinava telefonicamente alla boutique dell’albergo un vestito nuovo per Catherine, si sedettero nel salottino l’una di fronte all’altra.
Appena deposto il ricevitore, ancora una volta Pierre ebbe un’intuizione fulminante; aveva un’occasione di divertimento unica, poteva dare un saggio d’istrionismo superiore perfino a quello dato la sera prima al ricevimento, ma gli serviva il pubblico: rapidamente chiamò la stanza di Carlos.
– “Dormivi? Vedo che sei riuscito ad ambientarti bene nell’albergo di lusso! Vieni che ho bisogno di te. Ah, ti ho fatto portare in camera un vestito nuovo: te lo consegneranno a
minuti”
Poi disse alle ragazze:
– “Ho chiamato il mio assistente. Greta già lo conosce.”
– “Tu hai un assistente?”- chiese Catherine stupita, nuovamente in francese.
– “Sì, molte cose sono cambiate, in questi giorni”
– “E perché non hai preso me? Tu sai quanto mi sarebbe piaciuto!”
– “In inglese, per favore”- interruppe Greta, angosciata dal fatto che potessero avvenire accordi segreti tra di loro a sua insaputa.
La situazione era perfetta e Pierre la stava mentalmente pianificando, ma la differenza linguistica tra le ragazze rendeva il gioco troppo facile e quindi poco interessante; doveva recitare per forza in inglese la parte che si era appena scritta: così avrebbe dato un saggio della sua bravura e del suo dominio non servendosi della possibilità di parlare con ognuna di loro senza che l’altra comprendesse. Il suo genio lo urgeva dall’interno ad un gioco difficile e spensierato.
Guardò un istante fuori dalla finestra la grigia mattinata di pioggia e pensò sorridente al “Festin de Pierre” di Molière:
– “L’ incontro simultaneo con Charlotte e Mathurine, ma senza i tuoi imbarazzi, caro dom Juan! Ora mi serve soltanto Sganarelle che sarà il mio pubblico ed il mio aedo.”
Bussarono alla porta e fu recapitato il vestito per Catherine.
– “Catherine è rimasta un po’ stupita della mia decisione di prendermi un assistente, perché mi conosce e sa che non ho mai voluto condividere la mia vita con nessuno. Vatti a vestire, cara Catherine, e non temere che si dica qualcosa di sgradevole in tua assenza. Greta ed io pianificheremo intanto un po’ la giornata”
Un istante dopo che la porta si richiuse alle spalle della ragazza, Greta lasciò da parte il sorriso falso ed ostile che aveva fino ad allora ostentato:
– “Questa non è stata proprio una lieta sorpresa! Dove l’ hai trovata? Non crederai che beva la storia della studentessa sorpresa dal temporale, vero?”
– “Eppure faresti bene a crederci perché è la verità.”
– “E’ la tua amante? Dimmi : tu l’ami?”
– “Io?”- il viso di Pierre si contorse in una smorfia che voleva essere ironica- “No, certamente!”
– “Ma lei sì, se è venuta fino qui da Lyon solo per vederti!”
– “Se così fosse, sarebbe un suo problema, non certo una mia colpa.”
– “E dovevi passarci proprio la notte? E per giunta poche ore dopo essere stati assieme, con tutto quello che era successo alla festa?”
– “Va bene, va bene! Vedo che è inutile insistere col dirti che è arrivata solo questa mattina: parleremo con il portiere e ti dirà lui come stanno le cose, visto che non hai più fiducia in me.”
– “Fiducia? Tu mi parli di fiducia? Io non ho alcun diritto su di te, non sono certo la tua ragazza, ma non mi va di essere corteggiata e poi esposta a situazioni così imbarazzanti. Se è la tua donna, io ora me ne vado; se non lo è che se ne vada lei e subito!”
– “Dubiti davvero di me! Incredibile! Dov’è il tuo intuito? Dove sono la tua consapevolezza e la tua sicurezza? Alla prima difficoltà ti stai ritraendo come una bambina spaventata e la tua coscienza annaspa nel tentativo inutile di dominare gli eventi.”- le si avvicinò con fare suadente – “Ciò che sei per me non è qualcosa che si modifichi solo per una visita imprevista: e non farmi dire esplicitamente ciò che tu significhi per me, anche se ti conosco da poche ore, perché la magia di un incontro svanisce di fronte alla prosaicità di sgradevoli e non necessarie spiegazioni. Ciò che ho visto e vedo nei tuoi occhi mi ha convinto che tu sia una creatura eletta, chiamata ad un destino affascinante come il mio. Qualcosa ci accomuna, qualcosa ci lega, a prescindere da ciò che siamo. Questo qualcosa ci unirà per sempre!”
Bussarono alla porta:
– “Avanti, Carlos!”
Entrò un imbarazzatissimo Carlos, assolutamente fuori posto nel suo vestito nuovo:
– “Buongiorno Greta, ciao maestro. Ti rendi conto che nessuno è mai riuscito a convincermi a mettermi questa roba addosso? Tu devi avere dei poteri soprannaturali!”
– “Rientra nei tuoi obblighi: sei il mio assistente, ora.”
– “Sì, però sono vestito come un pagliaccio e soprattutto mi sento come se ti avessi venduto l’anima.”
In quel momento rientrò Catherine:
– “Ho già sentito queste parole”- disse Pierre ammirandola nel suo vestito nuovo- “Carlos, questa è Catherine: una mia amica di Lyon”
– “Enchanté de faire votre connaissance”- disse Carlos in francese perfetto.
– “Carlos, sai che riesci a stupirmi continuamente?”
– “Anche tu, maestro!”
– “Conosci anche il francese, la lingua madre della nobiltà che tanto odi?”
– “No, quella lingua non la conosco: io so il francese dei rivoluzionari tagliatori di teste e se fossi in te starei attento, caro Robespierre!”
