L’inconsapevole trinità: seconda Puntata del romanzo di Marcello Lippi. Qui il link della prima puntata
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PREFAZIONE
Scritto durante gli anni di permanenza in Cile dell’autore, questo romanzo racconta una storia affascinante e piena di colpi di scena, in cui agiscono fianco a fianco, secondo quella che è l’assoluta normalità nei paesi del Sudamerica uomini e spiriti, ninfe e personaggi letterari, tutti vivi di un’unica vita che da queste pagine prende corpo e significato. La vera protagonista è una donna, o meglio una creatura leggendaria della letteratura cilena, Osilas, la ninfa che oscilla (donde il nome) tra due mondi e che coinvolge, guida, illumina la vita dei protagonisti maschili. La sua voce è talmente potente e meravigliosa da muovere le onde del mare, il suo operare è benefico e potente per la vita di chi la incontra, siano esseri umani o personaggi letterari resi immortali dalla loro condizione e desiderosi invece di umanità. Il simbolo, il segno, le dimensioni dell’essere. La cattedrale nell’oceano è il racconto di tre vite, o non-vite, alla ricerca del significato del mondo: la prima attraverso la negazione della casualità e l’interpretazione estrema del reale come segno, la seconda attraverso la conflittualità dell’amore non corrisposto, la terza attraverso l’abbandono confidente ad un reale che supera i confini della normalità e ragionevolezza. Tre vite che si intersecano: quella di Pierre de Craon protagonista della pièce di Paul Claudel L’annonce faite à Marie , condannato per un gesto maldestro di violenza ai danni della giovane Violaine a peregrinare in eterno per il mondo con una lieve, ma contagiosa, forma di lebbra in corpo. Immortale perché personaggio di teatro, ma reale, più reale di altri personaggi, nella sua avventura fascinosa e ricca di sorprese, nel suo girovagare attraverso i secoli, maledicendo Dio per la punizione che gli ha inflitto, negandogli anche la redenzione, perché un reale tanto evidente nega la possibilità salvifica della fede; quella di un critico teatrale che, alle prese con un evento imprevisto e destabilizzante, il ritrovamento di una ragazza morente per overdose, si lascia coinvolgere, pensando a questo incontro come ad uno squarcio che deve spezzare la sua vita di prima e creare i presupposti per una nuova, nella quale gli si possibile intuire la ragione del suo esistere, operare ed amare; quella di un pensionato vedovo e solo che incontra uno spirito su una scogliera ed accetta di seguirne le indicazioni fino ad avere una nuova meravigliosa vita in Sudamerica accanto ad una giovane fanciulla. Cos’hanno in comune? Forse nulla, forse un mondo di sensazioni e verità che appartiene solo a loro e del quale Osilas, la creatura del mito andino che oscilla tra le due dimensioni e si coinvolge con l’esistenza di tutti e tre, possiede le chiavi. Il lettore è chiamato ad accettare in questa opera non solo l’operare congiunto di creature terrene, di esseri intermedi tra la dimensione della materia e quella dello spirito e di personaggi di teatro umanizzati, ma anche che i personaggi di una storia corrispondano a quelli dell’altra, che un personaggio possa essere nel contempo morto e vivo in uno sdoppiamento che trova le sue ragioni nel suo essere fortemente angelico e nel contempo simbolico.
Redazione Cultura
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L’inconsapevole trinità
o
La cattedrale nell’ Oceano
ROMANZO di MARCELLO LIPPI
Seconda Puntata
4
Laura. Laura e i suoi occhi profondi, neri, che ti scrutano e ti attraversano, ai quali non puoi nascondere nulla. Laura e il fuoco che le brucia dentro e la divora.
Comparve all’improvviso sulla soglia della sala d’attesa, a stento trattenuta da un infermiere, e i suoi occhi si posarono su di me. Li sentii abbattersi sul mio capo chino. Stavo contemplando la lordura delle piastrelle del pavimento, immerso in considerazioni sterili sull’insufficienza del gesto ad essere segno, se ad esso l’uomo non dà il carburante della propria adesione, della propria razionalizzazione, accettandolo e decidendo di viverlo fino in fondo con responsabilità, quando sentii i suoi occhi penetrarmi nella mente: mi sentii scrutato, vinto, condannato. Rialzai il capo quasi meccanicamente e cercai di resistere, fissando lo sguardo in quell’inferno. Non udii nemmeno la sua voce, il suo grido:
– “Cosa le hai fatto?”.
Non sentii le parole dell’infermiere che cercava invano di calmarla, forse di difendermi. Mi alzai. La fissai negli occhi, a lungo, senza sentire il dolore dei suoi pugni sul mio petto; guardavo le sue labbra tremanti di disperazione, le sue gote solcate da un fiume di lacrime…. guardavo! Solo quando i suoi occhi si distolsero dai miei per correre di là, da lei, mi resi conto di quanto era accaduto e cercai di seguirla, di spiegarmi, ma l’infermiere mi arrestò:
-“La prego, almeno lei!”
Rimasi in piedi davanti alla porta della rianimazione, immoto, quasi spettatore della mia stessa vita. Quando Alex la vide tornare, capì subito; del resto era solo questione di tempo. Quello che non capì fu la luce che vide negli occhi di lei, così differente dal fuoco che poco prima l’aveva quasi bruciato. Una calma profonda, una serenità inattesa si era impadronita di Laura e si rifletteva nei lineamenti del suo viso, ora più distesi. Tutto era compiuto.
– “Non abbiamo più nulla da fare qui: accompagnami a casa!”
Ubbidii come un automa. Non dissi nulla, nulla! Mi sembra impossibile, assurdo: mi lasciai fare ed accompagnai quella donna in silenzio per le scale, sostenendone un po’ il peso ed il dolore. Doveva avere poco più della mia età, lo leggevo da certe rughe sottili che le venavano il viso; la pelle era scura, non avrei saputo dire se naturalmente o per effetto di un’abbronzatura, e gli occhi, neri, ma di una clarità impressionante, spiccavano, sotto due righe sottili di trucco molto discrete, come due fari: ci si poteva leggere attraverso, se te lo avessero concesso.
Non le chiesi nulla; sapevo sin da quando la vidi che era sua madre: gli stessi lineamenti, la stessa gracilità, la stessa bellezza. Lei non parlò sino alla macchina.”
– “Ti prego, guida tu; non mi sento di farlo.”
Alex prese le chiavi e, dopo averla aiutata a sedere, si mise al volante.
– “Dove andiamo?”
Laura gli diede l’indirizzo e poi tacque per un tempo che ad Alessandro parve lunghissimo. Non piangeva, guardava la strada e sembrava immersa in pensieri che a volte sembravano persino lieti e le suscitavano un piccolo sorriso di tenerezza: stava sicuramente ricordando la figlia e fissando nella memoria tutto ciò che poteva, affinché il tempo non lo potesse rubare.
– “L’amavi molto?”
La sua voce di colpo mi sorprese nei miei pensieri e mi mise a disagio; non ero pronto! Era l’occasione per spiegarmi, per dirle che non sapevo nemmeno chi fosse sua figlia, che non le avevo fatto nulla, che mi ero solo imbattuto in lei mentre tornavo a casa ed avevo chiamato i soccorsi……
– “Sì, moltissimo” – risposi quasi senza pensare, sentendo subito una strana gioia entrarmi in corpo – “più di me stesso, d’un amore folle e senza limiti.”
Rassicurata dalla mia risposta, lei cominciò a parlarmi ed era come se la sua voce venisse da una parte diversa, lontana dal suo corpo.
– “Silvia è stata una figlia meravigliosa, dolcissima, una sorella, un’amica…. certo, sapevo del suo problema, ma come aiutarla a venirne fuori? Io stessa, mi vedi?, non sono riuscita a fare della mia vita nulla di accettabile, non ho saputo nemmeno darle un padre. Povero amore mio, hai pagato per colpe non tue…..tu eri innocente: totalmente innocente!”
“Silvia” ripeteva Alex nei suoi pensieri, lieto di poter dare un nome a quel viso incantevole, a quella piccola morta che era penetrata nella sua vita e se ne era impadronita.
– “La conoscevi da molto?”
– “No, solo da qualche mese!”- rispose Alex – ” Era incantevole: il suo sorriso mi dava una gioia infinita e i suoi occhi…..” disse pensando agli occhi di Laura.
– “Mi sembri un uomo a posto, non come gli altri amici di Silvia che ho conosciuto!”
– “Io l’ho amata, gli altri se ne sono serviti!”
– “Proprio così: serviti! Dunque sei tu l’uomo misterioso di cui mi aveva parlato, quello per il quale si era riproposta di smettere con quella merda che si metteva in corpo; quello per il quale non l’ho più vista da mesi”
– “Volevo sposarla!”
Alex viveva una sorta di ebbrezza: aveva sempre sognato di avere una vita alternativa ed ora aveva l’occasione di crearsene una, inventandosela di sana pianta! La fantasia forgiava la realtà…. o era lui ad essere forgiato da una realtà più grande?
– “Sposarla? Povero amico mio! Silvia era già sposata! Non te l’ha detto?”
– “No!” – rispose Alex, fingendo sorpresa ed afflizione – “E con chi?”
– “Con Massimo Lonardi, un balordo: per amor suo aveva cominciato! E’ lui che l’ha uccisa!”
– “Non importa! Anche se non mi avesse mai sposato, avrei voluto vivere con lei tutta la mia esistenza: invecchiare con lei!”
Alex sentì la mano di Laura, teneramente, accarezzargli i capelli dietro la nuca e si concentrò su quel contatto, per gustarlo fino in fondo, come se fosse Silvia e non Laura al suo fianco, come se Silvia fosse ancora viva, quella Silvia che lui non aveva fatto in tempo a conoscere. Laura intanto guardava fissamente la strada, quasi incurante della tenerezza che dalla sua mano si trasmetteva a tutto il corpo di lui. Lo carezzava come si accarezza un bambino o un cagnolino: senza dar peso al proprio gesto, lieve di una levità a lui sconosciuta.
Era appena giunto alla conclusione che un gesto, come il suo soccorrere Silvia, è pregno di significato, è illuminante, è segno di una volontà cui apparteniamo e quindi esige grevità, partecipazione, coscienza perché possa avere tutta la propria potenza, quand’ecco che un gesto ugualmente importante, capace di abbattere un muro di dolore e di diffidenza e di creare tra loro un’intimità impensabile fino ad un attimo prima, si rivelava di una leggerezza assoluta, di una naturalezza infantile e contraddiceva tutte le sue conclusioni!
Scosse la testa: in trent’anni non era stato capace di una sola intuizione poi rivelatasi almeno presumibilmente vera. Tutti i suoi studi l’avevano reso capace di sincretismi sconclusionati tra le varie opinioni di scrittori anche lontani tra loro, ma cosa era suo nel suo stesso pensiero? Laura aveva il gesto dei semplici, il gesto dell’innocente! Dopo pochi minuti trascorsi ancora nel silenzio, immersi lei nei suoi ricordi, lui nei suoi pensieri, Laura fece un secondo gesto potentissimo: posò dolcemente il capo sulla spalla di quello sconosciuto che stava guidando la sua macchina.
Lo fece senza calcolo, come se lo conoscesse da tempo e la confidenza lo rendesse normale. Parve addormentarsi.
” Sì! Ho fatto l’amore con Laura.
Era naturale, perché tutti e due lo desideravamo, nonostante le circostanze potessero renderlo mostruoso.
Tutto ciò che abbiamo detto e fatto da quando sono salito in casa sua è stato solo un inutile prolungarsi dell’attesa di quel gesto potente che ci avrebbe unito per sempre, anche se non ci fossimo mai più rivisti. L’amore, l’amore fisico tra due sconosciuti, mossi da un bisogno e non da un ragionamento, resi pura azione, pura vita. Non ricordo una sola parola di quanto ci siamo detti, eppure abbiamo parlato come se ci conoscessimo da sempre, con sincerità, con abbandono, ma solo di come eravamo dentro, delle nostre aspirazioni, dei nostri dubbi e certezze, e lei era bellissima nella sua maturità, nel suo dolore, nella sua solitudine.
Sono entrato nel suo letto senza nemmeno sapere se avrei corso il rischio di essere sorpreso da un marito o da un amante, senza sapere nulla di lei. Avevo il suo corpo, avevo le sue sensazioni più intime, ma non il suo nome, né la sua storia. L’ho amata senza pensare al suo lutto, che ora era anche un po’ mio, senza alcuna considerazione sull’opportunità, sulla moralità e liceità del mio agire, senza pensieri, libero fino in fondo di immergermi nel flusso della vita. Le ho dato tutto il mio ardore, la mia tenerezza, la mia compassione e non ho pensato un solo istante ad Anna!
Anna!!! Dove sarà ora?
Non l’avevo mai tradita ed ero sicuro che non sarebbe mai successo! Invece ora guardo il seno perfetto di una bellissima sconosciuta che dorme profondamente accanto a me, forse in pace, forse nell’oblio momentaneo di sé e del proprio dolore, e la desidero e non mi importa nulla di Anna: Anna non ha nulla a vedere con questa donna, lei è in un altro mondo, in un’altra dimensione nella quale potrei rientrare tra un attimo o non rientrare mai più.”
