Un vasto romanzo di Marcello Lippi
Young Cultura scende in campo con un esperimento letterario abbastanza inusuale ai nostri tempi: la pubblicazione di un romanzo di oltre 400 pagine a puntate a cadenza bisettimanale. La cosa oggi può sembrare bizzarra, ma alcuni dei più grandi capolavori della letteratura mondiale sono usciti per la prima volta proprio a puntate sulle riviste dell’epoca. Un esempio dite voi? Guerra e Pace, pubblicato per la prima volta tra il 1865 ed il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, vi basta? A noi sembra che con questo prestigiosissimo antenato possiamo andare in questa direzione con grande fierezza come rivista. E del resto Marcello Lippi, di cui abbiamo già avuto l’onore di pubblicare un Diario da Osaka, baritono di caratura internazionale, direttore Artistico del teatro Verdi di Pisa e regista egli stesso, personalità artistica che per poliedricità diremmo cinquecentesca, qualcosa della possanza Tolstoiana la dimostra nella sua stessa energica persona e noi di Young non da meno della Russkij Vestnik siamo rivista che vuole fare della cultura una direttiva fondamentale.
Auguriamo con ciò al lettore un buon viaggio in questa storia.
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PREFAZIONE
Scritto durante gli anni di permanenza in Cile dell’autore, questo romanzo racconta una storia affascinante e piena di colpi di scena, in cui agiscono fianco a fianco, secondo quella che è l’assoluta normalità nei paesi del Sudamerica uomini e spiriti, ninfe e personaggi letterari, tutti vivi di un’unica vita che da queste pagine prende corpo e significato. La vera protagonista è una donna, o meglio una creatura leggendaria della letteratura cilena, Osilas, la ninfa che oscilla (donde il nome) tra due mondi e che coinvolge, guida, illumina la vita dei protagonisti maschili. La sua voce è talmente potente e meravigliosa da muovere le onde del mare, il suo operare è benefico e potente per la vita di chi la incontra, siano esseri umani o personaggi letterari resi immortali dalla loro condizione e desiderosi invece di umanità. Il simbolo, il segno, le dimensioni dell’essere. La cattedrale nell’oceano è il racconto di tre vite, o non-vite, alla ricerca del significato del mondo: la prima attraverso la negazione della casualità e l’interpretazione estrema del reale come segno, la seconda attraverso la conflittualità dell’amore non corrisposto, la terza attraverso l’abbandono confidente ad un reale che supera i confini della normalità e ragionevolezza. Tre vite che si intersecano: quella di Pierre de Craon protagonista della pièce di Paul Claudel L’annonce faite à Marie , condannato per un gesto maldestro di violenza ai danni della giovane Violaine a peregrinare in eterno per il mondo con una lieve, ma contagiosa, forma di lebbra in corpo. Immortale perché personaggio di teatro, ma reale, più reale di altri personaggi, nella sua avventura fascinosa e ricca di sorprese, nel suo girovagare attraverso i secoli, maledicendo Dio per la punizione che gli ha inflitto, negandogli anche la redenzione, perché un reale tanto evidente nega la possibilità salvifica della fede; quella di un critico teatrale che, alle prese con un evento imprevisto e destabilizzante, il ritrovamento di una ragazza morente per overdose, si lascia coinvolgere, pensando a questo incontro come ad uno squarcio che deve spezzare la sua vita di prima e creare i presupposti per una nuova, nella quale gli si possibile intuire la ragione del suo esistere, operare ed amare; quella di un pensionato vedovo e solo che incontra uno spirito su una scogliera ed accetta di seguirne le indicazioni fino ad avere una nuova meravigliosa vita in Sudamerica accanto ad una giovane fanciulla. Cos’hanno in comune? Forse nulla, forse un mondo di sensazioni e verità che appartiene solo a loro e del quale Osilas, la creatura del mito andino che oscilla tra le due dimensioni e si coinvolge con l’esistenza di tutti e tre, possiede le chiavi. Il lettore è chiamato ad accettare in questa opera non solo l’operare congiunto di creature terrene, di esseri intermedi tra la dimensione della materia e quella dello spirito e di personaggi di teatro umanizzati, ma anche che i personaggi di una storia corrispondano a quelli dell’altra, che un personaggio possa essere nel contempo morto e vivo in uno sdoppiamento che trova le sue ragioni nel suo essere fortemente angelico e nel contempo simbolico.
Redazione Cultura
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L’inconsapevole trinità
o
La cattedrale nell’ Oceano
ROMANZO di MARCELLO LIPPI
1
– “Non è possibile, Dio mio, non può essere!”
Alessandro non riusciva a muovere un solo passo verso quel fagotto scuro, più nero della stessa notte, gettato in un angolo della strada come un sacco di rifiuti.
Avvertiva uno strano malessere, come se il battito cardiaco avesse perso la peculiare regolarità, come se la relazione d’ordine e funzionalità tra gli elementi della sua fisicità si fosse interrotta e tutto agisse di propria iniziativa, tutto indipendentemente da lui, tutto contro di lui.
Fino ad un istante prima ( ma quanto tempo era in realtà passato?) era immerso nei propri pensieri, certo non lieti, ma sotto il suo controllo, così distanti e per questo tranquillizzanti: stava pensando ad Anna, valutando i pro e i contro di quel matrimonio così affrettato, così incombente sulla propria libertà ed ogni tanto, aiutato in questo dalla consuetudine nel percorrere la strada di casa quasi automaticamente e sovrappensiero, si arrestava per trattenere più agevolmente un’idea, per analizzarla.
A volte si appoggiava al muro di una casa o ad un palo e restava così per molto tempo, immerso in pensieri più forti della stessa realtà, più assoluti della stessa vita. Amava quel momento tutto suo, dopo aver lasciato Anna con il suo rossetto ancora sulla guancia; amava quell’ora notturna, quel raggiungere casa senza fretta, vagabondando per le vie deserte della città, libero dal tempo, libero dalla grevità dei fatti e delle responsabilità, libero da se stesso e padrone di inventarsi un altro se stesso in interminabili sogni ad occhi aperti. In essi costruiva la vita di quell’Alessandro Morlacchi che avrebbe voluto essere e ne era creatore e padrone tanto da poterla distruggere, se lo avesse desiderato, anche solo un attimo dopo averla concepita. Si sentiva felice in quegli istanti, padrone della possibilità, del diritto di scelta sulla propria esistenza e sugli eventi ad essa correlati, una libertà che tante volte si era o gli era stata negata. Ma un fagotto nero schiacciato contro il muro di quella casa dalle pareti scrostate, compresso tra due bidoni stracolmi, cosa aveva a che fare con il suo mondo? Perché proprio in quel momento lui si era girato verso quel punto seminascosto nell’ombra ?
Chissà quante persone erano passate di lì prima di lui e sicuramente nessuna aveva gettato uno sguardo nelle tenebre, oltre le tenebre, e notato quel qualcosa che lì non doveva essere. Perché non aveva fatto lo stesso anche lui? Perché quell’istante di coscienza proprio in quel punto? Toccava a lui? Quella “cosa” aspettava lui? Si rispose di no e lo fece a voce alta, per sentire il suono della propria voce, per darsi forza. Cosa doveva fare? Doveva andare a controllare cosa fosse o andarsene rimanendo con il dubbio? La seconda ipotesi prevalse per alcuni lunghi, interminabili momenti, ma il suo corpo restava lì, e più Alex decideva di scostarsi dalla visione, più i suoi occhi tornavano a proporgliela.
– “Se è ciò che temo, domani lo leggerò sui giornali. A che serve coinvolgersi? Mi toccherebbe testimoniare, potrei avere dei
guai, magari essere sospettato di qualcosa.”
Ma no, sicuramente era un sacco d’immondizia e la tenebra gli stava giocando un brutto scherzo! Già altre volte, del resto, aveva avuto l’impressione di vedere cose irreali nel mistero della notte, sin da bambino.
Questo pensiero lo tranquillizzò ed il sogno tentò di riprenderlo: si immaginò che non fosse immondizia, ma un corpo umano, e che lui, esperto delle tecniche di rianimazione, salvasse una bellissima fanciulla, aggredita dai malviventi, da una morte altrimenti inevitabile.
Sorrise, pensando alla gelosia di Anna, e fece per allontanarsi, soddisfatto della propria scelta. Fu allora che ebbe l’impressione di udire un gemito. Non lo udì con le orecchie, di questo fu sempre sicuro quando ebbe a ricordare quella notte. Lo sentì nell’anima e fu una sensazione tremenda, come se venisse richiamato da profondità insondabili ad accostarsi a quella cosa, ad avvicinarsi sempre più.