– “Catherine, questo è il mio assistente, un socialista fuori tempo massimo, un forcaiolo, un idealista senza speranza, nonché del tutto privo di competenza e di qualità.”
– “Grazie, capo!”
– “Non c’è di che, amico mio!”
Catherine non sapeva veramente cosa pensare: aveva visto il maestro pochi minuti prima in preda ad un raptus di demenza, in balia di un male misterioso che l’aveva quasi schiantato, ed ora lo vedeva ridere e scherzare con negli occhi una luce gioiosa ed infantile quale non aveva mai riconosciuto in lui, anzi del tutto contraria all’attitudine seriosa e pensosa che egli aveva tenuto con lei in Lyon. Era cambiato, questo era evidente, oppure lei era semplicemente fuori posto lì, aveva sbagliato a tentare di dare una continuità al loro incontro: Pierre era forse un uomo con una donna in ogni città, come molti viaggiatori di professione sogliono avere, ed ad ognuna di esse si adattava dando di sé un’immagine differente! Quello non era il “suo” Pierre, bensì quello della rivale. Ma una forza misteriosa in lei, la forza dell’orgoglio, le impediva di allontanarsi semplicemente dalla situazione equivoca, di risolvere tutto con una fuga. Non voleva lasciare il trionfo alla nemica! Ma come fare?
– “Allora, se tutta la compagnia è pronta e ben disposta, c’è una succulenta colazione che ci aspetta.”- disse Pierre in modo ilare -“andiamo!”
Uscirono a passi impacciati e lenti: ciascuno stava studiando la situazione per capire come comportarsi. Le ragazze non cessavano di analizzarsi reciprocamente in ogni mossa e Carlos studiava la nuova arrivata con fare molto interessato: si vedeva nel viso disteso e nel sorriso disponibile che la ragazza non gli era assolutamente indifferente. L’unico sicuro e deciso nei movimenti era Pierre che seguiva con attenzione e con allegria l’imbarazzo degli altri componenti della compagnia.
Presero l’ascensore, nel quale non si rivolsero la parola, cedendo all’inibizione verbale che questo mezzo di trasporto suscita sempre in chiunque lo adoperi. Nella hall Carlos si
avvicinò a Greta, la prese sottobraccio e le chiese sottovoce alcune informazioni su Catherine, ottenendo in risposta frasi velenose che gli chiarirono all’istante la situazione ed i ruoli della commedia che il suo datore di lavoro stava interpretando.
Nel frattempo Pierre si accostò a Catherine, la quale, mentre si avvicinavano ai tavoli della colazione, riuscì a sussurrargli:
– “Che bella idea che hai avuto! Cosa aspetti a mandarla via?”
– “Sto per subire una scenata di gelosia?”
– “Mah, che ne dici? Faccio un sacco di chilometri per raggiungerti e ti trovo nelle braccia di un’altra che ha tanta confidenza con te da venirti a trovare in camera all’alba! Che ne è
della tua casta purezza, che cosa del tuo saggio distacco dalle cose terrene?”
– “Dio mio, ma che stai dicendo? Chi più di me ama le belle cose che la madre terra ci elargisce? Un artista senza spirito contemplativo ha già fallito sul nascere la propria missione!”
– “E tra queste cose ci sono le belle ragazze molto più giovani di te, non è vero?”
– “Sei molto banale in questo momento ed anche sciocca, come se non sapessi ciò che rappresenti per me!”
– “Ebbene no, non lo so: dimmelo!”
Arrivarono al tavolo dove si ricongiunsero agli altri:
– “Non ora, abbiamo tempo.”
Qual’era esattamente il progetto di Pierre? Aveva realmente deciso di giocare a fare il don Giovanni con le due ragazze, magari promettendo il matrimonio ad entrambe nello stesso momento? Pierre non ne aveva una coscienza esatta: a differenza del piano diabolico architettato ai danni del povero Herr Fuchs per rovinargli la festa, questa volta non aveva in testa nulla di preciso. Era entrato in gioco, cioè la sua anima aveva quella felice predisposizione che apre la mente a cogliere le opportunità del reale ed a sfruttarle per il proprio utile, ma davvero non sapeva dove il gioco l’avrebbe questa volta condotto: era una situazione aperta e, a differenza della sera precedente, era un poco più restio ad abbandonarvisi totalmente, visti gli esiti drammatici dell’ultimo scherzo. Poi, sentiva nel fondo della propria natura agitarsi una sensazione di disagio dovuta alla corrente di simpatia che lo legava ad entrambe le ragazze e alla sua reticenza a condurre il gioco su binari nei quali la sua condanna all’inazione gli avrebbe totalmente limitato il campo di movimento. Fu quasi tentato di abbandonare la partita e cominciò a trasparire nel suo parlare un vago accenno di nervosismo. Si rivolgeva alternativamente alle due ragazze, chiedendo a Catherine notizie dei colleghi cattedratici incontrati a Lyon e a Greta delle condizioni del padre e delle reazioni a freddo seguite alla bravata del giorno prima. Si divertì molto a leggere la lettera ufficiale di scuse che il caro Fuchs aveva preparato per giustificarsi con tutti gli invitati, prendendo per buono il luogo comune dell’eccentricità degli artisti.
– “Quante storie! L’ eccentricità serve solo a mascherare l’incapacità. E’ mettere in evidenza con ferocia un’ apparenza greve ed imprescindibile perché nessuno si dedichi ad
esaminare il deficit della sostanza. Così si crea un personaggio fittizio del quale si rimane prigionieri e dietro al quale l’Io creatore prima si nasconde pudicamente e poi si perde
definitivamente.”
– “Eppure, maestro, l’apparenza ha la sua importanza! Proprio tu a Lyon sostenesti che la bellezza del tempio ha la missione di avvicinare l’anima orante al Creatore, cosa che
certe chiese contemporanee, simili a bunker di cemento armato, non riescono a fare”- obiettò Catherine.