Alex si alzò lentamente dal letto, perché il suo movimento non disturbasse il sonno di Laura; sentiva uno strano torpore nelle membra e soprattutto nella facoltà di ragionamento, come se i confini tra il sogno e la realtà fossero svaniti ed egli oscillasse tra i due mondi con la prevalenza di uno sprofondamento nella dimensione onirica, tanto tutto era sfumato, senza contorni, indefinito. Tentò di recuperare il contatto con la realtà sensibile, con la materialità alla quale sin da bambino era stato educato ad attribuire il valore di veridicità inconfutabile: aveva bisogno di toccare, di porsi in contatto con qualcosa che eludesse la tentazione della vertigine. Nel tenue chiarore dell’alba che s’infiltrava da una fessura della tapparella, cercò un po’ a tastoni un oggetto qualsiasi che potesse svelare qualcosa non su chi fosse la sconosciuta nel letto, ma su se stesso, su quello che era diventato, ora che il legame con il proprio passato era reciso. Trovò dapprima un piccolo oggetto d’alabastro, che incontrò le sue dita dando loro una sensazione di gelo; non riuscì a sollevarlo, non poté stringerlo, solo accarezzarlo lievemente sentendo il sangue che riprendeva possesso, a poco a poco, dei suoi arti superiori.
Non distinse la forma dell’oggetto, ma non gli importò: sapeva di essere vivo e questo riaccese subitamente la coscienza e con essa il senso del tempo.
Quanto ne era passato? Ora che gli occhi si erano abituati alla poca luce, cercò con ansietà un orologio e lo vide su una mensola: un brutto oggetto finto-barocco di quelli che si trovano a poche lire sulle bancarelle dei mercati dell’usato, ma aveva una grande virtù: un quadrante fosforescente.
Di colpo realizzò che era molto in ritardo per il lavoro: che scusa raccontare al giornale? Gli sembrò naturale l’idea di sfruttare gli eventi notturni: avrebbe scritto un servizio sulla morte di Silvia, raccontando di avere passato la notte all’ospedale e tacendo il resto. Seguendo il flusso affannoso dei pensieri fece un gesto spontaneo di una gravità inaudita, un gesto che avrebbe sconvolto la sua stessa esistenza. Si impadronì furtivamente della foto di Silvia fanciulla che stava sulla credenza tra due vasi colmi di frutta finta. Se la lasciò scivolare nella tasca e si vestì in fretta e in silenzio.
Stava fuggendo?
Ed avrebbe mai rivisto Laura, se lei non si fosse svegliata in quel momento e non fosse comparsa sulla soglia della camera con gli occhi grevi di chi non avrebbe voluto ridestarsi?
– “Devo andare al lavoro.”
– “Torni ?”
– “Sì.”
La baciò sulle labbra, che gli parvero stranamente fredde, e senza dire altro corse giù per le scale verso la sua nuova vita.
Laura richiuse stancamente la porta e tornò in camera, prese un sonnifero e si rimise a dormire.
5
Francesco camminava lungo il sentiero sassoso sul quale venti anni prima posavano i binari della vecchia ferrovia, poi spostata a monte perché troppo a ridosso del mare. Amava quel sentiero, lungo il quale spesso soleva passeggiare meditabondo nelle dolci giornate di primavera e d’autunno, quando aveva la gradevole impressione di rubare all’inesorabile scorrere del tempo qualche raggio di sole quasi estivo, anticipando o prolungando il piacere intenso che gli dava la stagione più calda.
Si beava di quell’aria mai stantia, sempre in moto dal mare ai monti o viceversa, e di quella frescura marina che lo carezzava e riportava ai suoi sensi profumi lontani, insieme a ricordi dolorosi o lieti. Queste memorie erano pur sempre gradite perché gli appartenevano, o meglio appartenevano a ciò che era stato, e quindi provava un autentico piacere quando una di esse riemergeva da quel mondo ignoto dove va a nascondersi tutto ciò che dimentichiamo, pronto poi a riaffiorare quando un codice segreto, un profumo o un colore lo richiama potentemente alla vita. A Francesco piaceva inoltre entrare nelle gallerie, ormai dismesse, che ogni tanto interrompevano il sentiero e sentire quel freddo di antro e di viscere della terra che lo colpiva dopo pochi passi e gli entrava nelle ossa dandogli una sferzata, una sensazione di vita e dolore molto intensa. Il suo corpo era così richiamato ad una selvaggia libertà dal dominio della mente alla quale lui non era abituato e che gli dava ebbrezza. Più s’inoltrava, più l’umidità gli metteva voglia di affrettare il passo, quasi ad ogni istante presentisse il pericolo di ignoti aggressori celati nell’ombra, lungo le pareti, in quelle nicchie che una volta servivano di rifugio in caso d’incidente ed ora erano uno squallido deposito d’immondizie ed il regno incontrastato dei ratti. Era una sfida a questo immaginario pericolo, come al freddo stesso che lo pungeva e sicuramente avrebbe nuociuto alla sua bronchite ormai cronica, sicché ogni volta si riprometteva di percorrere il sentiero esterno alla galleria, ma, ahimè, erano propositi vani ed ogni volta sostava davanti alla bocca nera del tunnel, quasi cercasse l’energia necessaria a scansare la tentazione di entrarvi. Poi, con un sorriso di autocompiacimento, vi penetrava con il batticuore tipico del bambino che commette una marachella e, una volta dentro, gustava sulla pelle e nei polmoni quell’umidità così nociva, quell’odore di topo e di calce che gli faceva quasi chiudere le nari. Ah, il piacere della ribellione s’impadroniva di lui, che per quasi sessant’anni non si era mai saputo ribellare a nulla, mai, nemmeno di fronte ad un pensionamento ingiusto ed alle beffe dei colleghi del sindacato: “uomo di destra”- dicevano- “servo dei padroni!”
“Uomo di principi”- diceva lui, e lasciò la fabbrica a capo chino, senza mai più voltarsi a rimirarla, sapendo che la sua vita finiva in quel punto e che nessuno mai avrebbe assunto un dirigente cinquantaseienne, per giunta bollato come nemico dei sindacati.
Francesco non era mai stato particolarmente devoto, né si era posto seriamente la questione se occorresse o meno un impegno con la fede che gli era stata insegnata sin da piccolo. Inoltre aveva sempre evitato per carattere qualunque tipo di coinvolgimento con persone o fatti che non lo riguardassero direttamente, toccandolo nella sfera degli affetti familiari o nel portafogli. Era, se così si può dire, un uomo senza colori, amante più del piccolo cabotaggio che delle traversate con il mare tempestoso. Ligio ad una morale fatta di comportamenti da osservare e di convenienze da rispettare che si era creata sin da giovane e che aveva rafforzato nel tempo, attribuendo quasi un valore esistenziale a piccoli riti di una metodica frammentazione dell’esistenza, si adoperò per far sì che le gioie fossero piccole gioie ed i dolori piccoli dolori, al fine di rendere la sua vita il più possibile uguale a sé stessa. Poteva così sentirsene padrone ed illudersi consapevolmente di averne il controllo.
Ora, in una mattina di lavoro come tante, passata al telefono per ottenere che le merci fossero recapitate in tempo ai grossisti ed a convincere nuovi negozianti a lanciare sul mercato le immangiabili merendine per bambini che la sua ditta si ostinava a produrre per la gioia e i profitti dei dentisti e dei pediatri in generale, aveva sentito la voce concitata di un’operaia gridare nel corridoio della Direzione Ufficio Vendite e, siccome era raro che accadesse qualcosa in quel noiosissimo ufficio, aveva sospeso il lavoro, come tutti gli altri, per accertarsi dell’accaduto. Vide l’operaia, quasi in lacrime, lamentarsi del fatto che tutti i crocifissi erano scomparsi dalle pareti delle sale comuni. La donna era visibilmente scioccata, come se il fatto, di per sé banalissimo, la toccasse in qualcosa di molto intimo e caro. Nessuno sembrava comprendere le ragioni del suo affanno: qualcuno sorrideva, molti la compativano, e più i loro visi si riempivano di quel vuoto sorriso di circostanza, più l’angoscia della donna aumentava e la sua voce si faceva rotta e disperata. Sentì allora, per la prima volta in vita sua, l’impellente necessità di eroismo che talvolta spinge l’”idiota” a compiere un gesto sacro, da “innocente”, e non solo accettò il coinvolgimento, ma lo cercò deliberatamente. Si avvicinò alla poveretta e la prese a braccetto; la condusse al bar aziendale, dove si preoccupò che si calmasse e le diede la sua parola che avrebbe provveduto lui a riparare al misfatto. Considerava assolutamente stupida la questione e sproporzionata la reazione della donna, né il crocifisso aveva per lui alcun significato particolare: era un ricordo dell’infanzia che lo lasciava tutto sommato indifferente. Però qualcosa gli rendeva insopportabile il fatto e non era il gesto in sé, uno scherzo amaro di poco dissimile da quelli tipici degli scolaretti che si rubano gli oggetti personali in classe: era l’idiozia ideologica che gli stava dietro; ricordava benissimo di aver ascoltato i commenti sguaiati di alcuni colleghi che sostenevano la necessità di provvedere a che Cristo non facesse da testimonial politico durante le imminenti elezioni amministrative a favore di un partito di centro. No, questo era troppo stupido! Francesco credeva nell’esistenza di un Dio unicamente creatore, da qualche parte nell’universo, un Dio assente, un Dio indifferente che non gli aveva mai rivolto una sola occhiata e non lo aveva mai difeso dalla sofferenza; ma non per questo poteva tollerare che fosse offeso chi invece una fede l’aveva! Quale bestemmia sarebbe stata maggiore del ridurre la divinità ad un traino per il successo politico di un candidato? La stupidità dei suoi colleghi non valeva una sola delle lacrime di quella donna.
Lei credeva in qualcosa al punto da esporsi, da piangere e gridare in un corridoio affollato incurante delle risatine dei colleghi. Ai suoi occhi quella donna semi-sconosciuta divenne un’eroina, una santa, una Giovanna d’Arco. Non esitò! Si presentò ai superiori e denunciò i colpevoli, che vennero ovviamente redarguiti severamente dalla cattolicissima Proprietà della ditta. I crocifissi tornarono immediatamente al loro posto, ma Francesco non trovò più il suo, o, meglio, fu talmente boicottato ed isolato dai colleghi che il suo rendimento lavorativo calò al punto da indurre la Proprietà a suggerirgli il pre-pensionamento.
Francesco accettò, più per stare vicino alla moglie malata che perché realmente toccato dai dispetti mafiosi dei colleghi e dai loro lazzi. Passato il primo momento di autocritica per quella che gli sembrava ora un’imprudenza fatta, si era adattato, visto che nessuno gli affidava neppure il minimo incarico, a far finta di lavorare ed a passare il tempo in ufficio vivacchiando tra una pausa-caffé, una lettura del giornale sportivo in bagno ed una lunga meditazione guardando fuori dagli ampi finestroni del suo reparto. Stava subendo la più feroce delle punizioni: la condanna all’inutilità, cioè la sottrazione della dignità di lavoratore e di uomo. Col tempo l’ostilità dei colleghi si era attenuata, lasciando il posto anche ad una certa pena, ma Francesco non aveva un solo amico vero, proprio perché sosteneva che le amicizie fossero fonte di problemi e fosse preferibile evitare qualunque coinvolgimento con la vita del prossimo; così non fece nulla per ricominciare almeno a scambiare qualche parola con i colleghi e si isolò in un mondo personale e desolato. Come una vittima predestinata porse volontariamente il capo al carnefice.
Fu quasi per gioco che un giorno decise di andare a trovare un sacerdote e questo avvenne poco dopo il pensionamento, ancor prima che Carla morisse. Scelse il giovane sacerdote della parrocchia del quartiere e gli chiese, con un po’ di sfida nella voce, se avrebbe avuto il coraggio di confessare un ateo, la cui ultima confessione risaliva ai tempi della Prima Comunione.
L’altro rise e gli indicò la scala che portava alle camere della canonica.
-“Venga su, davanti ad un buon caffè : ho l’impressione che non sarà una cosa breve ed in casa mia corriamo meno il rischio di essere disturbati.”
Arrivati in canonica, gli indicò dove sedere e si mise a preparare il caffè:
-“Allora, cosa l’ha spinta a desiderare questo incontro?”
E Francesco raccontò la storia dei crocifissi, del suo intervento senza logica, perché da sempre lui aveva votato comunista e si definiva ateo, della sua regola di non immischiarsi, brutalmente contraddetta proprio nel momento più sbagliato.
-“E’ come se avessi fatto una cosa senza rendermene conto, qualcosa si è impadronito di me ed io ho dovuto ubbidire, come una voce, una spinta dell’anima, qualcosa di ineludibile,
di decisivo! Ed un attimo dopo mi sono chiesto perché, ma ormai il pasticcio era compiuto!”
Don Carlo Romagnoni lo guardò attentamente, lo lasciò raccontare un’infinità di cose, lo lasciò piangere descrivendo la pena di vedere la moglie semiparalizzata nel letto, il suo senso d’ impotenza, d’inutilità: lo lasciò sfogare.
Poi si alzò e, passeggiando per la stanza come per trovare nel fondo dell’anima le parole migliori, gli parlò di un Dio vicino agli uomini e misericordioso, del suo Spirito che agisce in tutti gli uomini, del suo impadronirsi di coloro che sono stati prescelti e che sono disponibili a divenire strumento di Dio in terra.