Ed i passi lo condussero dove egli non voleva : in un attimo fu là davanti, spostò uno dei bidoni rovesciandone in parte il mefitico contenuto e, senza pensare a nulla, per una volta divenuto puro gesto, completamente racchiuso nel proprio agire, scostò una lercia coperta. Non fu sorpreso di vedere un viso di ragazza, lo aveva appena sognato ad occhi aperti, ma fu sorpreso dal fatto che per la prima volta il sogno e la realtà si fondessero, tanto da rendergli impossibile il delinearne i confini.
A questo non era preparato e si sentì perduto, senza riferimenti temporali o spaziali, con una belva feroce che lo addentava da dentro, da un punto preciso nel profondo del suo stomaco, e gli rendeva affannoso il respiro ed offuscata la coscienza.
Non era giusto! Il sogno doveva essere ben distinto dalla realtà, un mondo parallelo, confortante, felice, il “suo” mondo più autentico; non farglisi incontro e ghermirlo così, all’improvviso.
Fu per questo che si sentì annientato di colpo, privato di tutto, nudo. Non fece altro che guardare quel viso, guardarlo….. e più lo guardava, più sentiva nell’ anima quella voce, un lontano lamento, un richiamo indistinto che avrebbe potuto provenire da una fata o da un angelo. Sicuramente non proveniva dalle labbra di lei che erano chiuse, quasi bianche, spente.
Decise subito che doveva essere senz’altro morta e non osò toccarla: si allontanò di un passo, forse due, e guardò, ne percorse i lineamenti, bellissimi nonostante le macchie, le troppe macchie che ne lordavano il viso: doveva avere vent’anni, forse ancora meno. Chissà cosa le era capitato! Certamente una brutta storia, forse di droga; che tristezza finire così e per di più così giovane! Avvampò di furore moralistico e lo stupore e lo sconcerto lasciarono il posto al risentimento: perché non era rimasta a casa con la sua famiglia invece di venire a morire lì, nella strada, proprio dove sarebbe passato lui?
Alex pensò che avrebbe potuto esserci già arrivato a casa, dove, sereno per la bella serata passata con Anna e rassicurato dallo scorrere potente del suo mondo parallelo, si sarebbe addormentato come sempre, immaginandosi tra le braccia di molte donne, sicuro e forte.
E invece era lì, di fronte a lei, incapace di distogliere lo sguardo da quel viso così puro e così assente e sentiva la rabbia montare dentro di sé, alimentata dalla strana consapevolezza che quella ragazza era lì per rubargli il suo mondo e la sua pace e che nulla da quel momento sarebbe più stato come prima. Occorreva reagire, ma come?
– “Ora avviso la polizia e me ne vado a casa; dopodiché, bellamia, come mai incontrati ! Cercherò di calmarmi, forse un
buon bicchiere e addio per sempre”.
Alex era sempre stato terrorizzato dall’avvicinarsi dei suoi trent’anni e soprattutto dai primi cedimenti delle facoltà mnemoniche, ma in quell’istante pensava con gratitudine alla propria imperfezione ed alla splendida capacità di dimenticare che hanno tutti gli esseri umani per preservarsi dalle distruzioni operate dagli eventi luttuosi, dal rimorso e dal dolore.
– “Il tempo è un grande medico, ti penserò ancora per qualche giorno, poi sarà tutto finito. Peccato non esserci conosciuti prima, quando eri un po’ più in forma”.
Sorrise delle propria stupida ironia e si sentì, grazie ad essa, di nuovo padrone della situazione, della quale cominciò ad analizzare tutte le componenti. Innanzitutto doveva chiamare qualcuno e forse la cosa migliore era di farlo in modo anonimo, così si sarebbe evitato i fastidi delle testimonianze e magari qualche sospetto da parte delle autorità. Avrebbe chiamato un’ambulanza; ecco, questa era la cosa migliore!
Un passante si è imbattuto in un cadavere e da bravo cittadino lo ha segnalato prontamente. Non poteva però farlo dal proprio telefono portatile: avrebbero potuto risalire a lui, doveva cercare una cabina telefonica. Accidenti! Nemmeno una monetina in tasca! Niente da fare, bisognava raggiungere il più vicino locale pubblico e telefonare di là .
Si avvicinò alla ragazza in modo incosciente e fece per coprirle di nuovo il volto, come aveva visto sempre fare alla televisione, quando la polizia trovava un cadavere. Ancora molti anni dopo quella notte, Alex raccontava, a chi lo voleva ascoltare, che fece quel gesto assolutamente senza pen-sarci, in modo naturale: era un suo gesto, appartenente al suo essere primario, al suo inconscio, alla sua originalità.
Quel gesto, come l’altro del suo primo avvicinarsi al cadavere, era un gesto puro, un’Azione che lo determinava in quello istante e lo avrebbe determinato per sempre: era un atto pesante, fondamentale, significativo. Ed ogni volta che Alex ancor oggi ricorda quel momento, gli occhi gli si velano per l’emergere di una paura remota; lui era tutto in quel gesto, quel gesto era lui, il vero lui, la sua vera natura, ed Alex non poteva farci niente…niente!
Prese tra le dita l’orlo della coperta, attento a non sporcarsi, e, prima di coprire quel bel viso, gli gettò distrattamente una ultima occhiata. Gettò un grido e si ritrasse!
– “Dio mio, cosa mi succede?”
Era sicuro, assolutamente sicuro che gli occhi della ragazza prima fossero chiusi, come addormentati. Ma ora lo fissavano ed era uno sguardo vuoto, lo sguardo di chi non vede, o vede troppo a fondo. Alex se ne sentì trapassato come da una lama. Viva?
– “Oddio santo , ho perso tanto tempo , come uno stupido! Devo chiamare aiuto!”
La vita lo stava prendendo nel suo ingranaggio e gli chiedeva un coinvolgimento al quale non era preparato. Prese il telefono portatile e, formato il numero delle emergenze, vi gridò qualcosa ad una donna che non capiva! Poi riattaccò ed il respiro era talmente accelerato e potente da impadronirsi di lui ed impedirgli perfino di pensare.Cosa doveva fare? E perché non arrivava ancora nessuno?
Si riaccostò , come un automa , e decise di parlarle , di rassicurarla dicendo che i soccorsi stavano arrivando, d’aver pazienza ancora un istante e di non morire, per favore, perché era troppo bella per farlo, troppo! Ma non osò toccarla. Fu allora che ebbe la sensazione che qualcuno fosse alle sue spalle e si voltò, subito, senza pensare, sperando in un aiuto, in un inviato della Provvidenza al quale affidare l’attesa dei soccorsi.
Ancora in quell’istante il suo desiderio principale era infatti quello di allontanarsi , di sparire , di far che quel brutto sogno continuasse senza di lui, di riagganciare il filo interrotto della consuetudine delegando a qualcuno la preoccupazione dei soccorsi, di andarsene libero come è libero chi s’illude di non aver responsabilità e fa del disimpegno la propria fragile difesa contro il mondo e la sua sofferenza. Andarsene a dimenticare al più presto, a scacciare il pensiero doloroso con altri pensieri più intensi, con un altro mondo perfetto, costruito a sua misura.
Socchiuse gli occhi per aumentare la capacità visiva e, come aveva fatto prima, penetrare nella tenebra, violarne il segreto per scoprire chi, al di là della strada, sull’altro marciapiede, lo stesse spiando. Chiamò. Fece appena in tempo a vedere i contorni di una figura, che gli sembrò essere un uomo di una certa età, vestito in modo strano, desueto, come di un’altra epoca. Questi disparve subito nella tenebra nella quale riecheggiò una sorta di risata lunga, assurda, perché del tutto fuori posto in quel contesto d’attesa angosciante: Alex se ne sentì ferito e si mise a correre per raggiungere quell’uomo.
Costui non aveva il diritto di andarsene lasciandolo solo con il peso di quella situazione, condannato a non poterne uscire, forse per sempre. Questo pensiero rese ancora più veloci i suoi passi e più affannoso il respiro: non poteva permettersi di non raggiungerlo. Innanzitutto, egli avrebbe dovuto rendergli conto di quella risata: avrebbe anche potuto ucciderlo per quell’offesa! Di chi aveva riso? Forse della sua stupida incapacità ad agire, della sua inadeguatezza alla vita? O aveva letto nella sua mente e conosceva anche la sua vigliaccheria? Doveva sapere!
Ma più Alex correva, più sentiva l’inutilità del suo correre: quel vecchio, se era poi tale, non avrebbe potuto correre così veloce ed arrivare tanto lontano; doveva essersi nascosto in qualche portone, doveva essere riuscito ad eludere la sua rabbia e le sue domande.
Fu in quel momento che l’aria fresca della notte fu squarciata dal suono violento e penetrante di una sirena ed Alex sentì le grida dei soccorritori e capì che non riuscivano a trovare la ragazza .