– “Non confondere la bellezza sostanziale” -rispose Pierre- “che è una prerogativa del divino riposta nell’opera d’arte, con la vuota esteriorità di certi atteggiamenti dell’ “artista”. La prima è esaltazione dello spirito, la seconda un triste cedimento alla materialità senz’anima.”
– “Non mi dirai che non consideri valide l’esperienza punk, il futurismo ed in generale tutte le forme artistiche di protesta?” – lo provocò Carlos.
– “Devo risponderti?”
– “No, credo di no, del resto sappiamo tutti il reazionario che sei!”
– “E tu che ci fai con lui?”- gli chiese Catherine.
– “Mi ha dato la sua parola per gioco e tiene talmente alla propria parola che in suo nome è disposto a rovinarsi la vita sopportandomi per un certo periodo.”- rise di gusto Pierre.
Ma Carlos si fece più serio e disse:
– “No, in realtà mi è successa una cosa strana nella mia prima notte di lavoro, in cattedrale, e voglio saperne di più, perché mi incuriosisce.”
– “E speri da me la risposta?”- chiese Pierre.
– “Perché no? La verità può raggiungere l’individuo servendosi del nobile o dell’ignobile.”
– “Ed in quale categoria rientrerei io?”
– “Devo risponderti?”
Risero di nuovo di gusto. Era incredibile come Pierre, da sempre superbo e sdegnoso, accettasse di buon grado l’insolenza di Carlos ed anzi la trovasse divertente! Invitò le due ragazze a fargli compagnia per l’intera giornata – “e forse anche oltre” – e smorzò la tensione tra le due rivali che parevano sempre pronte a strapparsi gli occhi: Greta era molto interessata all’orario di partenza per la Francia di Catherine e rimase molto delusa venendo a sapere che questa contava trattenersi, l’altra si disse sicura del fatto che Greta avesse molti impegni improrogabili nella giornata e fece un sorriso tiratissimo quando la rivale li annullò tutti per stare con il maestro.
Decisero un programma di massima della giornata, in cui trovarono spazio anche una gita turistico-enologica in alcuni locali caratteristici della città e la stesura della relazione per l’infermo Fuchs. Ma Carlos richiamò l’attenzione del maestro:
– “Dimentichi nulla?”
– “No, certo, la mia parola non vale meno della tua. Il nostro primo impegno sarà una visita agli amici artisti che “convivono” con Carlos. Questa sera poi, cena al ristorante:
sto pensando, se Carlos è d’accordo, di scegliermi un secondo assistente, forse una ragazza. Del resto, novità per novità, tanto vale esagerare e scegliere una persona che possa
stemperare con la sua dolcezza e sensualità l’impertinenza del nostro caro amico rivoluzionario. D’accordo Carlos?”
– “D’accordissimo, maestro” – rispose fissando con intenzione Catherine.
Greta colse questo sguardo e si sentì offesa e sconfitta.
Non era questo che Pierre voleva: il gioco era ora più chiaro nella sua mente. Voleva vedere fino a che punto l’orgoglio delle due rivali avrebbe potuto determinarne i comportamenti: per questo aveva bisogno di una lotta in condizioni di parità.
– “Naturalmente la scelta sarà fatta esclusivamente da me: in questo, Carlos, non hai capitolo.”
– “Sarà una di noi due?” – chiese Greta con una nuova luce negli occhi.
– “Può darsi, nulla è sicuro, vedremo prima di questa notte. Andiamo ora, perché si fa tardi.”
Presero un taxi e con sincera o falsa allegria, a seconda del ruolo che giocavano nella situazione, si diressero verso il ponte sul Rhein dal quale tante novità erano arrivate nella vita di Pierre.
Il maestro pensava con intensità al proprio disagio e ne cercava le ragioni con addolorata perplessità. Perché non poteva divertirsi con la stessa spensieratezza della notte precedente? Era il peso dell’accaduto ad Herr Fuchs? Era paura?
Ebbe poi ad annotare quella sera stessa sul taccuino:
“Oggi nel taxi, ancora ignaro di quanto sarebbe di lì a poco accaduto, mentre lo sguardo si perdeva a fissare il movimento disordinato dei veicoli e dei pedoni e le mie orecchie erano infastidite dal rombo dei motori, dai clasters dei clacson e dalle chiacchiere vuote dei passeggeri del taxi e dei turisti in gruppo per la strada, ho avuto un’intuizione riguardo al mio disagio, o meglio ho avuto un ricordo illuminante, perché è evidente che la verità che cerco è già in me come una linfa che mi percorre e nutre senza che io ne sia cosciente. Questo ricordo ha preso i contorni di un volto a me caro già nella sua giovanile espressione, prima che il dolore profondo per la morte dell’adorata compagna ne trasformasse radicalmente l’esistenza aprendogli la strada al perdono ed alla morte: era il volto di Miguel, caro compagno di strada per un lungo tratto, il più bello e vero della nostra storia comune. Ricordo bene la sua altezzosa prosopopea, forte della propria giovane dissolutezza:
“Ho sofferto, ho sofferto molto. L’angoscia mi ha fatto cenno,
la gelosia mi ha parlato all’orecchio, la pietà mi ha preso alla
gola. Anzi, questi furono i meno bugiardi dei miei piaceri.”
E poi quel motto degno di essere inciso sulla porta del più oscuro degli antri:
– “Sappiate dunque che non ha mai commesso un atto
veramente ignobile chi non ha pianto sulla sua vittima.”