Gli parlò dell’Avvenimento, del fatto imprevisto ed imprevedibile che sconvolge un’esistenza, ridesta la coscienza in un preciso momento, in un punto preciso della parabola umana, che per ogni uomo è differente e dal quale è impossibile prescindere se non seppellendolo sotto quintali di terra, se non necrofizzandolo, uccidendo così però la propria umanità.
-“Ogni gesto, anche fatto per scherzo, porta dentro di sé un barlume d’eternità, ma il Gesto, l’Avvenimento, come fu per San Paolo l’apparizione di Cristo risorto, è uno solo ed è definitivo, perché è un gesto di Dio.”
Parlarono a lungo e Francesco obiettò che secondo lui qualunque azione umana era un nulla, era un peto in una giornata di vento, altro che eternità! E lo pregò, invano, di non parlargli di Dio, perché lui non credeva, che diamine!, a nessun essere superiore, perché nessun essere superiore giusto e buono, come il sacerdote gli presentava, avrebbe permesso una tale crudeltà come quella di costringere sua moglie immobile a letto, ridotta ad essere poco più di un vegetale, capace solo di reazione, ma non più di azione.
Se lui era lì, era per cercare di capire cosa era accaduto sul lavoro, perché si fosse immischiato nella faccenda dei crocifissi, perché avesse denunciato i colleghi; voleva ragioni umane, consigli comprensibili, e pensava che il sacerdote avrebbe potuto lasciar da parte per un momento la divinità, nella quale, diciamo la verità, sicuramente nemmeno lui credeva, anche se per il mestiere che aveva scelto era tenuto a dire il contrario.
Don Carlo ascoltò ogni obiezione e rispose pazientemente: il dialogo si protrasse a lungo, fino quasi all’ora della santa messa vespertina. Allora il sacerdote fu costretto a congedarlo, ma prima lo invitò ad unirsi ad un gruppo di persone della sua età, con gli stessi problemi di adattamento alla vita da pensionati.
Francesco scosse il capo, ringraziò e riprese la via di casa.
Si sentiva sconfitto, disgustato, deluso.
-“Possibile che nessuno sappia o voglia affrontare la verità di sé senza partire da una prevenzione, da un’ideologia che tenti di spiegare la realtà sforzando i fatti contro ogni evidenza? Non esiste nessuna spiegazione globale della realtà, solo un ammasso di frammenti inutili, di gesti vuoti, di parole perdute. Questa è la verità! Ed io ho il coraggio di guardarla in faccia; questa è la vera dignità dell’uomo: guardare in faccia la propria miseria ed accettarla con nobiltà, con stoicismo!”
Pensando così tra sé e sé, ripercorse la strada fino a casa: mai più avrebbe rivisto quel prete e mai più ascoltato quelle chiacchiere inutili. Ancor meno si sarebbe lasciato coinvolgere a frequentare un gruppo di pensionati depressi: gli faceva orrore solo il pensiero di ridursi a passare i pomeriggi a giocare alle bocce o alle carte in uno squallido circolo parrocchiale!
Qual’ era l’ultima frase che don Carlo gli aveva detto sulla porta della canonica? Ah sì:
-“Dio non entra mai in una vita se non per condurre a compimento la sua opera.”
Bella frase, totalmente vuota di significato!
Ed anche ammettendo che esistesse una divinità, che diavolo voleva da un pover’uomo come lui? Perché lo angustiava così, dandogli la penitenza di una moglie invalida, di una pensione prematura, di un’inutilità sociale?
Lui era vivo, sentiva in sé la gioventù ancora bruciare e le urgenze che percepiva, le questioni che si poneva, non aveva alcuna intenzione di seppellirle con lo stordimento dell’oppio di una religione o di una filosofia. Voleva essere libero davanti alla realtà: senza alcuna influenza, fiero ed eretto come l’albero della nave in mezzo alla tempesta.
No, non era stata una buona idea andare a trovare don Carlo!
Si sentiva confuso più di prima, con strane idee nella testa, specialmente quella dell’energia dello Spirito di Dio!
-“Bah, meglio non pensarci!”
e si diresse deciso a casa al fine di giungervi in tempo per predisporre la cena per sé e l’inferma. Vivevano in una piccola casa: una camera da letto, un salotto, una cucina, ed una camera in più, che in origine doveva essere la camera dell’erede, poi, quando fu chiaro che avrebbero dovuto invecchiare senza prole, divenne la “stanza degli ospiti”, un eufemismo per designare un ripostiglio dove ammassavano le cose più disparate, visto che di ospiti quella casa ne aveva visti ben pochi: solo, per qualche ora, qualche amica di Carla, fintanto che la malattia le aveva lasciato le facoltà intatte e la morte non aveva cominciato a diffondere il suo profumo, che emanava dal corpo ed impregnava ogni oggetto della stanza e talora dell’intera casa.
Da allora le visite si erano molto rarefatte e la malattia si era molto aggravata, tanto che l’unico vero momento di lucidità Carla l’aveva quando, per un riflesso condizionato gridava: “Sei tu?”, sentendogli aprire la porta. Per il resto, rispondeva reagendo alle sollecitazioni del marito, ma tutto era meccanico, come se fosse una bambola parlante, come un vecchio pappagallo.
Così, per ovviare alla mestizia dei suoi monologhi travestiti da dialogo, del suo raccontare bugie sui propri successi nel lavoro a quei due grandi, meravigliosi occhi vuoti, del suo inventarsi storie e personaggi che le narrava infaticabilmente nella speranza che lei si ridestasse, anche solo per un momento, prese l’abitudine di uscire, se il tempo lo permetteva, ed andare a passeggiare all’aria aperta, quasi sempre sul lungomare, nelle ore del primo pomeriggio, quando lei si assopiva.
Un giorno aveva scoperto il sentiero della vecchia ferrovia e quello divenne il suo itinerario abituale, perché gli permetteva di camminare per una mezz’oretta senza incontrare che qualche pescatore, categoria umana che non ama la conversazione e quindi non gli era di disturbo in alcun modo.
Si fermava spesso ad osservare il volo dei gabbiani o il frangersi irregolare delle onde sugli scogli: viveva ore liete su quel sentiero, ore di dimenticanza, di dissolvimento della fatica; pensava molto e spesso riteneva di aver scoperto qualcosa di importante su di sé ed il mondo. Decideva allora di scriverlo per ricordarsene, ma quel pensiero, quella intuizione erano più veloci dei gabbiani e quando giungeva a casa non si ricordava più nulla.
Perfino quelle rare volte in cui aveva portato con sé un foglio e scritto sull’istante la frase illuminante, quando, giunto a casa, la rileggeva, trovava che avesse perduto tutta la genialità: era una stupidaggine, che, fuori da quella situazione che l’aveva generata, fuori da quel sentiero, perdeva ogni senso, ogni ragionevolezza.
Tanto la casa significava per lui fatica e noia, quanto quel sentiero era libertà, possibilità indisturbata di sognare, anelito di creare: quante volte desiderò saper dipingere per fissare sulla tela la bellezza di ciò che vedeva! Ma non sapeva fare nulla, se non vendere merendine per bambini, ed ora nemmeno più quello!
Tre mesi dopo il pensionamento, la moglie Carla morì: la trovò addormentata nel letto di ritorno dal fare la spesa e, siccome lei aveva il sonno leggerissimo, appena Francesco richiuse la porta dietro sé e non sentì la sua voce chiedere “Sei tu?”, capì che qualcosa doveva essere accaduto.
Lei aveva gli occhi aperti, ma non sbarrati, e la bocca atteggiata ad un piccolo sorriso. Così le rimase impressa nella memoria: sorridente e statica.
Egli soffrì molto per questa morte, moltissimo, a dispetto di tutti i propri studi sulla maniera di evitare la sofferenza; lo straziava particolarmente il pensiero di averle troppo poco manifestato il proprio amore, di averle fatto troppa poca compagnia ed anche di esserle stato infedele, alcune volte, quando lei era ancora in vita.
Le parlava spesso, come se potesse sentire la sua presenza.
Dopo la morte di Carla quel sentiero in riva al mare divenne il suo santuario, il luogo dove poteva parlarle, anche ad alta voce: la vedeva ovunque, e la vedeva viva, non statica come l’avrebbe rivista dopo qualche anno; era ancora viva, più viva, come se la morte l’avesse ringiovanita. La vedeva nel mare, nel cielo, negli arbusti che pencolavano sulla scogliera, ne sentiva la voce, il canto di quando spensierata attendeva alle faccende domestiche e lo aspettava per fare all’amore.
Il sentiero della sua libertà si era trasformato in una via Crucis: ad ogni angolo un nuovo ricordo di lei viva lo colpiva e Francesco ne rimaneva allibito; come aveva potuto dimenticare tutti quei particolari? Il ricordo di Carla era più vivo lì, in riva al mare, che nella loro casa, dove tutte le cose che erano state sue parlavano di lei malata e della sua sofferenza. Qui no: questo era il luogo del passato, dove lei, libera dalla schiavitù delle cose, gli appariva giovane e sua, come non mai.
Fu in questo luogo che Francesco, in una mattina di sole dei primi giorni di aprile, ebbe quella che lui pensò fosse un’apparizione, forse della stessa Carla. Appena uscito dalla galleria più lunga, con ancora il freddo e l’umidità nelle ossa, vide una giovane donna giù in basso, ancora ad una certa distanza. Era in piedi su uno scoglio lambito dalle onde; ne vedeva la chioma nera e molto folta di una ragazza del sud e l’abito semplice: una camicetta sopra un paio di jeans; ma non ne poteva scorgere il viso. Stava eretta di fronte al mare ed ebbe l’impressione che cantasse: sentì, infatti, una voce appena accennata, frammentata dal vento, poteva anche essere quella di un gabbiano; la sentì penetrargli nell’anima, nella quale si fece il vuoto: una sensazione di stordimento e di piacere intenso.
Cercò di avvicinarsi. Ah!, come avrebbe voluto avere la gioventù di un tempo: saltando di scoglio in scoglio l’avrebbe raggiunta! Invece, le sue membra gli permisero solo una lenta e faticosa marcia di avvicinamento e quando arrivò a poter vedere lo scoglio da vicino, lo vide vuoto. Si sedette esausto perché aveva faticato sotto un sole impietoso, e disse, disperato, pieno di rimpianto e di nostalgia: “Carla!”. Scoppiò in un grande pianto liberatorio, il primo da quando l’aveva seppellita, che durò a lungo, finché un pescatore non lo notò e gli chiese se avesse bisogno di qualcosa.
Allora si rialzò, lo rassicurò con un sorriso forzato e riprese la via di casa.
Il pensiero di quella visione non gli dette tregua per i giorni seguenti: era veramente Carla? Era un’apparizione o semplicemente una ragazza intenta a prendere il sole?
Seguirono tre giorni di maltempo e così fu impossibile dissipare il dubbio: ogni mattina Francesco scrutava il cielo e poi, con delusione, scuoteva il capo pensando cosa mai potesse averlo persuaso che quella fosse la sua Carla e non una semplice bagnante. Era stato quel canto, quel vuoto dentro di sé a persuaderlo che qualcosa di soprannaturale stesse accadendo? Fantasie? Sogni? Proiezioni di una sofferenza interiore? Alla fine cedette e tornò da don Carlo.
-“Eccola finalmente! Ce ne ha messo del tempo a ritornare! Ma Dio non entra mai in una vita…”
-“Sì, sì, d’accordo!” – lo interruppe Francesco -” Non sono qui perché abbia ripensato alle sue sciocchezze, padre, e mi perdoni la franchezza, ma lei sa come la penso! E’ accaduto
un fatto nuovo.”
-“Si sieda!”
Francesco raccontò della morte di sua moglie e disse al padre il motivo per cui quella che doveva essere semplicemente una ragazza intenta a prendere il sole, gli era sembrata la “sua” Carla: perfino quella camicetta, o per lo meno una molto simile, lei l’aveva indossata quando si conobbero da studenti. E gli descrisse quel vuoto, dentro di sé, nel profondo dell’anima.
– “Lei dunque ammette di avere un’anima!”- lo interruppe don Carlo.
– “Padre, non ne approfitti subito per tirare acqua al suo mulino! Ho detto anima, ma potevo dire psiche o subconscio. Mi ascolti piuttosto: mi parve che quella fanciulla cantasse, che
cantasse al mare.”
– “Nulla di strano, caro amico, nulla di soprannaturale, ma se anche fosse stata la sua Carla, perché meravigliarsi?”
– “Lei dunque, padre, crede ai fantasmi?”
– “Credo che a Dio nulla sia impossibile, come anche all’amore, visto che Dio è amore. Non rimane che tornare là e vedere se la dovesse incontrare di nuovo. Comunque, anche
se fosse stata solo una ragazza intenta a prendere il sole, Dio si è servito di lei per raggiungerla di nuovo. E’ chiaro: vuole qualcosa da lei.”
– “Cosa?”- chiese con un sussurro Francesco che ormai dubitava perfino di sé stesso.
– “Lui stesso glielo farà capire. Abbia pazienza e non si opponga più.”
– “A cosa?”
Il padre si volse, sorrise e non rispose e Francesco uscì più confuso di prima. Perché era ritornato dal sacerdote? Quell’uomo sapeva parlare bene, lo stava plagiando, approfittava della sua debolezza, questo era evidente! Ma allora, perché lo aveva cercato? Si rispose che era l’unica persona che lo avrebbe ascoltato senza deriderlo e senza dargli del pazzo. Capì che, anche solo per questo, avrebbero potuto diventare amici.
