L’attesa, la graduatoria che scorre lenta. Fino alla posizione numero 115. Quella di Marco Rovaris, un trentaduenne di Bergamo, docente neo-abilitato all’insegnamento dell’italiano e della storia.
L’Italia non è un Paese semplice per i giovani. E di certo non lo è per i giovani docenti senza esperienza. Ma Marco ha dalla sua parte grinta ed entusiasmo, una laurea triennale, una laurea specialistica e un’abilitazione all’insegnamento, da poco conseguita. E la voglia di fare e farlo bene.
L’occasione arriva. Una supplenza nella casa circondariale di Bergamo. Sono ben 114 i professori che hanno rinunciato all’incarico. Marco Rovaris, invece, accetta e dal mese scorso è un docente del carcere di Bergamo, sezione maschile.
Un’esperienza indubbiamente forte, ma allo stesso tempo ricca e stimolante. Marco Rovaris ce l’ha raccontata.
Fresco di abilitazione, sei alla tua prima esperienza come docente. Come sta andando?
Per ora molto bene, onestamente non potevo chiedere di meglio. Avendo due buone classi e con pochi allievi non ho avuto un impatto traumatico, che poi è quello che ho sempre temuto pensando a me nel mondo della scuola. Ho a che fare con adulti perfettamente consci della loro condizione e piuttosto interessati a quello che facciamo, questo ha reso l’approccio più facile da subito; inoltre non ho dovuto fare il minimo sforzo per ottenere la loro fiducia, cosa che invece mi risulta sia un problema quando si ha a che fare con gli adolescenti, almeno così mi hanno detto amici e colleghi. Si comunica senza timore reverenziale né paranoia e il fatto che non ci siano blocchi rende tutto più naturale; non c’è spazio per teatrini inutili, si basa tutto sulla franchezza.
Qual è stato il tuo percorso di studi?
Io ho frequentato il Liceo Classico, poi ho proseguito con Lettere Moderne come Laurea Triennale e ho chiuso con Culture Moderne Comparate nella Specialistica; tra le due ho seguito un primo anno di Teorie e Tecniche della Gestione delle Arti e dello Spettacolo, questo per il mio legame con il cinema, nell’ambito del quale ho lavorato fino a ora.
Cosa ami di questa professione?
Mi piace illuminare le persone su cose che non sanno o non riescono a capire e vedere poi il loro interesse manifestato in domande e desiderio di approfondire; mi piace aiutare chi fa fatica provando a spiegare le cose in modi diversi. Più che le metodologie studiate nel tirocinio, per ora mi lascio guidare dall’improvvisazione e dai riferimenti alla cultura popolare, cerco sempre la chiave di interesse in ognuno di loro e lascio che i ragazzi mi portino all’interno del loro immaginario e dei loro racconti. Da qui nasce uno scambio assolutamente reciproco e io imparo tanto quanto loro: quando si percepisce questo significa, almeno per me, che le dinamiche porteranno a una buona riuscita. Ascoltare è fondamentale e sapere che corde toccare mi permette di tracciare itinerari diversi per ogni argomento, a seconda dell’obiettivo e dei punti da affrontare. Chiaramente sono avvantaggiato dall’avere pochi allievi e diventa più facile creare un gruppo affiatato. Per ora il fattore che amo comunque di più è la gratificazione che deriva dai loro risultati positivi e dall’entusiasmo: è il massimo.
Perché, secondo te, la cattedra è stata rifiutata da ben 114 persone che ti precedevano in graduatoria?
Se ne è parlato un po’ perché è stato motivo di polemica da parte di qualche collega e in parte ho già provato a rispondere. Va premesso che sicuramente qualcuno dei 114 aveva già una supplenza da qualche parte e quindi era impossibilitato, poi, essendo una cattedra da 12 ore, lo spezzone breve magari non interessa a chi vuole il full-time da 18 ore. Essendo nel boom del piano assunzioni della riforma, infine, gli aventi diritto non si mobilitano prima delle ultime chiamate. Certo è, comunque, che l’immaginario del carcere non è invitante per tutti e sono sicuro che qualcuno, per principio, non ci voglia entrare e continuare a sostenere che questo sia impossibile mi fa un po’ ridere. Anche perché alcuni me lo hanno proprio detto. Poi, voglio dire, non è un problema avere delle riserve né una vergogna; io potrei, per esempio, non accettare chiamate in montagna per la troppa distanza o angoscia dell’altitudine: se qualcuno lo dicesse poi in giro io non me la prenderei, è stata una scelta consapevole. Quindi vien da sé che, su quel numero, qualcuno non se l’è sentita e chi sostiene il contrario sentendosi chiamato in causa ha degli evidenti problemi di egocentrismo.