( Oscar Vladislas Milosz: “Miguel Mañara”: primo quadro- traduzione Mimmi Cassola Ed. Jaca Book 1977)
In quel taxi ho così pensato: “E’ questo, dunque! Sento, come il mio amico, l’impeto feroce della scelleratezza ed il dolce tarlo della compassione incute nello stesso tempo in me ansie e dubbi che minano la mia vena da “burlador”, negandomi sia l’irresponsabilità di Don Giovanni che la predisposizione alla santità di fra’ Miguel. Che mi sta accadendo? Sto ribellandomi al mio destino e dopo tanta attesa rischio di rovinare tutto per meschina impazienza? No, devo fermarmi finché sono in tempo! Non posso certo tornare indietro, non posso negare l’irrevocabilità dei fatti, ma posso arrestare la corsa verso l’ignoto, che ora mi spaventa perché si è fatta cosciente e mi appare in tutta la propria vacuità. Questa vertigine può distruggermi!”
Avrei voluto semplicemente continuare il gioco come un bambino: senza derisione, senza ironia, con pura gioia infantile, badando a non ferire nessuno perché io non ho mai cercato la scelleratezza, bensì la pace, e, se c’è in me una remota possibilità di accorciare il mio purgatorio in terra, non voglio certo sciuparla per un gioco banale e nemmeno molto divertente. Ho sempre desiderato che la pietà prendesse il sopravvento e che le mie mani diventassero come quelle di Miguel, capaci di guarire uno storpio e sanare un cieco. Ora è deciso: devo cambiare nuovamente identità e storia e succedere nuovamente a me stesso! Sto legandomi troppo alla contingenza, recitando troppo la parte dell’umano che nessuno ha scritto per me. Che illusione posso ancora nutrire in cuore? I grandi e piccoli cambiamenti di queste ultime ore giustificano una nuova speranza? Fuggire: non mi resta che questo, ancora una volta! Aprire un nuovo conto bancario con una nuova identità, trasferirvi tutto il mio denaro, scrivere lettere di accredito per il nuovo me stesso, cambiare paese, o meglio continente. Cambiare! Che ironia essere costretto a cambiare mentre nella mia esistenza nulla cambia.”
Il taxi giunse a destinazione troppo velocemente per Pierre, che sentiva il bisogno di riordinare ancora un po’ i propri pensieri, e si arrestò lungo il Rhein ad una certa distanza dalla “casa” di Carlos. I componenti della comitiva scesero e percorsero il cammino fino al ponte in modo ridanciano, tranne Carlos:
– “Ma dove ci hai portati?”- chiese Catherine, meravigliandosi che quella bruttura fosse davvero la meta del loro breve viaggio.
Carlos invece camminava con il volto duro, fiutando l’aria, e gelò subito la finta allegria delle ragazze dicendo:
– “E’ successo qualcosa, maledetti!! Maledetti!!” – e prese a correre in direzione della parte sottostante all’arcata del ponte, laddove stavano le povere cose dei suoi amici e le sue.
Giunto a pochi metri dal luogo si arrestò e chiamò ad alta voce:
– “Hans-Peter, maledetto bastardo !”
Due energumeni stavano al centro dell’area, camminando sfaccendatamente con una lattina di birra in una mano ed una sigaretta nell’altra: non facevano parte del gruppo di Carlos; avevano la testa completamente rasata con orecchini in entrambi i lobi e giubbotti di pelle senza maniche che lasciavano liberi i lugubri tatuaggi che marchiavano la loro pelle con croci celtiche e simboli d’odio. Alla vita avevano una catena di metallo ed ai piedi pesanti stivali da combattimento. Il più giovane teneva al guinzaglio un cane dallo sguardo feroce. Al richiamo di Carlos quello che doveva essere il capo si voltò con lo sguardo annebbiato dall’alcool.
– “Guarda chi c’è: il piccolo cane comunista! Ti abbiamo tanto cercato. Dov’eri finito? Ti sei perso tutto il divertimento!”
– “Cos’avete fatto, disgraziati?”
– “Ehi, che paroloni! Lei, cittadino Lebensfreund, sta offendendo un milite del presidio anti-immigrazione e delinquenza. Sta commettendo un reato, lo sa?”
– “Il reato più grande lo ha commesso tua madre partorendoti, essere immondo!”
Lo sguardo del giovane rasato si fece per un attimo violento: un lampo d’ira gli attraversò gli occhi. Poi guardò il compagno e, conscio della sua posizione di forza, trattenendo a stento il cane, che, sentendo l’ira del padrone, aveva preso ad abbaiare furiosamente, riprese il controllo di sé e la facile ironia di chi, armato, si trova ad affrontare l’inerme. Il compagno, intanto, estrasse dalle tasche del giubbotto un piccolo arsenale di tirapugni e barre di ferro al fine di scoraggiare qualunque tentativo d’offensiva da parte di Carlos.
– “Potrei arrabbiarmi, lo sai?”
– “Cos’hai fatto ai miei amici?”
– “Io? Nulla! Sono stati i cittadini a fare finalmente piazza pulita di quella feccia squallida e sporca che deturpava la nostra città. Sono stati dispersi ed incoraggiati a non rimettere mai più piede in questo posto. Ma vedo che tu sei scappato al momento giusto! Che bel vestito elegante che indossi, dove lo hai rubato?”
Fu talmente veloce il movimento di Carlos che il rivale non ebbe il tempo nemmeno di accorgersi di quello che stava accadendo: sentì un colpo violentissimo alla fronte ed il sangue scorrere abbondante sulla guancia. Capì che gli aveva tirato una pietra perché se la trovò ai piedi, macchiata del suo stesso sangue. Nel portarsi le mani alla fronte, liberò il cane che, con un balzo, assalì Carlos mirando al collo. Carlos riuscì con un gesto della mano a deviarne la furia, sicché i denti della belva penetrarono a fondo nel braccio. Fu una successione di pochi secondi : le urla delle ragazze accompagnarono gli assalti ripetuti del pitbull che ad ogni attacco strappava brani di carne dal sempre più debole avversario. Nel frattempo una furia umana piombò alle spalle della coppia di neo-nazisti: Pierre colpì l’uomo del tirapugni con una violentissima bastonata alla nuca, inferse quindi un tremendo calcio nel ventre al compagno ferito e, sempre con il bastone, sfondò il cranio del cane.