Con tutto il fiato che aveva ancora in corpo fece a ritroso la strada, chiamò, gridò, pianse, li portò da lei. Poi la corsa allo ospedale , la folle corsa su quel mezzo così scomodo, così pericoloso, tenendo teneramente la mano di lei tra le sue, lui che non aveva osato toccarla prima. Alla terza testata contro un oggetto metallico che sporgeva vicino alla lettiga, pensò che rischiava seriamente lui di non arrivare vivo alla méta.
Si sentiva preso dalla realtà, prigioniero di qualcosa che non riusciva più a controllare, come una forza impazzita che l’attirava in un vortice di perdizione, e cercò con tutte le sue forze di smettere di pensare, di far sì che il vortice lo possedesse interamente, perché solo così, non opponendosi, sarebbe riuscito a salvarsi.
Lei, intanto, lo fissava con uno sguardo vuoto e sperduto, come se solo il suo corpo fosse rimasto lì e la sua anima volasse già felice in quell’aldilà nel quale Alex aveva sin da piccolo sperato e creduto. Com’è solo un corpo quando viene abbandonato dalla creatura che l’ha abitato! E’ desolato, una cosa inutile e penosa, per di più molesta ai sopravvissuti perché li rende partecipi del mistero della morte, al quale eviterebbero invece sempre accuratamente di pensare, come se non li riguardasse affatto.
– “Come sei bella, come sei bella!” pensava Alex , sempre più abbandonandosi agli eventi, sempre più in gioco con la propria vita.
2
“L’esistenza di un uomo, di qualunque uomo, può essere riassunta citando pochi fatti, come in una breve biografia scritta in margine ad un libro scolastico di storia. Pochi fatti, cancellando con un semplice tratto della mano anni di sopravvivenza faticosa, di giornate senza fine, di passi disorientati alla ricerca di una méta troppo sfocatamente intravista. Sono gli Avvenimenti: i fatti importanti capaci di cambiare il corso di una vita; capaci di rendere il futuro totalmente diverso dal passato, anche se nulla fosse apparentemente cambiato nella quotidianità di un’occupazione o di una casa; anche se il cambiamento avvenisse solo per la coscienza che nulla, dopo quel certo Avvenimento, potrebbe più essere come prima.
Per alcuni di noi i cambi di rotta, le illuminazioni, le decisioni radicali sono molte ed evidenti, spesso ponderate e sofferte, per altri poche e spesso poco visibili alla superficie, quasi impercettibili: occorre una coscienza desta ed attiva per accorgersi che in quell’attimo qualcuno ha scelto e che ogni scelta, per quanto piccola, porta con sé una morte ed una nuova vita.
Il vero Avvenimento è infatti un incontro con qualcosa di diverso e talmente coinvolgente e sconvolgente da destare la coscienza ed, in conseguenza, da aiutarci ad essere veramente noi stessi, nel nostro essere inermi, nella nostra dipendenza da altro, nella nostra caducità, ma nella grandezza della nostra umanità: è un’irruzione di un qualcosa, di un qualcuno che costringe l’identità dormiente a scuotersi e creare. A me capitò alcuni anni fa, un 27 di settembre, (ricordo perfino la data!), in un momento di malinconica disperazione, quella disperazione che non è causata da un evento luttuoso o da un fallimento, ma è come un morbo che ti entra nel sangue e te lo consuma dal di dentro, silenziosamente, senza darti la possibilità di una reazione.
Ero stanco, stanco di ogni cosa, soprattutto di me stesso e del mio limite frustrante, della mia pochezza, della mia inadeguatezza e decisi che non potevo più essere una creatura irrealizzata, una perenne ipotesi: la mia evoluzione umana doveva svolgersi compiutamente, a qualunque prezzo, anche se l’esito finale dovesse non piacermi. Accettai il rischio di un’uscita violenta dalla banalità di un’esistenza incosciente come quella di tanti miei simili, che scelgono di non sapere per non soffrire e di negarsi un impegno con la vita per proteggersi dalle avversità con la robusta scorza
della stupidità. Lo decisi, come chiamato da una voce potente a trovare la verità, la parola inequivocabile e definitiva sulla mia esistenza, e dovevo trovarla da solo. Ricordo che annotai a margine di un libro, assieme alla data: “Oggi risorgo!”
Mi chiusi in ore di meditazione profonda e di lettura disordinata, moltiplicando gli spazi dediti alla ricerca di quale fosse il segno del divino, inteso come mia ragione ultima e mio significato: cercavo infatti il suo modo di manifestarsi insito nel fluire apparentemente cieco delle cose.
Ne parlai a Claudio, il letterato della nostra piccola cerchia di amici, sicuro che mi avrebbe riempito di citazioni e speranzoso di trovarvi un’illuminazione, ma non fu così. Passeggiammo lentamente, in un tramonto raro per luminosità e nitore, godendo di quell’atmosfera così propizia allo approfondimento spirituale, al presagio, ma nessun autore da lui citato azzardava ipotesi verosimili sull’argomento, solo domande senza risposta rivolte ad interlocutori muti.
Né l’idea vincente si affacciò poche sere fa, quando gli amici, radunati al Moka Bar per il solito rito del sabato sera trascorso a bere birra ed a parlare di importantissime futilità, reagirono con lazzi al mio abituale silenzio ed io non trovai di meglio che dire di colpo, seguendo il fiume dei miei pensieri: -“Io sento , avverto che, se la verità di me ha un canale per manifestarsi nella concretezza della quotidianità, questo deve ricercarsi nella corporeità, nella fisicità, perché il corpo è tempio, è casa e dunque è fatto per essere abitato da qualcosa di contingente, qualcosa che non trova posto nella elucubrazione, né nella ragione, la quale è solo per riconoscere non per ospitare, né nel sentimento, che avalla sì un’adesione, ma può essere reattività dell’umano ad uno stimolo esteriore o il semplice prorompere di una creatività inespressa, no…. no… ma dove dunque, dove si annida il ganglio, dove s’interseca l’io con l’Io più profondo e si genera la verità dell’uomo e sull’uomo?”
Alzai il viso e vidi gli sguardi straniti dei miei amici, nonché dei commensali del tavolo accanto al nostro e, se i primi erano abituati alle mie uscite fuori luogo e mi ritenevano in cuor loro un amabile pazzo, simpatico ed innocuo, lo stupore dei vicini era totale.
Se non ricordo male, prese la parola Bruno, un caro amico dei tempi della scuola, titolare della palestra più scalcinata della città, che, dalla montagna di muscoli che portava in giro con malcelata soddisfazione, fece uscire una voce d’oltretomba, simulante preoccupazione e turbamento: – “Alessandro mio, da quanto tempo non ti fai vedere in palestra? Lo vedi, se non ti stanchi con un po’ di sport, se non sfoghi questa energia che accumuli in eccesso, poi la tua psiche ne soffre e pensi troppo.”
Si unì subito Giovanna, per consigliarmi una cura rilassante a base di tisane che le era stata raccomandata da una amica e sulla validità della quale non aveva nessun dubbio, anche se non l’aveva mai sperimentata personalmente per mancanza di tempo.
Il dibattito sulle mie preoccupanti condizioni psichiche in breve degenerò e mi fu consigliato un po’ di tutto: dai massaggi Shiatsu, ai thailandesi ( descritti nei minimi particolari erotici da un voyeur del tavolo affianco dal nome di Fernando o Armando, non ricordo), al tennis, alle saune, alle passeggiate variante jogging o variante giardinetti, mare, monti e perfino un assai poco salutistico ricorso ad un analista. Questo mi fu suggerito da Paola, una segretaria che aveva già collezionato due mariti ed innumerevoli amanti e speso fior di quattrini per sentirsi dire che la sua ninfomania era colpa del padre possessivo ed invadente che aveva inibito la sua sessualità e che il problema non era come uscirne, ma come conviverci.
Ovviamente, visto che i tempi spingono al salutismo edonistico, la sua proposta fu salutata da un coro di dotte disapprovazioni che riuscirono a farla piangere sommessamente.
Decisi di porre termine agli sproloqui e ripresi la parola per protestare che non mi ritenevo assolutamente bisognoso di cure, giacché mancavo del requisito base: non ero assolutamente malato, anzi non credevo nella malattia, che non è altro che il risultato di un’energia negativa prodotta dal corpo che lo rende debole e predisposto alle aggressioni degli agenti esterni.
Usando il linguaggio che l’uditorio era più abituato ad ascoltare e soprattutto la parola-chiave “Energia”, che mi rendeva comprensibile a tutte le forme di umanità presenti, dal culturista all’esoterico, dal seguace della New-Age allo spiritista, mi riguadagnai un poco di considerazione e finalmente i volti si rasserenarono: ora capivano di cosa parlassi!