Passarono ancora due giorni di maltempo e di pensieri sempre più ansiosi, sempre più incerti tra le due ipotesi di quella visione che lo aveva così colpito, ed una mattina, finalmente, tornò il sole. Francesco si vestì in fretta e tornò al sentiero: questo era tutto zuppo della pioggia dei giorni precedenti che la ghiaia non era riuscita a contenere. La galleria lo colpì con un’umidità insopportabile, ma non desistette e non fece il percorso alternativo: puntò dritto allo scoglio. Esso era vuoto, battuto dalle onde violente del mare ancora sconvolto dal maltempo dei giorni passati; i gabbiani, infastiditi dal vento, lanciavano acuti richiami.
Si sedette in alto, su una sporgenza del sentiero, dove un sasso fungeva quasi da panchina per il ristoro dei viandanti, e si mise a fissare il mare. Poi, approfittando della completa solitudine, alzò gli occhi al cielo e si mise a cantare.
6
A Francesco piacque così tanto questa strana esperienza che la trasformò in una consuetudine e, se il tempo lo permetteva, si recava al sentiero non più per passeggiarvi guardando la natura, ma per cantare, seduto su una roccia, in fronte al mare.
Passarono così giorni e giorni, trascorsi cantando sul sentiero della vecchia ferrovia vicino al mare. Non era un canto gioioso, ma era ugualmente consolatorio; tutte le canzoni che gli venivano in mente andavano bene. Ricordò perfino motivi di quarant’anni prima: spesso cambiava le parole, spesso stonava, ma cosa importava?
La voce non si stancava mai e quando si fermava a riprendere fiato si sentiva libero, come se ogni canzone fosse un episodio del suo passato che si staccasse da lui per sempre e precipitasse nell’abisso di quello stesso mare che gli stava in fronte con i suoi riverberi dorati. Sentiva di ripercorrere a ritroso tutto il suo passato; che, per qualche evento miracoloso, si stesse realizzando una rinascita. Non pensava più, accettava con serenità di non sapere e di non capire più nulla: si sentiva vivo, di una vitalità incosciente e prorompente, fisicamente forte e giovane. Aveva una percezione nuova del proprio corpo, non più solo per le noie che questo gli procurava quando doveva alzarsi da una poltrona o salire scale ripide! Ora lo sentiva vivere. Si sentiva vivere! Assaporava il vento sulla pelle; gli odori dei fiori che ornavano le rocce a strapiombo sul mare gli colpivano le nari e lo stordivano; sentiva il proprio timpano vibrare al canto dei gabbiani e la sua voce, nel canto liberatorio, proveniva dal centro del suo essere, come se tutto il corpo cantasse: ogni muscolo, ogni vena, ogni capello.
Non pensò più a quella misteriosa figura femminile. Finché, una mattina, non la rivide.
Era appena uscito dalla galleria, dando un’occhiata distratta ai titoli principali del giornale, quando ebbe l’impressione che qualcosa si muovesse in prossimità del solito scoglio. Il cuore gli sobbalzò, il fiato gli mancò e la vista si fece incerta: non così il suo passo che, dimentico dell’età, si fece rapido. Girò le due curve del sentiero che lo separavano dallo scoglio, che era solo parzialmente visibile dal sentiero stesso, e vide laggiù in basso uno zaino. Dal sentiero non si scorgeva altro, ma ciò che vedeva, e non era ancora sicuro fosse lei, era senz’altro reale: lui era ben sveglio, tutti i sensi all’erta, pronto a cogliere il minimo segno che lo sottraesse ai dubbi di quei giorni.
Si sedette sul ciglio, deciso a non muoversi di lì, visto che tentare la discesa fino al mare avrebbe imposto salti quasi da stambecco da una roccia all’altra. Vide una giovane mano spuntare e deporre sullo zaino una magliettina azzurra, poi un jeans corto ed infine uno slip bianco.
– “Si sta cambiando”- pensò, e si sentì un po’ a disagio, quasi fosse un voyeur intento a spiare una ragazza intenta a spogliarsi.
Non vedeva se non quel braccio, ma era un braccio reale, né si era mai udito di uno striptease fatto da un fantasma, per cui sorrise di sé stesso, si autoderise ed autocommiserò.
A tal punto era giunto! Ed era andato perfino a parlarne a don Carlo! Fu in quell’istante che lei uscì dal nascondiglio ed andò sino alla punta dello scoglio, laddove le onde potevano giungere a lambirne i piedi. Francesco trasalì.
Era completamente nuda e divinamente bella!
Si ritrasse per non essere visto, ma in modo da poter guardare: si appiattì dietro una roccia.
Lei non si girò intorno per vedere se qualcuno potesse notarla, ma, incurante di tutto, si sedette con le gambe intrecciate sullo scoglio e rimase a lungo immobile. Mai Francesco avrebbe immaginato di assistere ad uno spettacolo simile, mai avrebbe pensato di sentirsi esplodere la carne dentro i pantaloni, di sentirsi mancare il fiato, di provare alla sua età una simile incontrollabile eccitazione. Quella ragazza non era Carla, non c’era dubbio, ma il fatto che non fosse un angelo era ancora da dimostrare, tanta era la sua bellezza, una bellezza pura e giovane; nessun suo movimento aveva dato a vedere il disagio della nudità; sembrava fosse una creatura marina, una sirena, nulla di reale, nulla che Francesco avesse mai visto né pensato di vedere.
Rimasero così a lungo: lei immersa nei raggi del sole che l’avvolgevano sullo scoglio, lui con gli occhi fissi su di lei, eccitatissimo, incurante che qualche pescatore potesse vederlo spiare la ragazza come un maniaco.
Lei, finalmente, si rialzò, rivelando, sotto la cascata di capelli neri, un corpo assolutamente perfetto nella sua innocente bellezza. Alzò le braccia , fissando il mare in lontananza, e cominciò a cantare.
No, quello non era un canto umano, quella era la voce degli angeli! Nulla di simile era mai riecheggiato sulla terra!
Francesco era inebetito, sconvolto; quello cui stava assistendo contraddiceva tutto quello che lui era sempre stato, stravolgeva ogni sua convinzione. E il mare rispose alla voce di lei, dapprima con un mugghio sordo e pacato, poi con onde sempre più alte, finché divenne tempestoso, benché non ci fosse che una lievissima brezza, e prese a sbattere con violenza contro lo scoglio dove la fanciulla cantava una melodia sconosciuta a Francesco, dolcissima, vagamente orientale. L’eccitazione sessuale lasciò il posto allo stupore, all’incredulità: a cosa stava assistendo?
Tutto il mare era calmo, tranne la zona vicina allo scoglio!
Si volse intorno, ma non vide nessuno; non c’era nessun pescatore che potesse vedere quello che lui vedeva. Il canto cessò ed il mare, dopo un poco, si placò ed era più azzurro e limpido che mai: dall’alto lui poteva distinguere le pietre sul fondo.
La ragazza si volse e riprese i vestiti posati prima sopra lo zaino: si rivestì con moti lenti, quasi senza togliere lo sguardo dal mare; si pose lo zaino sulle spalle e, saltando di pietra in pietra, si arrampicò fino al sentiero. Quindi si allontanò in direzione opposta a dove Francesco stava nascosto.
Il suo primo pensiero fu di correre da don Carlo, ma Francesco sentiva la necessità di riordinare prima, se possibile, la propria mente. Rimandò al giorno dopo e camminò verso casa meccanicamente, senza pensare che a lei.
Sentiva di essere follemente innamorato di quella creatura, come se ella fosse apparsa solo per lui, come se già gli appartenesse, come se la sua nudità, così disinibita ed esibita, la manifestasse automaticamente disponibile ad una storia d’amore con un uomo maturo e solo.
– “E’ un angelo, un angelo!”- furono le ultime parole che disse.
Giunto a casa, si spogliò e si coricò sul letto come faceva da ragazzo, con lo sguardo sognante perso nel vuoto della stanza, totalmente preso dall’amore e dal mistero di quella fanciulla.
Le sue mani scivolarono lentamente verso il basso e cominciò ad accarezzarsi, piangendo e gemendo come un bambino, finché tutta l’eccitazione non lo abbandonò di colpo come un fulmine e cadde in un sonno profondo, il primo da quando Carla l’aveva lasciato. Rimase lì fino a mattina inoltrata e gli costò moltissimo alzarsi, come dopo una sbornia feroce. La coscienza tardava a ridestarsi, gli occhi ad aprirsi, il ricordo a riaffiorare.
Si fece una doccia, respirando profondamente, ed uscì per andare alla canonica.
“Non potrò mai dimenticare il giorno in cui Francesco entrò come un ossesso nella canonica, mi guardò con occhi pieni di lacrime, chiarissimi, e, senza dire nulla, mi abbracciò tanto forte da togliermi il respiro. Sentivo le sue lacrime calde scendermi giù per il collo. Confesso che il mio primo pensiero fu per il collarino che la perpetua aveva appena stirato e che quest’uomo, nella sua furia, stava bagnando e stropicciando. Quando riuscii a staccarmi ed a farlo sedere, gli offersi un bicchierino di liquore, che egli rifiutò con gesto fermo, e mi sedetti accanto a lui.
-“Allora, amico caro, che succede? Ancora quell’apparizione?”
Mi fissò con due occhi tanto supplichevoli da commuovermi profondamente, ma non rispose; dopo un attimo si alzò ed andò alla mia scrivania, da cui prese un foglio sul quale scrisse semplicemente:
“Ho visto un angelo.
Sono diventato muto.
Ora credo.”
Sulla parola “credo” era caduta una lacrima grande come una goccia di pioggia, che aveva sparso l’inchiostro sul foglio tutto intorno.
A cosa pensai? Forse il primo pensiero fu per un caso di pazzia, come tanti ce ne sono nel mondo, perché, devo confessarlo, pur credendo possibile in teoria l’apparizione di un angelo a chiunque, sono, insomma, un po’ restio a crederci quando mi viene raccontato. Ma Francesco non era certo il tipo del fanatico religioso!
Mi incuriosii soprattutto per il fenomeno del mutismo, chiara reazione emotiva a qualcosa d’incredibile che quell’uomo doveva aver sicuramente visto e cercai di fargli spiegare, scrivendo, cosa fosse successo. Le mani gli tremavano e non poteva che scrivere parole sconnesse, slegate una dall’altra, con una calligrafia sempre più incerta, mentre dagli occhi le lacrime scendevano ora senza alcun ritegno.
Lessi qualcosa come “scogliera-ieri-ragazza-nuda-canto-angelo”: tutto ciò aumentò la mia perplessità, specialmente il riferimento sessuale alla nudità della ragazza, ma volli indagare se fossi davanti ad un caso di choc provocato da qualche impudica bagnante e dovuto alla recente vedovanza o se ci fosse qualcosa di diverso, di più misterioso.
Iniziò un strano dialogo nel quale io formulavo domande cui lui potesse rispondere solo scuotendo la testa per dire “sì” o “no”.
Gli dissi che è consuetudine, benché nessuno di mia conoscenza ne abbia mai incontrati, ritenere che gli angeli non abbiano sesso e quindi non producano eccitazione alcuna.
Ma il suo sguardo si posò su di me con una tale intensità che ebbi lo strano disagio di sentirmi io il miscredente, come se i nostri ruoli si fossero invertiti.
Capii che desiderava portarmi a vedere questa ragazza, che voleva un testimone, che solo io potevo capire e solo io non lo avrei considerato un pazzo. Mi sentii imbarazzato: gli dissi che non ero certo la persona più adatta per andare a spiare bagnanti nude alla scogliera, che capisse la mia posizione, ma quegli occhi mi fissavano, pieni di lacrime, come se appartenessero già ad un altro mondo. Accettai!
Lo convinsi però ad andare a vedere un medico per il problema della voce: io stesso lo avrei accompagnato. Gli promisi che non avrei nemmeno accennato al motivo del suo mutismo per evitargli qualunque rischio di derisione e che, in cambio della sua disponibilità a farsi visitare, lo avrei accompagnato alla scogliera, ma solo nel tempo che avrei avuto libero dagli impegni della parrocchia.”
Don Carlo accompagnò Francesco solo per due volte alla scogliera e fu anche per lui una piacevole diversione: quel sentiero, invisibile dalla strada, aveva la rupe scoscesa da un lato, e la scogliera in basso dall’altro: era tuttavia abbastanza largo (aveva ospitato la linea ferroviaria) per potervi passeggiare senza sentirsi in pericolo e, nei punti a rischio di frane, gli operai comunali avevano ingabbiato le rocce con reti metalliche, per prevenire gli incidenti.
Era un po’ ardito bagnarsi in mare, poiché occorreva saltare di scoglio in scoglio per giungervi. I due uomini erano d’accordo che avrebbero approfittato del tempo della passeggiata per parlare del Vangelo, del quale Francesco voleva ampliare la conoscenza che si limitava allora a ricordi infantili di episodi isolati: quelli che sentiva alla messa tra uno sbadiglio e l’altro, tra un dispetto del compagno a fianco ed un rimprovero della catechista.
Letta così, come don Carlo faceva, leggendo ad alta voce il Vangelo di san Matteo in modo consecutivo, come fosse un romanzo e ripetendo tutti i passi che Francesco gli chiedeva con un cenno di ripetere, la storia di Cristo era incredibilmente potente ed affascinante! La voce del sacerdote risuonava contro le pareti che costeggiavano il sentiero ed i due amici erano come fuori dal mondo, immersi in un racconto senza tempo.