– “Potevi aspettare ancora un po’ ad intervenire”- gli disse Carlos, cercando disperatamente di resistere al torpore che si impadroniva del suo corpo ferito.
– “Questa frase l’ho già sentita! Ora cerca di non morire che ti portiamo all’ospedale.”
– “No. Gli altri, gli altri, cercate i miei compagni…”
– “Ci penseremo dopo! Ragazze, invece di piangere, datemi una mano, sta perdendo troppo sangue!”
Lo fasciarono stretto e chiamarono un’ambulanza con il telefono cellulare di Greta. Fu a questo punto che si ricordarono dei due teppisti: Pierre andò verso di loro per controllarne le condizioni, ma del capo rimaneva solo una lunga traccia di sangue sui sassi della galleria.
– “Diavolo, è scappato! Bisognerebbe riprenderlo!”
L’altro era ancora lì dove era stato abbattuto dal colpo di Pierre. Pierre si chinò su di lui e, dopo un istante si ritrasse inorridito.
– “Dio, Dio mio, perdono!”- e portò le mani al viso, come per nascondersi all’orrore del fatto commesso. Le ragazze trattennero il fiato, aspettando un impossibile avvenimento che cancellasse l’ineluttabilità della morte da quel luogo.
Da terra si udì la voce fioca di Carlos:
– “Andiamo via presto, non ci devono trovare.”
– “Ma tu sei pazzo, hai bisogno di cure immediate!”
– “Dobbiamo correre il rischio! Suo padre è un poliziotto, uno che conta!”
Compresero subito la gravità della situazione: occorreva scappare, ma come? Pierre gridò qualcosa alle ragazze ed insieme fecero quello che mai più avrebbero pensato di fare in vita loro: presero il corpo del povero giovane e lo nascosero, coprendolo con un cumulo di masserizie. Forse non lo avrebbero trovato subito e questo avrebbe dato loro un po’ di vantaggio! Poi attesero con ansia crescente che l’aria fosse squarciata dal suono della sirena dell’ambulanza. Finsero di non conoscersi tra loro e spiegarono che il giovane era stato aggredito da un cane randagio mentre passeggiava lungo il fiume, che loro erano intervenuti in suo soccorso ed avevano dovuto abbattere la belva, poi, senza più guardarsi negli occhi e, senza ben sapere cosa fare, si divisero, dandosi appuntamento all’hotel: Greta salì sull’ambulanza con Carlos, mentre Pierre e Catherine, su richiesta del ferito, raccolsero le sue poche cose, soprattutto un cartone pieno di fogli scritti cui sembrava tener molto, e presero un taxi diretti all’albergo. La loro vita era a una svolta, nulla sarebbe mai più stato come prima: erano complici di un omicidio con l’aggravante dell’occultamento del cadavere. Per di più c’era un testimone: il giovane fuggito, che, se forse non era in grado di individuare Pierre e le ragazze, conosceva però benissimo Carlos e lo avrebbe potuto denunciare. Era una corsa contro il tempo. La fortuna li aiutò perché il testimone fuggito, appena ripresosi dai colpi subiti, non si era recato subito alla polizia o all’ospedale, bensì nella sede del proprio gruppo politico per organizzare una rapida spedizione punitiva contro i nemici. Qui era stato medicato dai compagni stessi, abituati a non ricorrere alle cure mediche “ufficiali” dopo le numerose risse in cui erano coinvolti. Stava per iniziare una caccia all’uomo d’una violenza senza precedenti.
“Come è potuto succedere? Questo non rientra nei piani, questo è folle e soprattutto appartiene in tutto e per tutto ad un mondo che non è il mio! Dio non può avermi fatto sopravvivere fino ad oggi perché io mi macchiassi di un simile delitto davanti al quale impallidisce persino il mio atto contro Violaine, molto tempo fa! Non può essere, sto sognando! So di non aver voluto uccidere, questo lo so bene, ma so anche di aver usato tutta la mia forza contro quel povero ragazzo, ne sarebbe bastata molta meno… molta meno! Cosa ha mosso le mie mani? Ancora una volta il male è passato attraverso di me, si è servito di me? Ah, potessi tornare indietro!.. Carlos era in pericolo: se non fossi intervenuto, quella belva gli avrebbe spappolato il braccio e poi reciso la giugulare: questi pitbull sono allenati per questo, sono macchine per uccidere….come me! Ho ucciso con sistematicità, senza odiare la vittima, anzi compatendola per la stupida vanità del suo pensiero e per la sua violenza da vigliacchi, una violenza da debole, da sconfitto. Come ha potuto questa violenza, questa negatività propagarsi alle mie mani, che hanno colpito con troppa forza? Il caso (ma esiste dunque il caso?) mi ha fatto trovare alle spalle dei due ragazzi, mi ha fatto scendere per il lato opposto a Carlos, e quindi mi ha costretto a farmi largo tra loro per raggiungere la belva omicida. Tu hai voluto questo? Hai voluto che io uccidessi per dannarmi per sempre? Ora sono maledetto: l’anima della mia vittima mi perseguiterà in eterno! Non volevo, non volevo… Dio mio, pietà di me!”
Pierre si lasciò andare al più disperato degli sconforti, pregando e bestemmiando allo stesso tempo, assolvendosi e condannandosi senza requie. Non era possibile per lui concepire un gesto senza responsabilità dell’attore: era follia per il suo pensiero, quale si era nei secoli formato e cristallizzato in questa lunga attesa piena di dubbi e certezze. Dunque era responsabile dell’omicidio, non c’era nessuna considerazione di preterintenzionalità o di legittima difesa in grado di placare la furia autodistruttiva che si era impadronita di lui.