– “Sono solo un po’ stanco”- conclusi per sottrarmi ad una discussione che avevo involontariamente ed imprudentemente sollevato in un uditorio incapace di seguirmi nel mio mondo e nei miei problemi (avevo del resto interrotto un’animata discussione sul campionato di calcio!).
Terminai la birra e lasciai il gruppo.
Uscii dal Moka Bar immerso nei miei pensieri, nei miei dubbi, incontro alla notte così carica di richiami ad un mistero sempre più incombente sulla mia anima e sorrisi di tenerezza per i miei amici, così diversi, eppure così uniti da un sentimento irrazionale d’amicizia, quel tipo di legame che ha la sua ragione soprattutto nella paura di restare soli. Camminai, sentendomi come al solito diverso da loro, come a volte mi accade con sofferenza, a volte con orgoglio per il mio coraggio di non censurare niente, perché nulla è per caso, nulla è inutile. Ma ero ancora privo di un barlume d’ispirazione per scrivere qualcosa su quei maledetti fogli di carta che mi aspettavano a casa e non avevo nemmeno un’intuizione che facesse presagire la soluzione del quesito che mi aveva rovinato la serata.
Ed ora qui, solo pochi giorni dopo, su questa panca della sala d’attesa d’un ospedale sconosciuto, tutto mi si è rivelato, insospettabilmente! Non come risultato di un lungo percorso intellettuale, né di un gesto d’amore, ma come un lampo, perché la vita ha le sue leggi ed ogni singola esistenza ne segue il flusso.
La vita stessa ha deciso per me che ora fosse il tempo di capire o per lo meno di presagire. Ricordo molto bene un romanzo che amai moltissimo ed ancora amo, dove un grande scrittore dell’allora Repubblica Cecoslovacca affrontò il problema dell’immortalità a partire dall’analisi del gesto*, come punto di contatto tra la vita del singolo e la vita del tutto, concludendo però che il gesto, per la sua ripetitività e riscontrabilità in molte persone, non appartiene alla persona, bensì è la persona che appartiene al gesto e nel momento della gestualità attinge all’ambito dell’immortalità.
Ora tutto è chiaro! La chiave è il gesto, il gesto puro, inconsapevole! Lì abita l’immortalità, ma non per la ripetitività, la sua pregnanza letteraria o la sua semplice perennità data dal fatto di appartenere ad uomini diversi in epoche diverse; non perché il gesto sia particolarmente grande o importante o gravido di conseguenze, ma semplicemente perché lì dentro, nel gesto inconscio, si manifesta un volere che è “altro”da noi, che non ci appartiene ed al quale apparteniamo.
La verità di noi si manifesta ed è mistero indagabile solo a partire da questi piccoli spiragli. Non è una realtà generica, ma incarnata nell’umano. Perché il flusso dei miei pensieri si è arrestato proprio in quel punto della strada ed il mio sguardo, fino ad allora distratto, si è posato su quella macchia scura? Per caso? Sarebbe assurdo ed inutile negare ciò che l’esperienza elementare mostra ogni giorno a chi ha un minimo di ragione per discernere il significato dal significante. In quell’istante una volontà che non è la mia si è servita di me attraverso un gesto concreto; questa è la dimensione della rivelazione ed era giusto quanto avevo immaginato: essa si esplica attraverso la corporeità e l’azione, attraverso l’io-in-azione. Sì, ma adesso cosa devo fare?”
– “Signore, gradisce un po’ di caffè?”
Nulla è più violento e sgradito di una voce sconosciuta ed inattesa che di colpo ci sorprende mentre, dimentichi del mondo ed assorti nelle proprie riflessioni, si intravede, proprio in quello istante in modo irripetibile, la possibilità della intuizione geniale ed il pensiero scorre talmente veloce che si ha paura di non riuscire a seguirlo nel suo slancio vitale!
Uno schianto, il ritorno violento della sensibilità del presente, della connessione con la contingenza, ed un senso di vuoto che sommerge l’anima fino ad allora beata nel proprio orizzonte libero, con la sensazione di aver perduto una grande occasione per giungere là dove tutto di sé tende.
Tutto questo passò in un attimo sul volto di Alessandro, come un lampo, come un’energia distruttiva ed entrò nella sua voce che divenne roca, aspra, feroce.
– “Ma vada al diavolo!”
La vecchiettina si rannicchiò in se stessa, sorpresa e spaventata dall’assurdità della sua reazione.
Cosa aveva fatto di male? Aspettava da giorni in quello stesso corridoio, interrogando i medici distratti, supplicando, elemosinando notizie sul figlio ricoverato in quel nosocomio e si era ormai, con la saggezza ed il fatalismo della povera gente, organizzata per vivere a lungo lì, su quella panchina sporca di un triste corridoio d’ospedale attiguo al reparto di rianimazione, portandosi da casa cibo e bevande preparate con cura come per una gita, perché la disperazione è un lusso che la povera gente non può concedersi.
Era stato normale per lei offrire almeno un po’ di caffè a quell’uomo cupo in viso, che da quando era entrato non aveva rivolto la parola a nessuno dei presenti e stava a capo chino, in disparte, nel punto più nascosto del corridoio. Alex si rese immediatamente conto di quanto fosse fuori posto il suo sgarbo in un luogo dove regna la solidarietà e dove tutti, riportati dall’ esperienza del dolore alla propria umanità da tempo repressa, sono di solito generosi di sorrisi e buone parole, pronti ad ascoltare le altrui disgrazie, un po’ per non pensare, ma soprattutto per poter raccontare le proprie e sfogare quel rumore cupo che mugghia in fondo all’anima di chi veglia un proprio caro, nella notte, in una corsia d’ospedale.
Si guardò attorno come riemergendo da una voragine : dove diavolo si trovava?
Ah, già! La ragazza! Ma perché poi si era trattenuto? Perché stava vegliando una sconosciuta in coma invece di andarsene, al caldo, nel proprio giaciglio? E quella signora anziana che aveva maltrattato ed ora lo guardava come si guata un mostro, senza dar a vedere, cercando d’indovinare i contorni della sua deformità, era forse una parente della ragazza?
Cercò di rimediare con un repentino sorriso, che gli uscì sforzatissimo, allo sgarbo di prima e cominciò a raccontare fatti che gli sembravano sempre più lontani non appena gli venivano alle labbra.
Era come se con le parole si allontanasse anche il senso della sua presenza lì, del suo coinvolgimento con la vita di una sconosciuta, del suo attendere….ma che cosa?
Che cosa gli importava realmente? Cosa attendeva? Forse la curiosità era la molla che lo tratteneva, o la commozione, o la bellezza di quel viso spento? Forse l’amore?
Di colpo ristette e non s’accorse neppure di aver smesso di raccontare alla povera vecchia, che si rafforzò così nella convinzione della sua pazzia. Era inevitabile! Il flusso interrotto dei suoi pensieri lo riprendeva e lo portava lontano perché i fatti di quella notte erano carichi di un messaggio che solo lui era chiamato a decifrare: si sentiva eletto, prescelto da un destino superiore…..ma a che cosa?
Qual’era il significato di tutto ciò?
3
“Pierre, Pierre, fino a quando dovrai sopportare questa ripetizione assurda, questa immobilità sterile? Quanto durerà la condanna per ciò che facesti, per quell’attimo, quell’unico istante d’abbandono?
Sono ad un tavolo accanto alla vetrina del “Bouchon Lyonnais” e guardo esseri umani scorrere lungo rue Mercière come pesci in un acquario, con la stessa vacuità, la stessa illusione d’essere liberi in vasti spazi: avanti, indietro, qualche incontro di persona nota o qualche saluto imbarazzato ad un viso familiare, ma di cui s’è obliato il nome, e poi verso casa, verso il riposo che non è che un posarsi sul fondo della vasca per pochi istanti, spesso faticosi.
Nessuno sosta per un momento, nessuno ascolta quel battito sordo, potente, che ritma il motore dello stesso movimento: “non c’è tempo, non c’è tempo!” Ma il tempo c’è invece ed è greve come la rocca della Fourvière, incombe allo stesso modo, che si voglia o no, che ci si illuda o ci si rassegni.
Solo per me e pochi altri, gli eletti, i maledetti, tutto è un eterno costruire templi e tempi, stalle e recinti per ferinità indome o vilissime acquiescenze, per divinità ferite o cantori silenziosi, per sempre! Dio mio! Possa raggiungermi la tua redenzione e possa riposare. Il tuo servo è stanco.
Costruttore di cattedrali! Che gran destino il mio! Dalla pietra al cielo il passo è breve se si ha maestria, coraggio, passione; la materia è trasfigurata, piegata da una volontà potente ed è la perennità per colui che osa, che ascolta quel lento battito che a volte si fa canto, a volte grido o ninnananna e guida ad osare guglie sempre più alte, laddove lo sguardo si perde e la preghiera sorge spontanea anche nei cuori più duri.”