Nessuno dei due avrebbe saputo dire quante volte ripercorsero avanti e indietro il cammino, che in tutto misurava poco più di due chilometri, interrotto da un lato da un porticciolo, dall’altro da ville recentemente edificate ed immerse nella vegetazione della pineta.
La ragazza non si fece vedere. Don Carlo non ne aveva mai dubitato, sin da quando il medico aveva parlato di un apparato vocale sanissimo e detto loro che l’unica spiegazione era quella di un mutismo psico-somatico o di una decisione cosciente di non parlare più.
Francesco aveva sicuramente bisogno di Dio e si era rivolto a lui, inventando o esagerando o romanzando un episodio di per sé banale della vita, ma che celava questo bisogno, lo giustificava, lo metteva al riparo dalla mortificazione di dover spiegare a coloro che ne conoscevano il conclamato ateismo il fatto di essere visto, ora, frequentare un sacerdote.
Carlo non poté però non constatare come fosse la prima volta che Dio si servisse di una bagnante nuda per inviargli una pecorella smarrita. Il caso era comunque, anche solo per questo, straordinario!
Dopo il secondo giorno trascorso a passeggiare con don Carlo, Francesco cominciò a riflettere: se fosse stata, come diceva l’amico, una semplice bagnante, sarebbe andata al mare anche in presenza di don Carlo; se invece era là per lui, per lui solamente, sarebbe comparsa unicamente se lui fosse andato laggiù da solo.
Gli venne in mente che, tutte e due le volte che l’aveva vista, non c’erano i consueti pescatori sparsi qua e là, a debita distanza uno dall’altro, lungo la scogliera. Erano soli: lui e lei.
Non c’era che un modo per sapere e questo, dunque, era tornare laggiù da solo. Fu pertanto contento quando don Carlo gli spiegò che il giorno successivo avrebbe dovuto celebrare
un funerale e non avrebbe potuto pertanto accompagnarlo.
Si alzò di buon’ora e, nonostante la giornata fosse molto incerta e minacciasse pioggia, si recò alla scogliera.
Come notò l’assenza di pescatori, già prima della galleria seppe che stava per rivederla.
Non fu pertanto stupito di trovarla, già sullo scoglio, nuda, nella posa tipica della meditazione yoga. Si fermò sul ciglio e rimase immobile, senza nascondersi, in attesa di quello che sarebbe successo.
Riascoltò il suo canto, che le uscì d’improvviso dall’anima: le sue braccia erano tese verso l’orizzonte lontano e dalle sue labbra usciva quella strana melodia che egli aveva già ascoltato la volta precedente. Il mare, anche questa volta, rispose.
Poi la ragazza si sdraiò sullo scoglio, come fanno i bagnanti per prendere il sole, ma non c’era sole in quel momento, anche se Francesco poteva sentirne il calore, perché varie nubi si stavano ammassando sul mare. Si tese, come se stesse facendo un esercizio di ginnastica, ed egli la poté guardare in tutta la sua nudità e, finalmente, la vide chiaramente in viso.
Non era Carla!! Questo era chiaro! Non le assomigliava se non per i capelli, che sembravano quelli di lei giovane.
La guardò a lungo, sentendo esplodere lo stesso desiderio ed era un desiderio chiaramente sessuale, non c’erano dubbi!
Dunque, se don Carlo diceva il vero, non poteva assolutamente essere un angelo! Sentiva di amarla per questa sua prorompente bellezza, per quella sua naturalezza nel mostrarsi coperta solo dai propri capelli. Se avesse sorpreso un pescatore in atto di guardarla, sentiva che avrebbe potuto ucciderlo per la gelosia!
Ma quel canto? Quelle onde che le rispondevano dal profondo degli abissi? Chi era, dunque quella ragazza?
Ed era lei ad avergli sottratto la voce?
Rimasero quasi mezz’ora, lei nuda distesa sullo scoglio, lui ritto sul ciglio del sentiero incurante del fatto che, se lei avesse alzato lo sguardo verso di lui, l’avrebbe senz’altro visto.
Poi lei si alzò e si rivestì.
Francesco decise che non l’avrebbe lasciata andare senza sapere. Ma se fosse stata una semplice bagnante?
Sentiva che stava per esporsi al ridicolo come mai in vita sua.
Si mise nel centro del sentiero e l’attese: lei si arrampicò sulle rocce con grande agilità e quando gli fu quasi vicino, gli rivolse la parola:
– “Buongiorno, vedo che le piace guardare le ragazze!”
Lui arrossì violentemente, sentì una vampata di calore assalirgli il viso e gli occhi divennero supplichevoli: si sentiva sprofondare dalla vergogna. Fece segno di sì con la testa.
Lei gli passò davanti , bellissima, giovane, delicata, emanando un profumo di roselline; i suoi piedi quasi non facevano rumore sulla ghiaia del sentiero. Quando si fu allontanata di qualche
passo, si volse di scatto:
– “Domani torna?”
Lui fece segno di sì, colto di sorpresa.
– “Laggiù, dopo quello spuntone, c’è un passaggio più semplice per scendere al mare. Scenda anche lei, così mi può guardare più da vicino!”
Scoppiò in una risata argentina e si mise a correre, con il suo zainetto sulle spalle, verso il porticciolo.
– “A domani!”- gli gridò ancora da lontano.
Era una sfida? Vedeva in lui l’uomo maturo costretto ad osservare le ragazze non potendo più averne e voleva umiliarlo imponendogli lo spettacolo della propria nudità da vicino?
Lo riteneva così inoffensivo?
Si avviò verso casa pieno di risentimento: odiava che lo facessero sentire vecchio ed era quello che gli era sempre capitato quando aveva tradito la povera Carla per ragazzine molto più giovani di lui. Pagava il conto del ristorante e la stanza dell’albergo e loro, in cambio, gli facevano notare con la loro indifferenza, o addirittura con espliciti riferimenti, il suo inevitabile degrado fisico. Poco mancava che ridessero quando si spogliava: lui allora faceva l’amore con rabbia, quasi sempre senza soddisfazione, poi le cancellava dalla propria vita. Vecchio!
Lui si sentiva giovane: era come un incubo per lui accettare quel corpo sempre stanco, quei peli superflui, quei muscoli flaccidi, quella incipiente calvizie……era come non fosse suo.
Avrebbe accettato la sfida! Era deciso!
Ma quel canto? Quelle onde?
Francesco si fermò di colpo, sulla strada di casa, come se un fulmine lo avesse colpito. No, a questo non aveva più pensato. Per questo non c’era nessuna spiegazione. Una maga?
Sulla sua fisicità e sessualità non poteva più avere dubbi: era una donna, e che donna! Ma cosa c’era nella sua voce, quale potere? E perché, ormai l’aveva appurato, era là per lui? Cosa voleva da lui?
Il giorno seguente, per la prima volta, non invitò nemmeno don Carlo a seguirlo e si recò alla scogliera in un’ora differente, per provarsi che non c’era alcun legame tra lui e la bella sconosciuta. Giunto in prossimità dello scoglio, che vide vuoto, seguì le istruzioni della ragazza e scese, con fatica, fino al mare.
Il sole brillava in cielo già con l’intensità estiva e, pur essendo solo le dieci del mattino, la temperatura era già molto elevata. Slacciò sbuffando il bottone del colletto della camicia e si accantucciò in un anfratto della roccia, che formava come una specie di piccola grotta, per difendere almeno il capo dall’inclemenza del sole. Lì attese, compiaciuto che lei non avesse potuto prevedere il suo cambiamento di orario: dunque, veramente, non era un angelo! Pensò a Carla ed a questo nuovo sentimento d’amore che gli riempiva il cuore; ma era poi amore? Come poteva pretendere di dare una simile dignità di sentimento a quella che era solo una volgare esplosione di libido verso una donna dal corpo sufficientemente bello da far impazzire qualunque uomo? Era forse possibile amare una persona totalmente sconosciuta? Stava così ripensando, rivalutando le proprie sensazioni, quando, vinto dal caldo, si assopì.
Fu una piccola dolcissima mano a risvegliarlo, una mano che gli accarezzò lievemente i capelli e la prima cosa che vide fu il fresco, sincero sorriso dell’amata.
– “Buongiorno! E’ venuto presto questa mattina!”
Francesco allargò le braccia e sorrise. Lei gli porse una bottiglietta d’acqua e cominciò a spogliarsi. Egli trasalì e la prese per un braccio facendo “no” con la testa.
Non si sentiva pronto a sopportare un’esperienza così intensa, il sonno lo aveva svuotato di energie, si sentiva confuso, indifeso, spiazzato.
– “E’ l’ora della mia meditazione, non ho molto tempo: poi devo tornare al lavoro.”
Francesco fece per andarsene, ma lei lo fermò:
– “Rimanga, non abbia vergogna di guardare: a me piace essere guardata, a lei piace guardare, ci facciamo del bene a vicenda!” – e di nuovo rise in quell’irresistibile modo un po’ infantile.
Si tolse la camicetta, scoprendo un seno assolutamente giovane e perfetto, e rimase in fronte a lui, che era seduto praticamente ai suoi piedi. Francesco teneva gli occhi bassi, vinto da un ineluttabile senso del pudore, nonostante desiderasse più di ogni cosa poterla guardare, ora che la sapeva nuda per lui, davanti a lui solo. Fu lei ad ordinargli di alzare lo sguardo: lo fece in modo spiritoso ed era talmente a suo agio, orgogliosa di quel petto vittorioso e colmo d’ogni grazia, che a lui passò la vergogna ed osò puntare gli occhi direttamente sul suo seno.
La ragazza riprese quindi a spogliarsi: si tolse le scarpe da ginnastica, si calò l’esile gonna estiva e quindi gli aderenti underskirts che portava per tenere i muscoli caldi durante il footing.
Solo un esilissimo paio di mutandine bianche ed infantili lo separavano dalla visione, a pochi centimetri di distanza, del sesso di lei. Abbassò di nuovo lo sguardo.
– “Vuole meditare con me? Di solito lo faccio da sola, ma sento che lei ha bisogno di pregare in compagnia.”
Appena lo sguardo di lui si risollevò per far cenno di sì, lei fece scivolare le mutandine a terra e lui si trovò a dir di sì ad un piccolo boschetto ben disegnato, dal quale spuntavano due labbra procaci ed in rilievo, pronte per l’amore.
Ringraziò il cielo di essere muto, perché si rendeva conto che in caso contrario avrebbe urlato, tanta era l’emozione e l’eccitazione che sentiva. Il suo cuore era quello di un ventenne, la sua vitalità anche.
– “Guardi con me verso l’orizzonte! Si concentri solo sul canto del mare e su quello dei gabbiani, poi cerchi di sentire il calore del sole sulla pelle e lo scorrere dell’aria tra i capelli.”
La ragazza gli voltò le spalle e si mise nella posizione yoga consueta.
– “Poi, quando saremo pronti, canteremo insieme.”
Francesco le prese il braccio di nuovo, impazzendo di piacere al contatto, e le spiegò a gesti che non poteva cantare, perché era muto. Lei sorrise e gli accarezzò la fronte:
– “Non occorre aver la voce per poter cantare.”
Si volse verso il mare e non gli parlò più.
Rimasero così per alcuni minuti, lei con gli occhi chiusi ed il viso verso l’orizzonte, lui alle sue spalle, guardandola come un lupo guarda un agnellino ed arrivando quasi a sentire il contatto
delle proprie dita sulla sua pelle, su quella schiena giovane, atletica ed abbronzata. La desiderava. Il suo corpo la chiamava.
Ma lei pareva non sentire il suo urlo muto.
Improvvisamente, colto da una decisione improvvisa ed irrevocabile, Francesco si alzò e si liberò totalmente dei vestiti.
Il suo corpo, accanto a quello di lei, era patetico. Non prendeva il sole da molto tempo ed aveva il biancore malaticcio tipico della gente del nord poco adusa a vedere il sole, con per di più gli avambracci ed il collo più scuri del resto del corpo. Si sentiva un orso peloso e rivoltante, per giunta con una incredibile, per lui, misura della propria virilità, dovuta all’enorme eccitazione che stava provando. Avrebbe dovuto vergognarsi di mostrarsi in quello stato, eppure sentì il bisogno di essere guardato da lei. Sapeva che non gli avrebbe fatto notare le sue imperfezioni.
Gettò un’occhiata al sentiero, per vedere se non sopraggiungesse qualche vicino di casa in gita con la famiglia, e poi, dopo un profondo respiro, le si sedette accanto.
Lei si voltò e lo guardò. Si sentì bellissimo, perché si vide negli occhi di lei, vide il suo sorriso e gli dette piacere lo sguardo di lei sulla sua nudità, mai sinora mostrata in pubblico.
– “Ora concentrati, e quando mi sentirai cantare, distendi le braccia verso l’orizzonte e canta con me.”
Lui non riuscì a concentrarsi a fondo se non sulla nudità di lei, sul gigantismo del proprio membro e sul sentiero, dal quale avrebbe potuto provenire qualcuno che lo potesse vedere in quella situazione.
Ma all’improvviso iniziò il canto e fu una meraviglia, perché questo non usciva solo dalla bocca di lei, ma dagli occhi , da tutto il corpo. Anche Francesco se lo sentì nascere dentro e si sentì leggero, come se stesse volando, prigioniero di quella musica bellissima ed irresistibile. Vide una luce strana disegnarsi nel cielo all’orizzonte e questa luce si avvicinò fino a coprirli, se la sentì penetrare nell’intimo e, per la prima volta in vita sua, si sentì assolutamente felice. Con tutto se stesso cantò senza voce, unendo il suo spirito a quello di lei.