– “Tu non volevi, Pierre, è accaduto: come un incidente stradale dovuto all’imprudenza dell’investito; la tua colpa è stata solo quella di essere là e di intervenire per salvare un amico.”
La voce calma di Catherine e il suo idioma natale gli dettero un piccolo conforto, come un’antica ninnananna: era la voce della madre che lo raggiungeva da distanze incalcolabili. Pianse.
La mano di lei osò per la prima volta posarsi sui suoi bei capelli fini e lo accarezzò con la dolcezza di una femminilità non più frustrata dal rifiuto, ma felice di poter essere necessaria, nel momento di maggior debolezza del maestro.
La ragazza soffocava la paura e l’incertezza riponendole in uno scrigno segreto della propria anima, da cui non sarebbero usciti se non quando lei glielo avesse permesso: ora non era tempo! La forza della rimozione operava potente in questa giovane studentessa universitaria, non molto avvenente fisicamente, ma in qualche modo interessante e sicuramente profonda ed intelligente.
Lo prese tra le braccia e lo fece piangere su quello stesso seno che qualche tempo prima gli aveva vergognosamente esibito nel piccolo appartamento del quartiere arabo di rue de Colomès: non osava confessarlo a se stessa, ma era in qualche modo grata agli avvenimenti tragici di quella mattina, perché grazie a loro stava godendo di un’intimità impensata con Pierre.
Egli però era lontano: tutto preso dal suo dolore e dal rimorso. Ripensava al gesto del suo braccio, al colpo inferto senza pensare, in qualche modo involontario, ma non per la sua coscienza, davanti al cui tribunale giaceva prostrato e sconfitto, attendendone l’inevitabile condanna.
– ” Non ha commesso un atto veramente ignobile chi non ha pianto sulla sua vittima. Ignobile…come il mio essere superbo e sdegnoso! Ignobile ed omicida!”
Giunti all’albergo ritirarono le chiavi senza nemmeno accorgersi dell’occhiata stupidamente complice che rivolse loro il receptionist. Doveva sicuramente nutrire a modo suo grande ammirazione per il maestro, che aveva un traffico non indifferente di ospiti graziose in camera sua. Pierre gli comunicò l’ intenzione di lasciare l’albergo all’indomani.
Poi, nascondendo a tutti la sua sofferenza dietro il fragile schermo di un sorriso di circostanza, salì in camera con Catherine. Ironia della vita! Catherine era sola con lui, ma era come se lui non fosse là. Quante volte aveva sognato di fare un viaggio con Pierre, non importa se come amante o semplice compagna, condividendo i gesti di una normale quotidianità. Ed ora, che aveva fatto tanta strada inseguendo questo sogno, un evento imprevisto aveva distrutto ogni possibilità e reso entrambi assenti, vittime di un gesto potente, di un Fatto che non si poteva negare, né rimuovere.
Era accaduto ed era come una pietra sul loro presente che rendeva vuoto ogni pensiero, fuori posto anche una sola carezza, un solo gesto di affetto. Catherine sentiva per ora di dovergli restare accanto, perché lui si potesse appoggiare alla sua dolcezza: pertanto, senza nemmeno chiederglielo, si dispose ad aiutarlo nei preparativi della partenza, dando per scontato che l’avrebbe seguito dovunque avesse deciso di andare. Poi, sopraggiunto l’oblio che il tempo sparge con tanta dolcezza sulle miserie umane, i toni si sarebbero smorzati, e, forse, avrebbe potuto riprendere la propria vita tornando, sola, a Lyon. L’avvenimento che aveva segnato quella giornata aveva eretto un muro tra loro due: la sola presenza di Catherine avrebbe da quel momento in poi ricordato a Pierre quei momenti di angoscia; portava quel dolore inciso sulla fronte e sulle mani, come stigmate di una fragilità vinta da un volere superiore, di un’impossibilità. Ciò che lei però non poteva sospettare era la condizione di Pierre di assoluta indipendenza dal tempo e dai suoi effetti: a lui non sarebbe stata concessa mai la grazia dell’oblio, né del perdono. Lui non avrebbe potuto dimenticare!
Su questo egli rifletteva, tormentandosi e accrescendo i propri spasimi interiori, che si manifestavano anche esteriormente con scatti nervosi del braccio, uno stropiccio continuo delle mani ed un lieve tremito di tutto il corpo, come se si fosse impadronito di lui un freddo glaciale, un gelo dell’anima. Si muoveva come un automa, senza rivolgerle la parola, godendo fino in fondo della sua presenza confortante e silenziosa; cercava di raccogliere tutto il necessario per la partenza, ma non riusciva a conservare quel minimo di concentrazione necessaria e, appena si muoveva in direzione di un oggetto, subito scordava perché si fosse mosso e cosa desiderasse fare, sicché vagava per la stanza senza combinare nulla. Il rimorso del delitto si univa alla preoccupazione per l’amico ferito, per la sua guarigione e per la sua incolumità futura, perché era evidente che non poteva pensare di lasciarlo a Köln, esposto alla vendetta di quel gruppuscolo razzista. Toccava a lui provvedere: non solo era responsabile del gesto omicida, ma anche di aver coinvolto in esso l’amico.
Amico? Nella propria mente lo aveva già chiamato due volte così in pochi secondi!
Come era cambiato, Pierre! Lui non aveva mai avuto che conoscenze superficiali! Che cosa ora lo spingeva a considerare questo clochard rivoluzionario, questo idealista sconfitto, come degno di ciò che lui non aveva mai concesso a nessun essere umano: la sua fiducia, la sua stima, il suo affetto sincero, la sua amicizia?