– “Ma, mi ascolti?”
“Oh, accidenti! Avevo dimenticato questa fragile creatura seduta di fronte a me, che si tormenta i capelli nervosamente e si morde il labbro ad ogni pausa, mentre cerca di spiegarsi! Ma cosa sta dicendo? Sono stanco, ho già sentito questa voce ed anche le stesse parole in più bocche, come se non appartenessero più all’umano, ma l’umano appartenesse a loro ed esse si incarnassero in storie e volti diversi per raggiun-
germi ovunque io sia, per condannarmi ad ascoltarle come ulteriore tortura, perché non bastano le piaghe, non basta il mostro che mi divora, per espiare!
Perdonato, ma sofferente! Amato, ma maledetto!
Oh, mi sono di nuovo distratto! Povera Catherine, sembra che non mi interessi il suo destino, ma non è cinismo il mio: è conoscenza. Tutto quello che sta dicendo è inutile, non è pietra da costruzione: è sabbia! Ma in fondo cosa vuole farmi sapere? Come sembra complicato! Lei prova affetto per me ed ha paura. Già, perché non crede al sesso senza amore, ma non è sicura di amarmi. Vorrebbe rischiare, però non vorrebbe che io pensassi a lei come ad una ragazza facile: ci conosciamo da pochi giorni ed invitarmi a casa sua potrebbe sembrarmi sfacciato.
Vorrebbe, ma non vuole; saprebbe, ma non sa. Quante Catherine ha in quel suo giovane corpo, in quei seni trepidi che fanno capolino dalla scollatura ad esemplificarmi l’unica sublimità della materia: la purezza impareggiabile di un corpo di donna negli anni dei primi amori?
Come deve essere logorante quella lotta in lei fra le diverse voci che si spartiscono la sua umanità : quella che lei chiama voce della ragione, ossia le convenzioni e leggi che altri hanno deciso per lei; quella che chiama voce della coscienza ed è il faticoso riemergere dell’esperienza elementare, del divino, di ciò che ognuno riceve, uguale in tutti, dalla nascita ed infine la voce potente del suo corpo, che i vari maestri le hanno insegnato o a far tacere perché peccaminosa o a far sovrastare le altre, in un esaltazione della fisicità che mal s’accorda con gli altri elementi di sé stessa. Disgregata, ecco! Questa è l’immagine esatta che mi descrive Catherine: una pietra frantumata. Non è dunque possibile far più nulla? Può ricompattarsi una pietra disgregata perché sia utile all’edificio?”
– “Pierre, ma tu mi ami?”
Lo sguardo di Catherine si posò di colpo, fisso per la prima volta, sul viso di Pierre, come se tutto il nervosismo di prima, quel suo cercare con gli occhi qualunque oggetto tranne gli occhi di lui, fosse tensione all’apice di questa domanda.
– “Come?”
Rimase inebetito, assorto com’era nei suoi pensieri a causa del profondo disinteresse per il mare di stupidaggini che lei gli stava propinando dall’inizio della cena:
– “Come? Amore? Ma chi ha parlato d’amore?”
La feriva, certo, e lo sapeva bene, ma non poteva fare altro; si era lasciato attirare in un vicolo cieco e doveva uscirne con chiarezza, come sempre, come fa un buon costruttore di cattedrali: pianificando ed edificando.
L’aveva invitata a cena un paio di volte, cominciò a spiegare, per non sentirsi solo in quella città sconosciuta, non perché volesse un’avventura o, meno ancora, una relazione seria con lei, come con nessun’altra. Non era quello il punto!
Non c’erano messaggi nascosti dietro il suo agire; non voleva nulla da lei se non il calore di una compagnia prima del prossimo viaggio.
Non poté dirle della malattia; non poté dirle che era contagiato e maledetto e che non aveva mai fatto sesso in vita sua a causa di quella volta……Quella volta!……Violaine! Quanti ricordi!
Catherine non sapeva bene come reagire. Cosa erano quei suoi improvvisi silenzi, quel suo allontanarsi da lei con il pensiero e vagare in altri mondi, lo sguardo perso o fisso su un oggetto insignificante? Doveva riconoscere in questo il grande artista che tutti ammiravano o un uomo egoista, innamorato solo delle proprie idee e disinteressato a quello che lei cercava di fargli capire?
– “Come sono fragile”- pensava, “avrei voluto dirgli: amami, ora, qui, sotto questo tavolo, davanti a tutti, fai di me la tua donna, perché tu sei vicino a Dio, tu gli parli ed io voglio vedere il tuo volto senza il velo di Mosè, come tua sposa, tua compagna, o comunque tu mi voglia. Dammi il tuo corpo, entra in me, che io senta la potenza del tuo spirito; che il mistero, che avverto così forte in te, si diradi, perché nessun mistero regge alla confidenza degli amanti, ed io possa così seguirti nel tuo viaggio, possa essere la materia del tuo prossimo lavoro! Scavami con la forza delle tue dita, tu sei l’unico uomo vero che io abbia incontrato!”
Ed invece……. aveva parlato a lungo balbettando, contraddicendosi, maledicendo in cuor suo di aver accettato quello appuntamento con un uomo che le metteva tanta soggezione e davanti al quale si sentiva indifesa e nuda. Era eccitata da questa nudità, ma ben sapeva quanto sia misero un corpo di donna che si libera dei propri vestiti senza suscitare nello sguardo altrui alcun desiderio, alcuna fiamma, solo indifferenza e, forse, pena.
Si sentiva così davanti a lui, lei che all’università aveva molti corteggiatori, giovani, aitanti molto più di quest’uomo, ma solo aspiranti costruttori! Pierre era il risultato che tutti loro messi assieme forse mai avrebbero potuto conseguire: l’unità di spirito e corpo, le mani che plasmano l’anima e ne sono plasmate, senza divisioni, senza fratture. Oh, se queste mani avessero potuto plasmare il suo corpo come creta e modellarlo come una nuova creazione!
Lei si sentiva pronta a concedere tutto a quell’uomo sconosciuto: qualunque cosa egli le avesse chiesto. Ma lui era assente, non sembrava interessato al sesso, non aveva reagito quando gli aveva proposto di andare a casa sua, si comportava con gentilezza, con affetto, l’aveva baciata sulla fronte, portata nel miglior ristorante, le aveva offerto una cena romantica a lume di candela, ma…. qualcosa pareva essersi inceppato. Forse lei aveva commesso un errore o detto qualcosa di sbagliato che lo aveva contrariato….. come capire?
Catherine in cuor suo rimpiangeva di non essere nata anche so-lo dieci anni prima, quando erano ancora gli uomini a farsi avanti con una donna e non viceversa! Presero il dessert, lei nascondendo a fatica le lacrime, lui parlando pacatamente di scelte vocazionali, di esigenze dello spirito che lei sicuramente avrebbe compreso e condiviso, perché era una ragazza diversa, diversa…. A quante ragazze aveva già fatto questo discorso? Tante da perderne il conto, tante da sentirsi anche lui un ingranaggio di questa ripetitività assurda alla quale era stato condannato dalla divinità.
Dio! Quante volte la voce di Pierre si era levata al cielo dall’alto di un campanile, mentre le campane riempivano l’aria dei loro rintocchi assordanti; lassù, ad un palmo dalle nubi, tutto il suo dolore, tutto il suo bisogno d’amore s’erano fatti urlo, le braccia tese verso l’alto, come in un rito misterioso, seguito sempre da un lungo, accorato, pianto liberatorio.
Aveva ormai preso l’abitudine di dormire spesso nei campanili delle “sue” chiese ed i parroci spesso gli consentivano questa innocua pazzia che lui giustificava a volte con dati tecnici, a volte spirituali, sapendo che comunque l’interlocutore non avrebbe creduto ad una sola sua parola. Sorridevano e si allontanavano scuotendo il capo: “Povero Pierre”. Già! “Povero Pierre”: quel bacio sulla soglia, quell’unico bacio!
Uscirono dal ristorante: l’aria della sera si era fatta greve e nell’umidità intensa si avvertiva un presagio di pioggia. Percorsero rue de la Republique quasi senza parlare, annusando l’aria come lupi, in attesa di un evento che non poteva non accadere. Si dissero poche cose, spinti per lo più dal desiderio di uscire da quell’imbarazzo, da quell’incomprensione maturata a tavola.
Parlarono di come fosse deserta la strada a quell’ora, con le luci dei negozi spente, rischiarata solo dai suggestivi fari inseriti nel selciato per illuminare dal basso le piante e percorsa da pochi gruppi di ragazzi, chiassosi ed infreddoliti, diretti ad un locale ove fingere di divertirsi. Pochi branchi, ma nessun lupo tra loro; nessuno che si fermasse un solo secondo ad annusare l’aria, a sentire la voce del monte, la musica delle nubi sospinte dal vento.