Quando si salutarono, Francesco non era più lo stesso.
Lo si poteva vedere dall’aspetto trasandato, da quella luce follemente intensa nello sguardo, da quell’espressione del viso, come se tutte le pene e le fatiche degli anni fossero scomparse e fosse rimasto solo lo stupore ed il desiderio di guardare ancora, di guardare più in là.
Sapeva che quel canto a due voci era stato come un atto d’amore che li aveva uniti e sentiva su di sé il suo profumo, anche se i loro corpi non si erano nemmeno sfiorati. Era felice.
Si riavviò verso casa, con un’andatura sognante, come un fanciullo al primo amore; ma girato l’angolo della via in cui abitava, il suo sguardo si fece di colpo risoluto e fiero: aveva deciso! Doveva fare in fretta!
“Quando rividi Francesco, alcuni giorni dopo, si presentò con un grande sorriso e due buste in mano: pareva incredibilmente felice. Mi diede la prima busta. Lessi. Diceva più o meno:
“Caro padre, so che da tempo lei si lamenta di essere rimasto solo nella gestione della parrocchia, a causa della scarsità delle nuove vocazioni sacerdotali, e che non si può permettere un sacrestano, perché la parrocchia non è ricca e sono molti i poveri da aiutare ogni giorno. Mi prenderebbe a lavorare qui con lei, a titolo gratuito? Potrei venire a vivere in canonica, nell’ appartamentino che occupava l’altro sacerdote prima di venir trasferito. La pensione mi basta per vivere, non ho bisogno del suo denaro. Stia tranquillo: non sono più un miscredente ed imparerò in fretta tutto ciò che devo sapere sul mio nuovo lavoro.
Le chiedo solo un po’ di libertà al mattino per poter andare alla scogliera a passeggiare.”
Alzai gli occhi stupito e mi trovai davanti un sorriso aperto, entusiasta, convincente.
– “Per me sta bene! Se Dio chiama, chi sono io per oppormi? Ma l’appartamentino di don Guido è molto piccolo per te e ci saranno lavori da fare, perché è disabitato da molto tempo!”
Francesco scrollò le spalle e mi diede la seconda busta. Conteneva molto denaro: una cifra che non avevo mai vista tutta assieme, così, in contanti, ed un biglietto che diceva:
“Dio non entra mai in una vita, se non per condurre a compimento la sua opera”.
– “Hai venduto la tua casa!!”
Fece di sì con la testa e sorrise come mai vidi sorridere un uomo. Gli occhi gli brillavano: trasmetteva pace, fiducia.
– “Cosa devo fare con questo denaro?”
Aprì le braccia come per dire: “decidi tu” e con il dito mi fece capire che me lo donava per la parrocchia.
– “Tu sai che con questo denaro potrei rifare il tetto, là dove, quando piove, cade l’acqua in chiesa? Ed i poveri ….grazie, Francesco, accetto non per me, ma per Dio che ti ha mandato
a me con questa beneficenza. So quanto ti sarà costato vendere la casa dove hai passato tanti anni felici con tua moglie, ma Dio ti ricompenserà. Vieni, andiamo a vedere la tua nuova casa.”
Lo accompagnai nell’appartamentino disabitato all’ultimo piano della canonica.”
Furono giorni di duro lavoro per Francesco che rimise a nuovo, con il solo aiuto di don Carlo, l’ex-appartamento di don Guido e fece traslocare alcuni suoi mobili dalla vecchia casa alla canonica. Lavorava con grande energia e, se non pioveva, scompariva sempre al mattino per un paio d’ore, per andare alla scogliera.
Don Carlo gli aveva chiesto della bella misteriosa, ma aveva capito che Francesco preferiva che non ne parlasse più: forse era stato un suo sogno, una sua fantasia, qualcosa che era bene appartenesse a lui solo.
Ogni giorno l’amico sacerdote gli dava lezione: imparò a fare il chierichetto, a fare il segretario, a badare agli arredi della Chiesa, a pulirla ed a far sì che non mancasse mai nulla del necessario per il rito. Don Carlo si fidava completamente di lui e gli lasciava in custodia le chiavi per chiudere la chiesa, così poteva ritirarsi più presto la sera e, se non c’erano riunioni dei gruppi parrocchiali, dedicarsi un po’ alla lettura. Francesco, dal canto suo, non perdeva una funzione ed imparava ogni giorno, instancabilmente, nuove preghiere, che poi recitava senza voce in riva al mare; partecipava ad ogni riunione, si interessava di tutto e la sera si addormentava sognando la sua misteriosa compagna, dopo aver letto la compieta sul breviario e qualche passo dai Vangeli. Sapeva dei commenti della gente che lo aveva conosciuto prima, ne avvertiva la derisione: “Poverino, come si è ridotto”, come se lui avesse scelto di essere lì a causa della malattia alla voce o della disperazione per la vedovanza.
No, non era così!! Lui aveva scelto di essere lì, aveva capito ciò che costoro, religiosi da sempre, tuttavia ignoravano.
Faceva molta attenzione a che nessuno potesse vederlo alla scogliera e potesse approfittare di questo per nuocere a don Carlo. Guardava mille volte il sentiero prima di discendere e poi stava molto indietro, sullo scoglio, dove non era possibile essere visti dall’alto.
Anche la ragazza si abituò a stare un po’ più indietro per rimanergli accanto. Francesco, da parte sua, faceva tutto quello che lei gli diceva di fare e si sforzava, nei minuti iniziali che precedevano lo sgorgare della musica celestiale, di non lasciare che il suo sguardo scorresse troppo impudicamente sul corpo di lei.
In tutto questo tempo non cercò mai di sapere il suo nome. Sapeva che era là per lui e questo gli bastava.
Intanto in parrocchia erano ricominciati i lavori di rifacimento del tetto e don Carlo aveva voluto che Francesco facesse parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale, dove si prendevano le decisioni importanti per la vita della parrocchia. Lui accettò e fu accolto con grande affetto e stima dai consiglieri, specie dopo il discorso del parroco, che pur non nominandolo mai, fece intendere a tutti chi fosse il misterioso benefattore che aveva permesso il rifacimento del tetto.
Francesco era molto felice di assistere a queste riunioni, ma un po’ perché non era in grado di parlare, un po’ perché non si leggessero sul suo viso gli stati d’animo, prese l’abitudine di sedere in disparte, alle spalle di alcuni consiglieri, in seconda fila. Questo perché molto spesso avvertiva un profondo disagio: quelle riunioni erano una cosa sicuramente bella, ma erano totalmente inconcludenti; si parlava per un’ora di un problema e poi si passava al successivo, senza aver assolutamente risolto il precedente. Non si costruiva abbastanza.
Rimasti soli, don Carlo, che gli leggeva il disagio in volto, lo calmava:
– “Amico mio, so che questo non è abbastanza, ma è già qualcosa. E’ importante che queste persone escano di casa e vengano qui a consigliarci ed a partecipare ai nostri problemi. Già solo per questo bisogna ringraziare Dio, in tempi come questi!”
Francesco scuoteva il capo e dava con un cenno la buona notte al parroco, ma poi, giunto nelle sue stanze, si sfogava passeggiando nervosamente avanti e indietro, scuotendo la testa come per un tic nervoso e tormentando le pagine dei Sacri Testi.
Don Carlo sentiva i suoi passi e, con un sorriso, commentava:
– “Ti passerà, amico caro, ti ci abituerai anche tu!”
Si arrivò così in prossimità dell’estate e gli appuntamenti con la sua compagna si fecero sempre più mattinieri, perché ad una certa ora arrivavano i bagnanti vacanzieri, pronti ad approfittare di quel giugno così caldo e decisamente estivo con tutto il loro armamentario di ombrelloni, borse da mare, asciugamani, radioline, creme per l’abbronzatura, bambini urlanti e spesso cani e nonni al seguito. Si ridussero ad incontrarsi alle sette della mattina, con il sole da poco sorto e l’aria ancora molto frizzante che intirizziva le loro nudità. Anche lei, ora, aveva preso l’abitudine, prima di scendere al mare, di spiare sul sentiero se qualcuno si avvicinasse. Non per pudore, lei non conosceva questa sensazione, ma per amore della quiete. Qualche volta furono costretti, dalla presenza di un pescatore, a cambiare luogo.
Si aspettavano sul sentiero e, dopo un rapido bacio che riempiva di emozione e di felicità il cuore di Francesco, scendevano nel posto che ritenevano più tranquillo e riparato dagli sguardi altrui. Per Francesco si faceva sempre più arduo, perché ovviamente i posti più nascosti erano i più difficili da raggiungere e spesso era possibile arrivarci soltanto facendo un breve tratto immersi fino alle ginocchia nell’acqua, ancor gelida, del mar Ligure.
Incredibile che nessuno, nemmeno per sbaglio, per tutto questo tempo, li avesse mai visti meditare su quella scogliera!
Quel giorno, egli avvertì subito che c’era qualcosa di differente, sin dal primo sguardo di lei, sin da come lo baciò: questa volta con meno naturalezza. Le sue labbra si fermarono a lungo a contatto con le sue e Francesco credette d’impazzire per l’eccitazione e la passione. Poi lei strofinò le guance sul suo viso, come accarezzandolo, mentre le sue mani affondavano nei capelli di Francesco, accarezzandogli la nuca. Lui le passò le mani intorno alle spalle e la strinse a sé con un misto di amore e dolore, di felicità e di malinconia.
Gli parve che la sua pelle sapesse di sale.
– “Questa è l’ultima volta che vengo qui per quest’anno. D’estate, con tutta questa gente, è impossibile meditare, lo capisci, vero?”
Lui capiva, ma l’idea di non vederla per molto tempo gli era insopportabile ed il viso si atteggiò ad una smorfia di doloroso stupore: se lo aspettava, certo, che quest’ora quasi quotidiana di magia e di mistero sarebbe prima o poi terminata, che lei avesse di meglio da fare, forse che avesse anche un fidanzato, ma nel segreto del suo cuore sperava che non sarebbe mai accaduto.
Si accorse di non sapere nulla di lei, nemmeno il nome. Eppure quell’appuntamento era diventato per quasi due mesi un gesto fondamentale, forse anche per lei: si cercavano, si aspettavano, quando il tempo era incerto cercavano d’indovinare cosa avrebbe deciso l’altro, se sarebbe o no andato alla scogliera; se uno era malato (ma era capitato solo due volte) l’altro aspettava preoccupato e rimaneva in pena fino al giorno dopo.
Quel giorno sarebbe finito tutto ? Oppure l’avrebbe rivista?
Non c’era mai stata possibilità, né necessità di dialogo tra loro: lei gli leggeva sempre nel viso tutto quello che lui pensava e lui si era abituato ad usare la mimica in sostituzione delle parole, ma era così limitato quello che riusciva ad esprimere in confronto a quello che lei capiva di lui, che dopo un po’aveva addirittura smesso di tentare di raccontare. Ora si accorse che invece avrebbe avuto moltissime cose da dirle e che non avrebbe forse mai più potuto farlo.
Scesero nel punto più scosceso e lei dovette aiutarlo in più di un tratto, perché le sue gambe non avevano l’agilità necessaria. Poi, passando nell’acqua, attraversarono un piccolo anfratto e sbucarono in un punto nascostissimo, circondato per tre lati dalle rocce e semicoperto da uno scoglio che troneggiava nel mare. Lì c’era una piccola spiaggia, poco più di due metri per due e mezzo, giusto lo spazio per loro due. Lei si spogliò subito, mentre lui cercava ancora riparo dall’aria molto frizzante del mattino muovendo le gambe e le braccia come un ginnasta.
– “Sbrigati” -gli disse- “non c’è molto tempo!”
Lui non capì, ma ubbidì come sempre aveva fatto ad ogni cosa che lei avesse detto. La ragazza aspettava nuda all’in piedi a pochi centimetri da lui ed egli, nei suoi patetici sforzi di spogliarsi con eleganza, senza l’abituale goffaggine, la urtò più volte.
Quando fu nudo, si pose davanti a lei e si fissarono negli occhi a lungo: comprendeva poco, ma ubbidiva e si lasciava fare docilmente. La ragazza chiuse gli occhi, rimanendogli in fronte, e Francesco la imitò. Passarono alcuni secondi di silenzio rotto solo dallo sciacquio delle onde e dal canto di alcuni gabbiani.
Il corpo di Francesco si beava dell’aria fresca, della sensazione di libertà e di vicinanza del corpo di lei: ne sentiva il calore e questo lo eccitava moltissimo. Ne coglieva il respiro, quel lieve ansimare sempre più lento che precedeva le meditazioni, quel ricercare nella potenza della respirazione il rilassamento e la porta di mondi nuovi.
Improvvisamente, lei gli si avvicinò e le sue labbra lo baciarono, dolcissimamente, il suo corpo si avvolse a quello di Francesco come un’edera, come un vestito, e caddero avvinghiati sulla sabbia fine, in un amplesso tenero e appassionato.