Catherine aveva ripreso a parlare. Era un lungo monologo in cui riaffermava in varie maniere, tutte splendidamente razionali, l’innocenza di Pierre e l’ineluttabilità del fatto. Avrebbe forse preferito dover piangere sul cadavere di Carlos? La legittima difesa non era peccato né per Dio, né per gli uomini e lui non doveva considerarsi un assassino bensì un eroe che aveva salvato un amico da morte certa. Quante di queste parole raggiungevano le orecchie ed il cuore di Pierre? Egli si dibatteva furiosamente tra due opposti pensieri e due opposte necessità senza poter risolvere nulla, senza trovare nemmeno una soluzione pratica alla loro situazione; la voce di Catherine era per lui solo come una ninnananna nel dolcissimo idioma natale, come un sottofondo lontano ai suoi pensieri che lo stimolava ancor più ad allontanarsi con la mente perché non gli richiedeva risposte, nemmeno monosillabi o cenni di assenso o dissenso: era una melodia fine a se stessa e per questo potentemente sacra. Solo quando Catherine tacque per un lungo istante, egli riprese contatto con la sua fisicità e constatò con un sorriso doloroso il reiterarsi del gesto coatto con cui si tormentava le mani.
– “Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from
my hand? No, this my hand will rather the multitudinous
seas incarnadine, making the green one red!”
( L’oceano intero di Nettuno potrà lavare il sangue delle mie mani o saranno esse a mutare il verde degli oceani in una sola immensa macchia scarlatta?)
– “E’ Shakespeare, vero?”
– “Brava, conosci Macbeth?”
– “Abbastanza per dire che tu non hai nulla a che fare con lui, Pierre, nessuna volontà nemica ti sovrasta, nessuna passione umana ti domina. Tu sei “innocente”, mi comprendi?”
Di colpo il viso di Pierre si illuminò:
– “Ecco la soluzione! Amsterdam!”
– “Come?”
L’energia vitale tornò a fluire potente in lui:
– “Questa è l’idea giusta! Mi avevano invitato ad andare ad Amsterdam ed avevo rifiutato. Potremmo andare laggiù. Dirò al mio committente che desidero andarci in modo ufficioso, senza televisione, né giornali. Credo che accetteranno questa condizione: desideravano molto una mia consulenza, anche se non ricordo più perché. Passeremo laggiù un po’ di tempo e studieremo il da farsi. Per il momento, però, dovremo rischiare e trattenerci qui fino alla guarigione di Carlos!”
– “Prenderà molto tempo!”
– “Non c’è altro modo. Rischieremo!”
– “Allora non partiamo più?”
– “Non per il momento!”
Suonò il telefono e Pierre attese un attimo prima di rispondere, come se cercasse la forza per affrontare sia l’ineluttabilità di una brutta notizia, sia la gioia di una buona.
Alzò il ricevitore e si mise a parlare in tedesco. Il suo viso si rischiarò subito e da questo Catherine comprese che era qualcosa di positivo. Osò domandare, ma Pierre gli fece segno di attendere un attimo.
Era Greta, di sicuro. Che strano, Catherine non sentiva più tanta ostilità verso la rivale, come se la loro stupida gelosia avesse perso senso davanti alla gravità degli ultimi avvenimenti; o forse perché sapeva già fin troppo bene che presto avrebbe lasciato Pierre per sempre. Comunque la rallegrò il pensiero che Greta non sarebbe certamente partita per Amsterdam con loro: doveva accudire il padre malato, aveva gli studi da seguire, sicuramente molti altri impedimenti. Avrebbe fatto lei da infermiera a Carlos e da psicologa a Pierre e li avrebbe amati in silenzio, come una sorella o forse qualcosa di più, chissà!
Pierre posò la cornetta e le disse subito:
– “Sta meglio, molto meglio. Lo hanno curato, ma occorrerà un intervento chirurgico ricostruttivo per il quale bisogna aspettare alcuni giorni perché l’infiammazione diminuisca.
Ovviamente ha rifiutato il ricovero, facendosi passare per un turista spagnolo che vuol essere curato in patria; lo faccio operare ad Amsterdam: i dottori hanno detto che può sostenere la fatica di un viaggio, purché sia fatto in ambulanza, per sicurezza. Ora organizzo tutto: partiamo domani!”
Catherine sorrise nel vederlo rincuorato. Adesso, almeno, l’unica preoccupazione era quella di lasciare al più presto la città senza incappare né nel gruppo neonazista né nella polizia. La foga di organizzare tutto in così poco tempo distolse per qualche minuto Pierre dal rimorso dell’atto commesso poco prima sotto quel maledetto ponte: chiamò Amsterdam, parlò a lungo con i suoi committenti, sorpresissimi che lui volesse accettare dopo un rifiuto tanto netto; avevano già dato l’incarico ad un altro, ma dissero che, se lui avesse voluto soprintendere al lavoro, sarebbe stato un onore per la città. Gli misero a disposizione una casa sufficientemente grande per ospitare anche i suoi assistenti e si preoccuparono di inviare loro stessi un’autoambulanza per il trasferimento dell’assistente ferito. Furono talmente amabili e disponibili da suggerire anche il nome del chirurgo e la migliore clinica in cui ricoverarlo. Dopo la telefonata, Pierre si sentì più sollevato e lieto di aver trovato una buona soluzione per l’immediato.
– “Per fortuna sembra che non abbiano ancora trovato il cadavere. Ciononostante, ha detto Greta che hanno avuto molti problemi al pronto soccorso: innanzitutto, Carlos non aveva documenti con sé. Questa è stata, se vogliamo, una circostanza positiva, perché ne ha approfittato per dare un nome falso. Greta invece ha dovuto testimoniare e lasciare i dati anagrafici: questo complica un po’ le cose. Sembra che il poliziotto di stanza all’ospedale abbia fatto moltissime domande sul cane ed abbia detto che farà fare indagini per risalire al proprietario, siccome, benché fosse sprovvisto di medaglietta, secondo i suoi colleghi che sono stati al ponte, non sembrava assolutamente un cane randagio. Le ha chiesto anche informazioni su di noi, ma lei ha negato di conoscerci.