Come si svolgono le lezioni e a chi sono rivolte?
Le lezioni si svolgono, direi, normalmente, a parte gli orari leggermente diversi – al mattino si va dalle 8.30 alle 11.30 e il pomeriggio dalle 13 alle 15.40. All’inizio della sessione i detenuti vengono chiamati e, dalle loro celle, raggiungono le aule per la lezione; poi bisogna fare i conti con chi si assenta per colloqui, processi, in alcuni casi malumore. Inoltre può capitare di non trovare più qualcuno un giorno, perché trasferito, libero o passato ai domiciliari. Funziona così, purtroppo non c’è quasi mai il tempo per salutarsi. Le lezioni sono rivolte a chi, nel mio caso, si vuole diplomare nella vecchia “Ragioneria” e che, quindi, riprende studi interrotti in passato o si iscrive ex novo. Nel carcere ci sono anche scuola secondaria di primo grado e alfabetizzazione. Tutti si iscrivono volontariamente, senza nessun obbligo.
Cosa ti aspettavi di trovare e cosa hai trovato?
Mi aspettavo onestamente un ambiente più ostile e un impatto più crudo, invece non ci sono state particolari difficoltà per quanto mi riguarda. I detenuti stessi mi hanno detto che il carcere di Bergamo è uno dei più “soft”, diciamo così; niente di spaventoso o che si è visto nei film di evasione. Ho trovato molto rispetto nei miei confronti e molta dedizione, più serietà di quanta ne ricordi fuori in ambienti simili, dove magari la gente ti ride dietro e ti prende in giro. Questo fa capire anche quanto pregiudizio ci sia nelle persone su un ambiente come questo. Dal punto di vista architettonico me lo aspettavo proprio così, con sezioni, rotonde e corridoi: molto affascinante. Poi le persone sono così tante che salta qualsiasi forma di preconcetto: le guardie sono a rotazione continua e i detenuti vanno e vengono in alcuni blocchi, quindi non esistono dinamiche fisse di comportamento anche nel rapporto tra le due categorie; dipende proprio dalle persone. Io ero rimasto ancora ai film con Stallone che finisce in galera e mi aspettavo cose così!
Italia. E’ o non è un Paese per giovani docenti?
In senso ampio l’Italia non è un Paese per giovani e basta. Ora come ora nel piano del governo ci dovrebbe essere un piano di miglioramento del sistema educativo, si vedrà quanto la riforma si dimostrerà “buona” come dice di essere o se non cambierà nulla nelle dinamiche che hanno sempre azzoppato la scuola. I principi sui quali è costruito il TFA sono certamente più adatti a una generazione giovane, anche se poi è la persona che fa il docente, non la carta d’identità né tanto meno l’approccio costruttivista piuttosto che cognitivista. Di questo sono convinto, non si prescinde dal rapporto umano con le persone: non entro in classe con l’aria di chi è annoiato o fa il superiore, così come non lo ho mai accettato da altri. Il ricambio generazionale, premesso che il termine è comunque inadatto perché comunque non è quello che succederà, dovrebbe essere funzionale soprattutto a stringere la forbice tra le età di allievi e docenti, di modo che ci sia un denominatore comune di cultura e interessi su cui lavorare per sentirsi almeno dello stesso pianeta. In alcune scuole ci sono docenti che non hanno mai imparato a usare il computer o non sanno una parola di inglese, condizioni che non mi danno un’idea di essere al passo con i tempi. I docenti più giovani dovrebbero essere meno legati ai manuali e più ai testi, favorire approcci ipertestuali che si affranchino dal “programma”, che – a quanto ho capito nel TFA – non dovrebbe neanche più esistere nel suo essere monolitico ma che mi sembra continui a influenzare le lezioni. Vedremo che evoluzioni ci saranno; chiaramente la scuola così come è ora non va bene, come sono fuori luogo le tre prove per accedere al TFA, e lo stesso tirocinio per l’abilitazione è quasi comico per come è concepito. Io resto comunque l’ultimissimo arrivato…