Allegria, chiasso, rumore, per non sentire….
Fu davanti all’Opéra che Pierre venne improvvisamente colpito da un particolare: ciò che le tante parole di lei non avevano saputo dire gliel’aveva rivelato il suo silenzio, il suo fremere con la natura di quella tensione che precede la pioggia. Il suo viso era contratto come il cielo, nello sforzo visibile, evidente a lui, di trattenere le lacrime fino a casa, dove avrebbe potuto rintanarsi nella propria solitudine ed essere finalmente se stessa, senza più balbettii e confusioni.
La sua mente doveva certo ripercorrere i dolorosi momenti di quella che per lei era stata sicuramente una brutta figura, uno sbilanciarsi al di là del lecito, uno scoprirsi più di quanto il pudore consentiva. Si sentiva denudata e desiderava in cuor suo ardentemente che lui la salutasse e se ne andasse per la sua strada, senza accompagnarla, per non vederlo mai più.
Ma Pierre andò al di là di questa emotività e si rivolse a Catherine con il tono pacato del costruttore:
– “Catherine, vedi, io ti trovo incantevole, desiderabile quanto nessun’altra donna mai, ma non voglio che questa notte accada qualcosa che ci leghi, perché io non posso aver legami, appartengo a Dio ed alla terra da cui strappo le rocce per i miei templi. Io sono un viaggiatore ed un viaggiatore non ha casa, né famiglia. Tu, Catherine, non meriti un’avventura di una notte, tu sei diversa!”
Diversa! Ogni volta che diceva questa parola uno strano sogghigno compariva sulla sua bocca che si inclinava curiosamente verso destra in una smorfia simile ad una maschera dell’antico teatro greco. Lei non gli credeva, ne era certissimo, eppure lui recitava la parte del saggio rassegnato mandata da tempo a memoria, quasi cercandovi un riparo, perché non c’è rifugio migliore di un personaggio che sappiamo immoto nelle sue battute e nei movimenti, ripetitivo, uguale a sé stesso recita dopo recita.
Catherine leggeva nel corpo di lui e sapeva che Pierre la deside-rava, ma perché allora si negava? Egli invece analizzava ferocemente i particolari comprensibili dello spirito della ragazza e di colpo disse:
– “C’è qualcosa di te che vorrei portarmi dietro nel mio viaggio, se tu me la vuoi donare.”
– “Dimmi.”
– “Vorrei la tua anima!”
Rise: scoppiò in una risata fresca, da ragazzina, liberatoria e consolatoria. Era il miracolo! L’impossibile che non poteva non accadere. Uscì dalla propria umiliazione di ragazza rifiutata e lo abbracciò forte più che poté, ridendo e piangendo insieme. Pierre non capì subito la trasformazione: lei ora si sentiva di nuovo sul suo stesso piano. Si mise a correre per gli scalini della piazza dell’Opéra gridando:
– “Prendimi, Mephisto, prenditela la mia anima!”
Pierre fu colto alla sprovvista e per un attimo gli venne quello strano stordimento che sempre lo coglieva di fronte alle poche novità della sua esistenza immota. Stava assistendo ad un evento, ad un piccolo spiraglio di novità nella condanna, ad una eccezione gratificante! Si mise a correrle dietro, non per raggiungerla, ma per gustare la gioia del correre, su e giù per il mare di gradini diseguali che un architetto folle ha disegnato per quella piazza, entrando con i piedi nell’acqua di un piccolo rivo artificiale destinato forse ad essere ornamentale e che segue il degradare degli scalini prendendo le acque dal vicino Rodano. Rideva anche lui, felice di farlo senza motivo, di essere per una volta irragionevole e diverso da sé.
Poi la raggiunse, o meglio lei si fece raggiungere, e l’abbracciò scoppiando in lacrime, stringendola forte, forte al petto, sentendo che le sue lacrime calavano come un balsamo di benedizione sui suoi lunghi capelli biondi. Non era più possibile tornare indietro, ora, non poteva rimettersi la maschera! Prima d’allora aveva osato mostrarsi solo al cospetto di Dio; perché ora questa ragazza, insignificante, una come tante altre, senza alcuna particolarità che la rendesse speciale ai suoi occhi, lo forzava ad essere ciò che non poteva essere, lo guardava dentro ?
Catherine lo prese per mano come se fosse un ragazzino, continuando nella sua ilarità un po’ garrula e molto strana, anche per lei stessa; grazie ad essa si era potuta sentire al fianco dell’ uomo che amava non più rifiutata: ora aveva paura di uscirne, paura delle parole, che già tanto male le avevano fatto.
Lo condusse su per una ripida salita verso la Croix Rousse e lui si lasciò tirare per la mano. Sapeva bene cosa lo aspettava, eppure si sentiva forte della propria impossibilità: non sarebbe mai giunto all’infamia di infettare e condannare un’altra creatura, ne era certo! Violaine…
Il ricordo di quel lungo bacio sulla soglia di casa, all’ombra accogliente di Monsanvierge, lo costrinse per un attimo a fermarsi; si appoggiò ansante al muro sporco di scritte illeggibili ed imbrattato di manifesti invitanti a concerti di musica “alternativa” e riuscì solo a chiederle di aver pietà di lui, perché le sue gambe non gli permettevano più di fare rapide ascensioni.
– “Mephisto non può invecchiare! Su, coraggio!”
Rimase colpito come da un fulmine: lei dunque sapeva? Sapeva che egli era condannato a questo? Respinse subito questo pensiero: nessuno poteva e doveva sapere. Del resto era stato attentissimo, viaggiando di continuo da un continente all’altro perché nessuno potesse conoscere mai la sua storia! Sempre senza amici: solo compagnie di poche sere, alle quali divertirsi a raccontare biografie strampalate. E se capitava un incontro casuale con qualcuno già conosciuto, era sempre pronto a negare di essere lui quello, oppure a spacciarsi per un fratello, per un figlio, per un nipote. A quanti se stesso era già succeduto nel suo lavoro di costruttore?
Si presentava come vedovo ( lui che mai aveva potuto amare!) con figli in qualche città lontana. Le amicizie importanti che vantava erano sempre servite a non avere problemi con i documenti personali. Una vita da clandestino, per lui che era sempre sotto i riflettori a spiegare la concezione ardita delle sue costruzioni, queste guglie gotiche così protese verso il cielo, inserite in un contesto architettonico moderno, e quei campanili con le travi ancora in legno che reggevano campane vere, non ancora sostituite da quelle orrende musiche preregistrate diffuse talvolta dagli altoparlanti di chiese non “sue”. No, lei non sapeva! Non era mai stata così vicina alla morte, ma non sapeva.
Pierre riprese a salire, mentre anche l’inquietudine allegra di lei sembrava placarsi , vinta dalla fatica dell’ascensione.
– “Ma questa salita la fai ogni giorno?”
– “E più volte! Serve a stare in forma, a rimanere giovani!”
No, di questo lui non aveva bisogno! Sorrise amaramente ed imboccarono rue Imbert Colomès, una via abitata prevalentemente da studenti universitari ed immigrati turchi, algerini e tunisini. Si stupì di vedere i negozietti dei mercanti arabi ancora aperti e, nel grigiore della via, lo colpì la giovinezza gaia degli studenti che si intravedevano dalle finestre illuminate conversare, fumare, fare musica. Da quanto tempo gli era sconosciuta questa giovinezza! Eppure la ricercava a volte ansiosamente, scegliendo sempre per compagnia quella di studentesse conosciute a qualche seminario o conferenza; ma, esse, appena in sua compagnia, perdevano quell’impulso vitale e si acquietavano, forse per non metterlo a disagio, oppure imbarazzate dall’essere in compagnia di un celebre architetto… insomma invecchiavano e diventavano noiose, problematiche, complicate sino allo inverosimile.
– “Ecco, il portone è questo!”
Entrarono in un antro oscuro che non aveva conosciuto interventi di manutenzione da molti anni e, dopo due rampe di scale, furono dinanzi alla sua porta. Il cuore di Catherine batteva forte, per l’emozione e per la salita. Passata la soglia, si trovarono di nuovo davanti ad una serie di porte, perché il proprietario, per affittarlo meglio agli studenti, aveva suddiviso l’appartamento in più studios e lei, forse sperando di far ingelosire Pierre, gli fece segno di non far rumore perché accanto a lei abitavano due studenti giovani e carini che le facevano la corte.
L’appartamento era quello tipico di questo quartiere, dove una volta vivevano i tessitori: sfruttava gli alti soffitti per ricavare dei mezzanini, per cui il locale, una sorta di loft con solo il bagno chiuso da una porta ed inserito sotto un mezzanino, era provvisto di due camere da letto sopraelevate, sempre in comunicazione con il resto dell’appartamento. La soluzione non garantiva alcuna intimità, ma sfruttava bene lo spazio.