Poi si assopirono per qualche istante, lei sdraiata su di lui col capo poggiato mollemente sul suo petto. Francesco era ancora incredulo, sorpreso: aveva tanto desiderato, nelle notti insonni, accarezzare il corpo della sua amica, quel corpo che lei gli mostrava senza ritegno, con naturalezza totale, quasi non si accorgesse del suo turbamento, della sua eccitazione che pure era tanto visibile. Non aveva mai osato sfiorarla se non con gli occhi ed il pensiero, per non interrompere la magia di quegli incontri: sapeva che solo così avrebbe avuto accesso all’intimità di lei; ed ora, invece, era stata lei a prendere l’iniziativa, improvvisamente, donandogli quello che lui non aveva osato chiedere.
Non c’era più dubbio: quello era un addio.
Francesco si sforzò di rivivere tutti gli istanti dell’amplesso appena vissuto, di rinchiudere nella propria memoria ogni sensazione di quel momento, perché nulla andasse perduto, soprattutto il contatto con il corpo di lei bagnato di sudore e d’acqua marina ed abbandonato sul suo in un sonno ritempratore.
L’amava, ormai non c’erano dubbi! Iniziò a pregare Dio per sé stesso, cosa che non era solito fare, perché succedesse qualcosa che impedisse questo addio.
-”Ma sia fatta la Tua volontà, non la mia” e, recitando il rosario appreso da don Carlo, si addormentò.
Quanto tempo passò? Forse pochissimo: Francesco si ridestò di sobbalzo, accorgendosi che lei non era più su di lui e si rasserenò solo quando la vide seduta sullo scoglio nel mare, in fronte a lui, con le spalle all’orizzonte. Il mare avvolgeva impetuoso lo scoglio e la luce all’orizzonte disegnava un alone intorno alla sua figura che si stagliava come un’ombra in un mare di luce. Aveva già cantato!!
Si stropicciò gli occhi per vederla bene e rimase in fronte a lei, sulla spiaggetta distante poche decine di centimetri dallo scoglio. Le onde si abbattevano su di lui, ma, per quanto forti fossero, lo bagnavano, ma non gli facevano perdere l’equilibrio. La guardò e vide che i suoi occhi erano così luminosi da avere lo stesso colore della luce alle sue spalle. Fu allora che udì la sua voce, ne fu sicuro, anche se le sue labbra erano chiuse: quella era la sua dolcissima voce, che lui ben conosceva, la voce dell’amata e dell’amore.
– “Carlos, tu sai, vero, che devi partire?”
Perché lo chiamava così? Quello non era il suo nome!!
– “Sì, lo so Osilas, ma non so ancora dove devo andare”- rispose senza muovere la bocca lui o qualcuno dentro di lui; si sentì come in un sogno: parlava un’altra persona dentro di lui? E chi era? E chi era questa Osilas? Era il nome dell’amata? E soprattutto: che accidenti stava dicendo? Perché partire?
– “Ti sarà detto Carlos, ti sarà detto a suo tempo. Quando mi vorrai parlare sai come fare.”
– “Non so un accidente!”-pensò Francesco, ribellandosi, ma sentì la propria voce di un tempo, profonda e sicura, dire:
– “Sii prudente e sicura del mio amore; io ti amerò per sempre.”
Questo sì, questo Francesco lo avrebbe voluto dire anche lui, ma il resto? Che stava succedendo? Era stata trasmissione del pensiero? Ma del pensiero di chi? Allibito, la fissava e lo stupore era tanto che gli occhi non riuscivano a focalizzare i contorni della sua figura, i quali si perdevano così nella luce che sorgeva dall’orizzonte. Questa luce avanzò verso di lui, abbagliandolo, fino a fargli perdere il senso del tempo e dello spazio.
Si ridestò con fatica, come da un sonno di ore, e fu stupito di trovarsela ancora lì, addormentata sul petto come dopo l’amore, quando aveva iniziato la preghiera del rosario. Aveva sognato? Faticava a crederlo: era tutto così reale!
O meglio, d’accordo, era tutto totalmente assurdo, ma gli era sembrato davvero di essere sveglio, che diamine! Le sensazioni fisiche erano fortissime e quelle voci….. poco a poco la realtà lo riprese e si convinse di aver semplicemente sognato. Lei si accorse, frattanto, del suo risveglio, e, dolcemente, si strinse a lui e lo baciò con una dolcezza infinita. Come avrebbe voluto poterle raccontare il sogno!
– “Dobbiamo andare”- disse dopo un poco e si scostò da lui, che fremette di dispiacere.
– “Detesto i lunghi addii, sei d’accordo? Dai, vestiamoci ed andiamo, non roviniamo tutto con piagnistei.”
Sì rivestirono rapidamente, lui guardandola ancora, il più possibile, come se non conoscesse già ogni particolare di quel corpo amato. Allungò la mano per accarezzarle ancora la schiena prima che la maglietta la ricoprisse e poi la prese per un braccio. Fece uno sforzo terribile per cercare il modo di farsi capire, ma lei rispose prima ancora che lui formulasse la domanda, mentre era ancora alle prese con la prima ridicola espressione facciale del suo mimo disperato:
-“Sì, certo che ci rivedremo, ma non qui. Questo mare sta per morire. Vieni, saliamo!”
La salita fu lentissima: Francesco esagerò la propria mancanza di agilità per ritardare il più possibile il momento dell’addio. Arrivati sul sentiero la abbracciò con tutta la disperazione del suo cuore solitario e bisognoso di tenerezza. L’aveva appena amata e già doveva lasciarla!
– “Che stupida, a momenti mi dimenticavo. Ti ho preso un regalino!”
Frugò nella sua sacca e ne estrasse un pacchettino ben fasciato con carta da regalo.
– “Aprilo quando sarai solo, così ti ricorderai di me!”
Ricordarla? E come avrebbe fatto a dimenticarsi di quell’angelo dalla voce di paradiso?
– “Ogni volta che avrai bisogno di me, sai come fare.”
Le stesse parole del sogno! Francesco trasalì e cercò disperatamente di dirle che no, che lui non sapeva come trovarla.
– “Canta, amore mio, canta come noi abbiamo fatto insieme in tutti questi giorni ed i nostri spiriti saranno uniti, come sempre!”
Ma che accidenti stava dicendo? Ma cosa gli importava del suo spirito? Era il corpo che voleva, quel corpo incantevole e docile fra le sue mani appassionate, o meglio era tutta lei, tutta! E poi lo prendeva in giro? Lui non poteva cantare: era muto! In quei giorni si era solo unito al canto di lei con il pensiero, con l’anima, ma era lei a produrre la magia, lei alla quale le onde rispondevano commosse! Lei era l’angelo e lui partecipava della sua bellezza, ma come spettatore ubbidiente! Ed ora se ne andava così, senza dargli nemmeno un indirizzo, un recapito, dicendogli che lui avrebbe saputo come trovarla!
Il viso di Francesco esprimeva tutto questo strazio, ma lei fece finta di non accorgersene: lo baciò e di scatto si mise a correre in direzione opposta alla galleria. Francesco rimase immobile, inebetito, invecchiato, con un piccolo pacchetto rosso tra le mani ed il viso solcato da due ruscelli incontenibili.
Passò una mezz’ora prima che trovasse il coraggio di riavviarsi verso casa, gli occhi gli si erano prosciugati e l’anima con loro. Trascinava i piedi come un vecchio e si sentiva veramente finito. Il sole, che in tutti questi giorni gli aveva trasmesso calore ed energia, ora lo bruciava rendendo i suoi passi grevi e faticosi. Aveva detto che si sarebbero rivisti, ma quando? Come? Lei non sapeva nemmeno il suo nome, né dove trovarlo!
Non gli rimaneva che seguire ancora una volta le sue indicazioni e cercarla come lei gli aveva detto di cercarla. Forse era davvero una maga, e…. si sentì sconfitto, vinto, ma aveva creduto all’incredibile, perché smettere ora? Si fermò ad un bar sul lungomare e bevve una bibita fresca. Non voleva che don Carlo lo vedesse così sconvolto, non voleva dare spiegazioni. Recuperò la calma esteriore pregando per tutta la strada, fino alla canonica.
Per fortuna don Carlo era assente, così poté raggiungere il proprio appartamento senza vedere nessuno che potesse immaginare la sua pena, senza avere la tentazione di sfogare con un estraneo quel dolore che era solo suo. Sul comodino, vicino al letto, c’era la fotografia di Carla. La prese con tenerezza e pensò: “Perdonami, povero amore mio.” Si addormentò, buttato a faccia in giù sul letto.
Dormì a lungo, fino al primo pomeriggio, quando don Carlo, preoccupato, lo venne a cercare.
– “Stai male?”
Lui fece cenno di sì con la testa.
– “Chiamo un medico?”
Gli fece cenno di no ed indicò il letto, per dire che aveva solo bisogno di dormire.
– “Non ti preoccupare, oggi penso io a tutto.”
L’umanità calda ed accogliente di don Carlo lo avvolgeva e provò la tentazione di confidarsi, ma sarebbe stato troppo complicato: lasciò perdere, lo ringraziò e, mentre il sacerdote scendeva per le scale, si mise a fare un caffè.
Il sole batteva ferocemente sulle imposte delle finestre ed il calore dal tetto si propagava all’appartamento di Francesco, situato all’ultimo piano della palazzina. Era un’afa agostana, fuori luogo per quel mese di giugno ed il suo corpo, che per due mesi non aveva sentito né la stanchezza né l’età, cominciò a dargli una violenta sensazione di disagio.
Stava bevendo con gusto la sua tazza di caffè quando un pensiero lo colse improvvisamente: balzò dalla sedia e corse ai piedi del letto, frugò tra le coperte e, trovatolo, cominciò ansiosamente a scartare il regalo dell’amata. Come aveva fatto a dimenticarsene?
Il viso di Francesco tradiva tutto lo strazio della sua anima; la carta volò via strappata con feroce impazienza e quello che apparve sconvolse totalmente la sua mente : gridò senza voce, gridò come se i muscoli del suo viso scoppiassero, era un grido dell’anima, un grido che proveniva dalle profondità della terra e non trovando sfogo nella sua voce spenta, esplose nel suo cuore, lasciandolo come morto. Si accasciò al suolo, esanime.
Il colpo sul pavimento fu udito da don Carlo che accorse immediatamente e lo soccorse. Chiamò subito il suo medico di fiducia, che gli fece il favore di interrompere le visite nel suo studio e di precipitarsi in canonica. Diagnosticò un’insolazione con stato febbrile acuto e gli somministrò con grande tempismo i farmaci necessari. Gli salvò certamente la vita.
A don Carlo disse che Francesco ora non correva più pericolo, ma che tassativamente doveva evitare la spiaggia, ora che il sole estivo metteva a dura prova la resistenza anche dei più giovani.
Avrebbe avuto qualche giorno di febbre, ma poi si sarebbe ripreso senza conseguenze. Don Carlo, confortato dalla diagnosi del medico di famiglia, si sedette ai piedi del letto e pregò per il malato, che non aveva ancora ripreso conoscenza, recitando la meravigliosa invocazione alla Vergine che Dante Alighieri mette in bocca a San Bernardo nel canto XXXIII del “Paradiso”:
“Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura………”
Poi si alzò e rimise un poco d’ordine nell’appartamento, lavò la tazza del caffè e raccolse gli oggetti sparsi per terra: della carta rossa, un nastro ed una piccola statuetta raffigurante un angelo con le mani levate al cielo e la bocca aperta in canto. Sotto il piedestallo dell’angioletto c’era scritto:
“A Carlos, con amore. Osilas.”
Francesco rimase in stato confusionale per molti giorni, anche quando la febbre lo aveva ormai abbandonato grazie alle cure del dottore; era incapace di alzarsi dal letto, incapace di pensare, incapace di darsi pace per quell’impossibilità che era divenuta possibile dinanzi ai suoi occhi. Qualcosa dentro di lui non poteva evitare di riconoscere l’evidenza di un avvenimento straordinario, qualcos’altro cercava disperatamente una spiegazione logica, qualunque fosse. Viveva in una sorta di dormiveglia dal quale si svegliava a tratti in preda all’angoscia più atroce.
Lui non aveva fatto l’amore con un angelo, di questo era sicuro; neppure per un minuto, in sua compagnia, aveva pensato a lei come ad un angelo, anzi l’aveva desiderata, concupita ed infine posseduta in un incanto di tenerezza, passionalità ed abbandono, in una fisicità! Lei aveva un lavoro, lo aveva detto lei stessa, aveva una vita propria, dunque non era un angelo! Non poteva esserlo!
Quella statuetta era un dono casuale: avrebbe potuto regalargli un maialino di ceramica intento a cantare ed invece, per caso, aveva scelto un angioletto. Questa era una spiegazione accettabile! Non era una creatura del paradiso apparsa solo per lui; si erano infatti nascosti per sfuggire agli occhi dei bagnanti curiosi, dunque loro avrebbero potuto vederla: lei era reale! Però come mai nessuno si era mai avvicinato a loro, nemmeno per caso, durante i loro incontri? Nessun pescatore, nessun bagnante..
No, no, il suo corpo era reale; era una donna ed una donna meravigliosa, dolcissima, profumatissima. Lui lo sapeva bene!
Sentiva ancora il suo aroma su tutto il corpo, a dispetto della fragranza malsana dovuta alla febbre. Sentiva ancora il contatto con la sua pelle, la sentiva ancora presente nella sua anima vinta e nel suo corpo sofferente.
Ma quel canto, quelle onde che si sollevavano, che giungevano a lambirla? Era un fenomeno naturale quello?
