Uno scandalo senza precedenti sta travolgendo in queste ore la Malaysia, potenza economica emergente del Sud-Est asiatico, abitata da circa trenta milioni di persone. In carica dal 2009 e confermato nel 2013, il primo ministro Najib Razak è stato infatti accusato di corruzione, ed in particolare di aver utilizzato impropriamente ben 640 milioni di euro pubblici.
Le prime avvisaglie dello scandalo erano state lanciate nel mese di luglio dal Wall Street Journal, ma i sospetti sono diventati sempre più fondati negli ultimi due mesi. Tutto cominciò nel 2009 quando, salito per la prima volta al potere, Razak fondò la società pubblica 1MDB, creata con il fine di mettere in atto iniziative per lo sviluppo economico a lungo termine del Paese. In realtà, le inchieste del Wall Street Journal e della stampa malese indipendente hanno dimostrato come la società sia stata creata semplicemente per coprire le attività illegali di Razak, che avrebbe versato centinaia di milioni di euro sui suoi conti personali, di cui alcuni situati in Svizzera. Il primo ministro si è difeso affermando che i capitali sospetti sarebbero dei “doni” provenienti da personalità politiche del Medio Oriente. Inoltre, Razak ha reso ancora più aspra la censura nei confronti della stampa, portando alla chiusura di due testate ed al blocco di alcuni siti internet, ed ha inoltre allontanato il suo vice Muhyiddin Yassin, che si era detto favorevole ad un’inchiesta indipendente sull’accaduto, così come altri collaboratori politici.
Lo scandalo che ha coinvolto il primo ministro Najib Razak ha riportato ancora una volta in auge nel dibattito degli osservatori internazionali la questione del regime politico vigente nel Paese asiatico. Sulla carta la Malaysia è una monarchia parlamentare federale, attualmente retta dall’ottantottenne sovrano (Yang di-Pertuan Agong) Abdul Halim di Kedah, e la sua costituzione garantisce il multipartitismo e le libere elezioni. Di fatto, però, possiamo parlare di democrazia di facciata: dal 1957, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, il governo è sempre stato guidato dall’UMNO (United Malays National Organisation, in malese Pertubuhan Kebangsaan Melayu Bersatu), forza originariamente con una vaga preferenza per una politica di sinistra, ma che con il passare degli anni è divenuto un partito egemone che ha come unico scopo quello di mantenere il potere acquisito. Grazie a questi anni di governo incontrastati, l’UMNO ha accentrato nelle sue mani tutti i mezzi d’informazione più importanti, mettendo inoltre in atto una vasta rete di corruzione, senza dimenticare le accuse di brogli elettorali mosse con frequenza dalle opposizioni.
Tra i principali oppositori dell’UMNO e di Razak c’è Anwar Ibrahim, leader del partito socialdemocratico Pakatan Rakyat (Patto Popolare), spesso vittima di forme repressive da parte del governo. L’ultima trovata dell’UMNO è stata quella di condannare Ibrahim a cinque anni di reclusione con l’accusa di sodomia, considerata un crimine in un Paese che segue in parte il diritto islamico, anche se in realtà la legge è stata ereditata dal codice presente ai tempi della colonizzazioni britannica. Ma, più che l’aspetto legale, ciò che conta è che la condanna di Ibrahim ha avuto soprattutto effetto di screditare fortemente l’opposizione in un Paese dove, per la maggioranza musulmana, l’omosessualità è un reato molto più grave di qualsiasi forma di corruzione, spesso velata dalla forte disinformazione che vige nel Paese. Come se non bastasse, il governo ha anche introdotto una nuova legge che punisce con oltre vent’anni di reclusione chiunque si renda protagonista di un “atto di sollevamento contro l’autorità”. Questo non ha scoraggiato una parte della popolazione, che in queste settimane si è resa protagonista di diverse attività di protesta, anche se per il momento non si può di certo parlare di un dissenso generalizzato da parte dei malesi nei confronti del governo.