Pierre ammirò moltissimo i muri in pietra viva ed il legno dei mezzanini e del soffitto, a travi parallele, poco curate in verità, ma di indubbia bellezza.
Sembrava una baita di montagna e forse assomigliava tanto a qualcuno dei suoi campanili, per cui Pierre sentì subito una corrente di simpatia verso quell’alloggio, nonostante il mobilio fosse molto semplice, ridotto al minimo come quantità e qualità.
Catherine accese alcune lampade che seguivano il filo della parete in pietra e che dettero alla casa un’atmosfera calda, complice, evocando la luminosità di un fuoco acceso in un camino. Pierre era a proprio agio come non mai e si sedette sull’unica poltrona con un sorriso sereno, abbandonandosi al piacere dei ricordi, sognando di essere nella propria casa, lui che non ne aveva mai avuta una, né aveva mai potuto costruirne.
Approfittò dei pochi minuti nei quali Catherine ascoltò i messaggi sulla segreteria telefonica per spaziare con lo sguardo al di là dei vetri delle ampie finestre, intrufolandosi nelle intimità degli appartamenti dei palazzi di fronte, studiando quei giovani corpi nei loro movimenti troppo rapidi, travolti com’erano dai riti del loro tempo: telefono, televisione, stereo, computer. Non c’era una finestra dalla quale non trasparissero volti gaiamente nervosi, tesi ad una superficialità difficile da sostenere.
“Sabbia”- pensò Pierre, con tristezza- “sabbia….”
– “Cosa dici?”
Catherine si era cambiata: ora indossava solo una T-shirt bianca con una scritta enorme “Don’t walk on the grass, smoke it” (“Non calpestare l’erba, fumatela”).
Era abbastanza lunga per essere portata senza pantaloni o gonna, ma lasciava scoperte quasi interamente due gambe stupende, forse un pochino più magre del dovuto, ma la cui pelle si vedeva rosea e s’intuiva morbida, fresca e pronta al contatto con le dita di Pierre. La guardò di sfuggita, come se non gli importasse, e le domandò, indicando fuori dalla grande finestra:
– “Non avete molta intimità da queste parti, vero?”
– “Beh, ci sono le tende, ma le chiudiamo solo quando si va a dormire ; è troppo triste stare qui con le tende chiuse, non trovi? E poi così ci si sente in compagnia: ormai ci conosciamo tutti.”
– “Intimamente?”
Rise, prendendo la domanda stupita di Pierre per un accenno di gelosia, lo guardò negli occhi e studiatamente disse:
– “Che c’è di male? Come loro vedono me, io vedo loro e, credimi, non abbiamo i complessi degli uomini della tua generazione. E’ normale! Del resto siamo tutti uguali sotto i vestiti. Sarebbe diverso se qualcuno mi spiasse dietro i vetri, perché allora sporcherebbe ciò che è puro, lo renderebbe malato, vizioso, come tutto ciò che avviene nell’ombra!”
S’interruppe perché le fu chiaro che Pierre di nuovo non la stava ascoltando: si era perso dietro l’accenno agli uomini della sua generazione. Se Catherine avesse saputo qual’era la sua generazione!
– “Un caffè?”
– “Come? Ah, sì, grazie. Non dovrei, per via della pressione, ma pazienza! Non morirò certo stanotte, anche se mi piacerebbe molto!”
Quest’ultima frase colpì Catherine come un colpo di frusta. Senza voltarsi, con in mano il barattolo del caffè che aveva appena preso, lo chiamò:
– “Pierre?”
– “Sì?”
– “Chi sei tu?”- gli disse, girandosi di scatto e fissandolo negli occhi.
– “Come? Sai benissimo chi sono! Hai ascoltato proprio oggi una mia lezione all’università, anche se non hai seguito una sola parola di ciò che ho detto!”
– “Ma chi sei realmente, dietro la facciata rispettabile del grande architetto? Cosa si cela nell’ombra? Hai un segreto?”
– “Nulla, nulla di me appartiene all’ ombra da tempo, da moltissimo tempo! E se qualcosa ti sembra misterioso, è perché sei tu che non vuoi comprendere: tutto è in realtà così chiaro!”
– “Che cosa non vorrei comprendere?”
– “Nulla che sia spiegabile a parole, Catherine, nulla se non il cuore di un uomo, che per questo cuore vive ed in questo cuore s’identifica. Esso mi dà la forza di fare il mio mestiere in modo che la gloria di un altro, (bada bene: non la mia!), sia celebrata dalla materia e dall’umano. Ad altri è dato edificare nello spirito, non a me. Non ne fui degno e non lo sono! Io creo oggetti e l’oggetto, anche se è tangibile, e quindi più immediatamente percepibile, pur non dura molto oltre lo slancio vitale che gli dà vita. Qualche secolo… Nulla……Tu sei ben altro!”
– “Cosa?”
– “Una ragazza che promette il caffè, ma non mantiene la promessa.” – provò a scherzare.
– “Dimmi: sei omosessuale?”
Pierre non fece in tempo a reagire, solo inarcò le sopracciglia con un moto di sorpresa.
– “No, scusa! Non ho il diritto di saperlo! E’ la tua vita, non la mia. Del resto non è detto che tu lo sia! Può darsi più semplicemente che io non ti piaccia, non sono certo la ragazza che può far girar la testa ad un uomo come te…”
Seguì un attimo di silenzio in cui Pierre sentì acutamente come l’azione fosse indifferibile:
– “Togliti la maglietta!”
La voce di Pierre suonò cupa, quasi minacciosa: proveniva da profondità insondabili. Era il momento del pericolo, della tentazione ed invece di ritirarsi, come tante volte già gli era capitato, decise di affrontarla, da uomo vero, guardandola in faccia per vincerla. Catherine rimase colpita dal tono della voce e dalle parole di Pierre, inaspettate, quasi venissero da un’altra persona, e ne ebbe paura:
– “Così non mi va! Così mi fai paura!”
Si girò allontanandosi e cercò riparo dagli occhi di lui, guardando il brutto quadro che campeggiava sulla parete: un paesaggio mal tratteggiato, sicuramente da un pittore di strada di quelli che al Marché des chiens domenicale lungo la Saône vendono a pochi franchi disegni fatti poco prima ed esposti su bancarelle di fortuna. Aveva osato attaccarlo ed ora si sentiva minacciata: come aveva potuto pensare che lui si sarebbe arreso al primo assalto, permettendole di penetrare il suo mistero? Ora doveva continuare l’offensiva, ma quello sguardo la tormentava, la trafiggeva come una lama e le impediva di respirare. Lui si alzò e, dolcemente, la prese per le spalle e le posò il capo sulla nuca.
– “Perdona le mie parole: mi sono espresso male. Ti prego, togliti la maglietta, perché io ti possa guardare..così saprai ciò che ti interessa…”
– “Così saprò?”
– “Sì!”
– “Scusami.. Mi vergogno!”- disse scuotendo la testa ed allontanandosi da lui.
– “Non hai appena detto che è naturale per la tua generazione?”
Di nuovo la bocca gli si atteggiò nella smorfia consueta, mentre tornava a sedersi sulla misera poltrona.
– “E’ questo il prezzo?”
– “Come?”
– “La mia vergogna è il prezzo della verità?”
– “No, non della verità. Essa non ha prezzo: esiste e basta ed è a disposizione di tutti gratuitamente. Diciamo che vincere il tuo pudore può generare un segno e puoi ricevere l’Idea, come capita a me quando devo iniziare una nuova costruzione e scruto la roccia ed il volo degli uccelli, spio il moto delle foglie per capire quello del vento ed annuso come una fiera gli odori della città o della foresta, per scoprire dove s’annidi il tempio prima ancora che io lo edifichi, perché io non sono che un operaio che dà materia ad un’anima preesistente. Questo tu leggi dentro di me.”
– “Non solo: hai qualcosa che non mi appartiene e mi fa paura!”
– “Ebbene, coraggio! Vieni a conoscerlo, ma non fare un passo, un solo passo verso di me. Rovineresti tutto.”
Catherine andò veloce alle finestre e tirò con forza le tende che scorsero sulle riloghe di legno consunto. Poi si piazzò nel centro della sala, illuminata dalle lampade a muro, in faccia a lui. Respirava in modo spezzato, affannoso, e si vedeva nei muscoli del viso e del collo lo sforzo che stava facendo per vincersi. Era bellissima, anche se non lo sapeva.
– “Ebbene, guardami!”
Si tolse con un solo gesto la maglietta bianca e rimase davanti a lui, coperta solo da un piccolo paio di mutandine da studentessa, non certo da donna fatale, azzurre: appena orlate da un bordino bianco ricamato, con dei fiorellini sopra il pube ed al centro del bordino, di un tenue color rosa e bianchi.