Ed il sogno fatto sulla spiaggia dopo l’amore? Di questo doveva prendere atto: non era stato un sogno! Ma anche ammesso che lei gli avesse parlato solo con il pensiero, perché l’aveva chiamato Carlos? E di chi erano quelle cose che lui con il pensiero le aveva detto senza volere, costretto da una volontà che non era la sua? Carlos…Osilas…la mente di Francesco si contorceva alla ricerca disperata di comprendere, di spiegarsi razionalmente l’accaduto o, per lo meno, di capire ciò che gli era chiesto di accettare come un dato inoppugnabile, per quanto assurdo gli potesse parere. Riviveva ogni istante di quell’ ultimo incontro: sapeva che il bandolo della matassa era in qualcosa che lei aveva detto o fatto, ma perché non riusciva a ricordarsene?
Quando le forze cominciarono a ritornare, grazie anche agli intingoli che la perpetua preparava espressamente per lui trascurando un po’ don Carlo, cercò varie volte, sollevandosi a fatica sul letto, di ripetere l’esperienza della meditazione, come la sua amica gli aveva insegnato: assumeva una posizione patetica, perché non gli riusciva assolutamente di incrociare le gambe e faceva un’espressione del viso tra il serio ed il corrucciato cercando di concentrarsi per chiamarla; ripensava a lei, la evocava con il corpo e con lo spirito, ma non c’era nulla da fare.
Il canto non sgorgava.
Passarono i giorni e quello che riprese a lavorare in parrocchia fu un uomo triste, vecchio, accorato; don Carlo non sapeva spiegarsi il motivo di questo suo mal genio, di questo deperimento fisico e spirituale, ma l’amico resisteva a qualunque suo tentativo di indagarne le ragioni. Spesso lo sorprendeva al lavoro in lacrime, con la testa china tra le mani. Don Carlo faceva finta di niente e presto prese l’abitudine di muoversi in modo rumoroso, perché Francesco si accorgesse sempre del suo sopraggiungere.
Il medico non sapeva spiegarsi, sul piano fisico, il mancato ristabilimento del malato: dovevano esserci ragioni psicosomatiche, forse un grande dolore. Don Carlo era veramente in pena, non osava chiedere direttamente, né riusciva in alcun modo a focalizzare il problema indirettamente. Aveva capito che era qualcosa che aveva a che fare con la statuetta, perché Francesco la teneva con cura religiosa e non tollerava che qualcuno la prendesse in mano, ma cosa? Quando gli chiese dove l’avesse trovata, Francesco scrisse che l’aveva comprata al mercatino delle pulci e nulla più.
In parrocchia si abituarono tutti a questa presenza lugubre, nera, silenziosa. Tanto egli esprimeva allegria prima dell’incidente, quanto ora sembrava sempre pronto per servire ad un funerale. Inutile consigliargli svaghi, inutile invitarlo a cene o a gite: declinava sempre l’invito, cortesemente, ma in modo fermo ed irrevocabile. Non lo si vedeva più guardare sorridendo i bambini intenti a giocare all’oratorio, né impegnarsi in partite a bocce o a briscola con gli amici pensionati. “Ha bisogno di una donna”- era il commento dei più tra gli amici parrocchiani, alcuni dei quali, vedovi come lui, ben conoscevano quel tormento.
Un giorno don Carlo aveva affrontato con lui l’argomento della morte e della vedovanza, pensando che forse lo avrebbe confortato e spinto a confidarsi, ma Francesco ascoltò tutto imperturbabile, annuendo a ciò che diceva, ma senza lasciar trapelare alcuna emozione.
Partecipava alle riunioni senza che sul suo viso si disegnasse più alcuna espressione, era apatico, senza nessun interesse per qualcosa che non fosse il proprio dolore, sempre assorto in altri pensieri: a volte si illuminava in viso come se avesse capito qualcosa di importante, poi si rabbuiava ancora più cupamente, come se il pensiero di prima si fosse rivelato una sciocchezza; era comunque sempre assente e spesso don Carlo doveva richiamarlo durante la messa, perché si dimenticava di assolvere a questa o quella funzione o suonava le campanelle fuori tempo o si metteva a passeggiare avanti e indietro alle spalle del celebrante, preso dalle sue riflessioni e dimentico della situazione.
Si era a fine giugno ed il tempo si era rifatto quasi autunnale: pioveva da giorni, come se il clima volesse compensare il caldo esagerato dei primi giorni del mese. Le attività della parrocchia andavano riducendosi sempre più e ci si preparava alla pausa estiva, in cui sarebbero rimasti garantiti solo i servizi essenziali e le messe. Quel venerdì si svolgeva l’ultimo consiglio pastorale parrocchiale prima dell’estate e c’erano in ordine del giorno la raccolta di fondi per le missioni, il rendiconto di cassa e le varie, cioè tutti i problemi lasciati irrisolti durante l’anno.
Oltre ai membri del consiglio, partecipò un missionario, padre Ignazio, che illustrò a lungo le urgenze di denaro e di aiuti che le missioni avevano un po’ in tutto il mondo. Si decise di fare una raccolta straordinaria durante le messe della domenica e ci si chiese come sensibilizzare la gente. Padre Ignazio si soffermò soprattutto su un progetto che gli stava molto a cuore: l’organizzazione di una scuola nella città di San Bernardo; occorreva soprattutto personale specializzato nella gestione economica, che avesse spirito manageriale ed imprenditoriale, per ottenere di fare del bene utilizzando al massimo le risorse. Pensando che San Bernardo fosse un paesino isolato dell’entroterra ligure, dettero un po’ tutti la propria disponibilità materiale per il periodo delle vacanze estive, salvo chiudersi in un silenzio vergognoso non appena fu chiaro che San Bernardo era a trenta chilometri circa da Santiago del Chile. Padre Ignazio passò dallo stupore per un’adesione così entusiastica, allo scoramento più totale e stava già implorando:
– “Davvero non conoscete nessuno al quale si possa chiedere…”quando una voce ferma e potente riecheggiò alle spalle dei consiglieri:
– “Vado io! Ho esperienza di management, anche se non specifica, e nulla mi lega qui.”
Si voltarono di scatto e videro il viso entusiasta e sorridente di Francesco. Si alzarono in piedi.
-“Francesco, ti rendi conto? Hai parlato!”- disse don Carlo.
-“Sì, ora è il momento: devo partire! Padre, la prego, accetti questo volontario: anche se non ho mai diretto una scuola, né redatto progetti per edificarne, mi occupavo di acquisti e vendite in una ditta di dolciumi ed ho dimestichezza con le cifre. Inoltre, non ho famiglia, sono solo al mondo e, se don Carlo mi dà la sua benedizione….”
Don Carlo, felice di rivederlo entusiasta e pieno di vita e felice di riascoltarlo parlare, girò intorno al tavolo e lo abbracciò con lo stesso calore con cui l’altro l’aveva abbracciato la seconda volta che si erano incontrati.
Sapevano entrambi che era un addio.
FINE SECONDA PUNTATA
(prossima puntata sabato 15 Aprile)
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Marcello Lippi.
Baritono. Nato a Genova, si è diplomato presso il conservatorio Paganini; e laureato presso l’istituto Braga di Teramo con il massimo dei voti. E’ anche laureato in lettere moderne presso l’Università degli studi di Genova. La sua carriera comincia nel 1988 con La notte di un nevrastenico e I due timidi di Nino Rota e subito debutta a Pesaro al Festival Rossini in La gazza ladra e La scala di seta. In seguito canta in Italia nei teatri dell’opera di Roma (Simon Boccanegra, La vedova allegra, Amica), Napoli (Carmina Burana), Genova (Le siège de Corinthe, Lucia di Lammermoor, Bohème, Carmen, Elisir d’amore, Simon Boccanegra, La vida breve, The prodigal son, Die Fledermaus, La fanciulla del west), Venezia (I Capuleti e i Montecchi), Palermo (Tosca, La vedova allegra, Orphée aux enfers, Cin-ci-là, Barbiere di Siviglia), Catania (Wienerblut, Der Schulmeister, das Land des Lächelns), Firenze (Il finanziere e il ciabattino, Pollicino), Milano ( Adelaide di Borgogna), Torino (The consul, Hamlet, Elisir d’amore), Verona (La vedova allegra), Piacenza (Don Giovanni), Modena (Elisir d’amore), Ravenna (Elisir d’amore), Savona (Medea, Il combattimento, Torvaldo e Dorliska), Fano (Madama Butterfly), Bari (Traviata, La Cecchina), Lecce (Werther, Tosca), Trieste (I Pagliacci, Der Zigeuner Baron, Die Fledermaus, Al cavallino bianco, La vedova allegra), Cagliari (Die Fledermaus- La vida breve), Rovigo (Werther, Mozart e Salieri, The tell-tale heart, Amica), Pisa (Il barbiere di Siviglia- La vedova allegra), Lucca (Il barbiere di Siviglia) eccetera. All’estero si è esibito a Bruxelles (La Calisto), Berlin Staatsoper (Madama Butterfly, La Calisto), Wien (La Calisto), Atene (Il barbiere di Siviglia- Madama Butterfly), Dublin (Nozze di Figaro, Capuleti e Montecchi), Muenchen (Giulio Cesare in Egitto), Barcelona (La gazza ladra, La Calisto, Linda di Chamounix), Lyon (Nozze di Figaro, Calisto), Paris (Traviata, Nozze di Figaro), Dresden (Il re Teodoro in Venezia, Serse), Nice (Nozze di Figaro, The Tell-tale heart), Ludwigshafen (Il re Teodoro, Serse), Jerez de la Frontera (Nozze di Figaro), Granada (Nozze, Tosca), Montpellier (Calisto, Serse), Alicante (Traviata, Don Giovanni, Rigoletto, Bohème), Tel Aviv (Don Pasquale, Elisir d’amore, Traviata), Genève (Xerses, La purpura de la rosa), Festival Salzburg (La Calisto), Madrid (La purpura de la rosa, don Giovanni), Basel (Maria Stuarda), Toronto (Aida), Tokio (Traviata, Adriana Lecouvreur), Hong Kong (Traviata), Frankfurt (Madama Butterfly), Dubrovnik (Tosca), Cannes (Tosca), Ciudad de Mexico (La purpura de la rosa), Palma de Mallorca (Turandot e Fanciulla del west), Limoges (Tosca), Toulon (Linda di Chamounix) ed altre decine di teatri in differenti nazioni del mondo.
Dal 2004 al 2009 ha ricoperto l’incarico di Direttore Artistico e Sovrintendente del Teatro Sociale di Rovigo. Nel 2010 è stato direttore dell’Italian Opera Festival di Londra. Dal 2011 al 2016 è stato direttore artistico della Fondazione Teatro Verdi di Pisa.
Dal 2015 firma come regista importanti spettacoli operistici in tutto il mondo: ha appena terminato il Trittico di Puccini ad Osaka (Giappone), Cavalleria rusticana di Mascagni, Traviata di Verdi, Don Giovanni a Pafos, Tosca, Rigoletto e sarà presto impegnato in altre importanti produzioni estere ed italiane come Jolanta e Aleko. Ha firmato la regia anche di opere moderne come Salvo d’Acquisto al Verdi di Pisa e barocche come Il Flaminio con il Maggio Formazione di Firenze
Docente di canto lirico in conservatorio a La Spezia, Alessandria, Udine, Ferrara e ora a Rovigo
Ha insegnato Management del Teatro all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano.
Ha fatto Master Class in varie parti del mondo, per esempio Kiev (accademia Ciaikovski), Shangai, Chengdu, Osaka, San Pietroburgo, San Josè de Costarica ed in moltissime città italiane.
Musicologo, ha pubblicato molti saggi: Rigoletto, dramma rivoluzionario 2012; Alla presenza di quel Santo 2005 quattro edizioni e 2013; Era detto che io dovessi rimaner… 2006; Da Santa a Pina, le grandi donne di Verga 2006 due edizioni; Puccini ha un bel libretto 2005 e 2013, A favore dello scherzo, fate grazia alla ragione 2006 e 2013; La favola della ”Cavalleria rusticana” 2005; Un verista poco convinto 2005; Dalla parte di don Pasquale 2005; Ti baciai prima di ucciderti 2006 e 2013; Del mondo anima e vita è l’amor 2007 e 2014Vita gaia e terribile 2007; Genio e delitto sono proprio incompatibili? 2006 e 2012; Le ossessioni della Principessa 2008 e 2012; Dal Burlador de Sevilla al dissoluto punito: l’avventura di un immortale 2014; L’uomo di sabbia e il re delle operette 2014; Un grande tema con variazioni: il convitato di pietra 2015; E vo’ gridando pace e vo’ gridando amor 2015; Da Triboulet a Rigoletto 2011; Editi da Teatro Sociale di Rovigo, Teatro Verdi di Padova, Teatro Comunale di Modena, Festival di Bassano del Grappa, Teatro Verdi di Pisa.
Ha pubblicato “una gigantesca follia” Sguardi sul don Giovanni per la casa editrice ETS. Nel 2012 Ha edito un libro di poesie “Poesie 1996-2011” presso la casa editrice ABEdizioni. E’ nell’antologia di poeti contemporanei “Tempi moderni” edito da Libroitaliano World. E’ iscritto Siae ed autore delle versioni italiane del libretto delle opere: Rimskji-Korsakov Mozart e Salieri; Telemann Il maestro di scuola; Entrambe rappresentate al Teatro Sociale di Rovigo ed al teatro Verdi di Pisa. Dargomiskji Il convitato di pietra rappresentata al teatro Verdi di Pisa