Insomma, la situazione è molto ingarbugliata e rischia di complicarsi ulteriormente: dobbiamo andarcene al più presto da qui.”
– “Cosa fanno Carlos e Greta, adesso? Vengono qui?”
– “Ovvio, dove vuoi che vadano? Greta non può portarlo a casa sua!”
– “E se un poliziotto li seguisse fino qui e risalissero a noi, specialmente quando troveranno il cadavere?”
– “E’ un rischio che dobbiamo correre. Conoscono l’indirizzo di Greta ed è il primo posto nel quale andranno a cercare Carlos.”
– “Ma lei alla polizia ha detto di non conoscerlo, ma di averlo solo soccorso.”
– “Si allontaneranno insieme dall’ospedale e li vedranno in molti. Meglio che vengano qui: Carlos non è nemmeno registrato in albergo, la sua camera è a mio nome ed ho ritirato io la chiave. Aspetta, però!”
Chiamò rapidamente Greta sul telefono portatile.
– “Greta, sono io. Bisogna che nessuno veda Carlos entrare nell’albergo: mando Catherine a prendere la chiave della sua camera; voi venite direttamente in camera mia; coprigli il braccio in modo che non si veda la ferita: chi lo cerca potrebbe fare molte domande al receptionist. Bene! Vi aspetto!”
Catherine, rapidamente, scese a recuperare le chiavi dell’amico e, per sviare ancor più le indagini, si presentò alla reception come assistente del maestro e disse che avrebbe passato la notte lei in quella camera. Il receptionist, neppure lontanamente immaginando la realtà dei fatti, sorrise ammiccandole, pensando fosse la solita bugia che raccontano le coppie irregolari quando, per salvare le apparenze e coprire di un ben fragile velo la scappatella in atto, pagano una seconda camera in albergo, destinata a rimanere tristemente disabitata. Catherine confermò anche la partenza dell’indomani e poi tornò in camera da Pierre. Lui nel frattempo era completamente rientrato in possesso della propria abituale sicurezza ed energia: se avesse dovuto pensare a salvar se stesso, forse, non si sarebbe dato tanta pena come quella che stava affrontando per salvare i suoi ragazzi! A lui sarebbe bastato andarsene lontano e ricominciare sotto una nuova identità: quante volte già lo aveva fatto per sfuggire a situazioni difficili!
Ora guardava dalla finestra con fare impaziente, cercando di immaginare tutti i possibili errori da non commettere. Era nuovo per lui trovarsi ad avere a che fare con la polizia: quante erano ormai le novità nella sua vita! Doveva prevedere ogni eventualità, dominare il futuro e piegarlo ad una logica di giustizia e misericordia. Per quel povero ragazzo il cui cadavere giaceva nascosto sotto un ponte sul Rhein, c’era ormai ben poco da fare: ma della sua morte lui e lui solo era colpevole. Doveva salvare i ragazzi e condurli lontano, assicurando loro un avvenire: del resto aveva i mezzi per farlo.
L’idea della scuola gli venne di colpo e gli piacque subito: avrebbe fondato, forse proprio ad Amsterdam, una scuola di perfezionamento d’architettura che lui avrebbe solo inizialmente frequentato, tenendo brevi corsi intensivi; le ragazze si sarebbero occupate di gestirla in seguito e di diffondere il suo insegnamento ai giovani che volessero intraprendere il suo difficile mestiere.
E per Carlos? In questo momento non gli veniva in mente nulla di fattibile o che potesse essere accettato dal suo “assistente”. Inoltre, a voler ben considerare, tra le due ragazze non fluiva certo una corrente di simpatia, tutt’altro: difficile pensare che potessero collaborare. Mah, ora occorreva pensare al presente: c’era tempo per i progetti a lungo termine!
Un raggio di sole, dalla finestra della stanza, lo colpì sul viso ferendogli gli occhi ed egli sedette sulla poltrona, improvvisamente raggiunto da un pensiero che gli scopriva orizzonti impensati. Il fatto orribile di qualche ora prima, l’evento drammatico ed ineludibile che l’aveva assimilato alla genìa di Caino, l’aveva reso padre.
Lui, al quale non era concesso accostarsi ad una donna, lui che aveva nel sangue in forma latente e feroce la maledizione della colpa, la lebbra con cui Dio l’aveva marchiato senza finirlo, era divenuto padre di tre ragazzi dei quali si stava preoccupando con cura amorosa e dai quali non poteva pensare di separarsi. Anche per questo parto era stato necessario il sangue! Pensò alla vocazione di Abramo e di come la potenza del divino si affermasse proprio attraverso l’elezione degli impossibilitati:
– “La debolezza dell’uomo è potenza di Dio!”
Si sentì confuso e stanco, incapace di seguire questo pensiero e di prevedere come avrebbe potuto gestire tutte queste novità, questi lampi di originalità che squarciavano la sua sopravvivenza, le sue regole, le sue consuetudini, le sue menzogne e le sue fughe. Non voleva illudersi che questi cambiamenti preludessero in un certo modo alla liberazione e cercava di resistere alla tentazione di credere ancora una volta che gli fosse stato posto un termine, per quanto dilatato. Il viso si riempì di lacrime e gli occhi, pudicamente, smisero di fissare il sole malato di Köln e si abbassarono verso il grembo. Gli parve, solo per un istante, di vedere le vene delle mani più evidenti e la pelle meno fresca, ma, vinto da uno strano torpore, non riuscì a farci caso. Chiuse gli occhi e si addormentò.
FINE QUINTA PUNTATA
(Ci scusiamo con i lettori ma a causa di un problema redazionale la prossima puntata uscirà solo Sabato 3 Giugno )
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