Erano talmente minuscole da non riuscire a trattenere del tutto la fitta peluria che si intuiva fossero chiamate a contenere e che sgorgava ai lati come la vegetazione lussureggiante di una foresta tropicale, capace di squarciare la pietra degli antichi templi.
I templi….
Mai era stato capace di edificare qualcosa di così bello come il tempio che stava ora davanti ai suoi occhi, così vivo, così perfetto, così puro e sublime. Il suo sguardo salì dal pube lungo il caldo ventre tremante di pudore e di ebbrezza fino al seno meraviglioso, eretto, proteso a lui con due capezzoli sorprendentemente ampi, che rivelavano senza ombra di dubbio la sua eccitazione: percorse il lungo collo e raggiunse gli occhi. La guardò.
Non era così che Catherine aveva sognato di mostrarsi a lui; l’aveva immaginato nell’intimità di un’alcova, protetta dall’oscurità, dopo l’amore o nel tempo dilatato dei preliminari: uno scoprirsi a poco a poco, mentre anche lui si scopriva, in un gioco lento, assaporando il piacere, ritardandolo per gustarlo di più, lentamente! Non era così: questo assomigliava ad uno spettacolo per voyeurs ed era tremendamente impari, perché lei dava tutto e lui niente. E se si fosse di nuovo sentita rifiutata, se avesse sentito la sua pietà, capace di segnare il suo corpo con ferite tali da deturparlo per sempre agli sguardi di chiunque? Perché aveva accettato un simile rischio? Dunque lo amava talmente?
Pierre non disse nulla e continuò a guardarla finché lei cominciò a capire: fu come un fiume caldo che dagli occhi di lui raggiungeva il suo corpo e lo accarezzava; il battito del cuore si fece rapido, diseguale, e la vergogna cessò di colpo: si sentiva amata, sentiva il desiderio, lo leggeva negli occhi di Pierre.
– “Ora so….”- fece appena in tempo a dire, prima che gli occhi si chiudessero; la mano corse lenta fino a scostare il sottile bordino bianco e rimase lì a lungo, con piccoli movimenti da bambina.
Pierre, uscendo dal portone, sentì la sferzata dell’aria notturna sul viso bollente: i suoi occhi emanavano una luce strana, talmente potente da raddolcire i lineamenti aspri del suo viso, dandogli un’espressione trionfante. Aveva affrontato un pericolo inusitato, la cui novità l’aveva indotto a giocare a carte scoperte, senza la protezione di alcun personaggio dei tanti che si divertiva ad inventare per movimentare la propria sopravvivenza, ed aveva vinto!
Ora respirava a pieni polmoni l’aria umida, percorrendo la discesa che doveva riportarlo nella Presqu’île, incurante del rischio di inciampare nei marciapiede irregolari e scivolosi. Aveva vinto! Assaporò il suono della propria voce, nella solitudine della strada deserta:
– “Non mi avrai mai!”- disse a qualcuno di invisibile, accanto a sé e rise, rise di cuore, sollevato. Non l’aveva toccata se non con gli occhi, pur desiderandola, ed ora avvertiva quello strano gonfiore nei pantaloni, segno di una virilità intatta e ne era orgoglioso. Mai più… mai più le sue labbra si sarebbero accostate alle labbra di un essere umano….mai più le sue mani avrebbero sfiorato un giovane corpo.
Era maledetto, ma lui solo doveva pagare! Si volse a guardare la città addormentata sotto i suoi piedi, intuiva la sagoma scura del Rodano, immerso in un silenzio lieve, rotto solo dal passaggio delle auto dei nottambuli. Pochi i passanti, infreddoliti e rapidi, risucchiati dalle rispettive case. Fu allora che notò che i contorni particolari dei tetti formavano una specie di disegno scuro, continuamente modificato dai fari delle auto, e per un istante questo disegno prese il contorno di un viso amato.
“Violaine!”- sussurrò ed il cuore si gonfiò di pentimento e devozione – “Violaine!”
“Non so quanto rimasi a guardare il vuoto verso la gare Part-Dieu nella speranza che per un attimo ricomparisse quell’immagine che la mia mente aveva proiettato sulle cose, modificandole, plasmandole in una realtà che solo per me era tale, come quando con la creta realizzavo i primi modelli in scala di una nuova costruzione o quando, da ragazzino, proiettavo i miei sogni sulle nuvole, stando per ore sdraiato nell’erba aspettando che esse assumessero contorni noti e gridando felice quando in esse vedevo un animale, un viso, un oggetto a me caro.
Rimasi fermo abbastanza per prendermi un raffreddore, ma quell’immagine non comparve più. Quando scesi, il mio umore era totalmente un altro, ero un vecchio che trascinava i piedi stanchi verso Place des Terraux, verso la casa che avevo affittato in quai Saint Vincent, proprio ai piedi della Fourvière. Nemmeno la vista della basilica illuminata mi ridonò l’energia per affrettare il passo verso quel po’ di riposo che mi ero senza altro meritato.”
“Devo partire”- pensai – “c’è qualche costruzione, da qualche parte, che mi attende. E’ tempo di lavorare.” La mente tornò a Catherine e sorrisi pensando che sicuramente avrei cercato in qualche modo di riprodurne nella mia prossima creazione, se non le forme materiali, almeno la perfezione dell’insieme, lo slancio, la vibrazione, la giovinezza piena di vita. Il tempio deve essere vivo, deve essere “corpo”, deve amare ed essere amato, deve riempirsi dell’anima orante dei visitatori supplici e dare conforto, pace, speranza. Per questo mi ero sempre preso come modello un’immagine di madre, che conservo da tempo immemorabile nel mio libro delle orazioni, forse la Madonna, forse una mamma qualunque, una piccola riproduzione di un quadro probabilmente non celebre, ma che nella mia storia ha sempre significato molto come fonte di ispirazione.
Ora, siccome non sono così sciocco da credere che nella vita gli eventi importanti avvengano per caso, sapevo che l’incontro con Catherine era un segno di cambiamento; in caso contrario non avrebbe potuto spezzare le sbarre della mia prigione e darmi questo breve soffio di vita nuova! I segni erano chiari: il suo corpo, la giovinezza, l’amore fatto di sguardi, l’impossibilità, il fuoco. Questi sarebbero diventati gli elementi del mio nuovo stile. Occorreva fermarsi a riflettere su questi spunti, cercare un posto tranquillo ove maturare la svolta. Dovevo lasciare la città già all’indomani.
In ginocchio sul parquet, Catherine era rimasta immobile nello stesso punto dove poc’anzi aveva deciso di mostrare il proprio corpo a quell’uomo che sentiva di amare con tutto il suo essere; si sentiva sconvolta, senza più nessun punto di riferimento, come se in quei pochi minuti passati con lui in casa avesse travalicato il tempo per attingere ad un mondo di sensazioni sconosciute e talmente intense da lasciarla senza fiato.
Lo sguardo era fisso sulla poltrona dove lui si era seduto e, con tutto l’impeto della sua memoria, ripercorreva ogni parola che lui aveva detto e risentiva sul suo corpo, stanco e soddisfatto, quel fuoco impetuoso che l’aveva animata, come se gli occhi di Pierre fossero stati quelli di un drago, capaci di incenerirla.
Ma cosa in realtà era passato tra loro?
Ricordava solo quello sguardo senza tempo e poi, vinta da quel calore che le era penetrato nel fondo aveva urlato:
– “Sì, ora capisco….ora capisco.”
Poi il nulla, quella sensazione d’intensa passione, un fuoco che incendiava e nello stesso tempo rimaneva distante, intoccabile! Era il segreto che cercava, l’urlo di un’umanità dolente che porta secoli di storia sulle spalle, l’ululato del lupo in catene che è forte della sua natura selvaggia e ringhia feroce la propria impossibilità a colpire, ad essere ciò che è nato per essere. Non sapeva nulla di quell’uomo. Quando aveva riaperto gli occhi e risollevato il capo, lui non c’era più. Non aveva avuto la forza di cercarlo, né di chiamarlo: non aveva nemmeno tentato; sapeva perfettamente che se ne era andato e non lo avrebbe più rivisto.
Pianse. Fu dapprima un pianto di felicità; si lasciò andare ad una gioia incontrollabile, perché sapeva che ciò che lui le aveva comunicato senza dire una sola parola era talmente grande da cambiare per sempre la sua vita: aveva incontrato un uomo, un essere completo, integrale, vero! Subito dopo subentrò l’angoscia che ogni gioia porta in sé: la paura di non poterne fare a meno, il bisogno di lui.
Si rivestì in fretta, ma non sapeva che fare. Sapeva solo che Pierre si era presa la sua anima e che nulla sarebbe stato più come prima.
FINE PRIMA PUNTATA
note : * M.Kundera- ” L’immortalità” -Adelphi
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