Sabato 24 settembre si sono tenute in Germania le elezioni per il rinnovamento della composizione del Bundestag. Al di là dei risultati elettorali, che comunque andremo di seguito ad analizzare, il caso tedesco appare di particolare interesse per smascherare la vera natura della democrazia borghese di tipo occidentale, una democrazia che ci concede una libertà solamente apparente di scelta.
I RISULTATI: ANGELA MERKEL ANCORA VITTORIOSA MA IN CALO
Sugli oltre 61 milioni di aventi diritto, a recarsi alle urne sono stati 46.9 milioni, con un’affluenza pari al 76.2%. Un dato sicuramente in controtendenza rispetto alle medie europee, in netto calo negli ultimi anni anche in Paesi considerati solidamente inseriti nel contesto democratico, Francia in testa. Questo dato da solo ci fa capire come i tedeschi ripongano ancora una certa fiducia nelle istituzioni politiche del proprio Paese, probabilmente anche grazie al ruolo di leadership che la Germania ricopre nell’Unione Europea.
Nonostante un forte calo rispetto alla consultazione del 2013, i cristiano-democratici della CDU (Christlich Demokratische Union Deutschlands) sono rimasti il primo partito del Paese, ancora una volta sotto la guida della cancelliera uscente Angela Merkel. La sessantatreenne è la leader del partito dal 2000, ed oramai è da dodici anni a capo del governo teutonico, ma, grazie al nuovo mandato ricevuto, si propone per andare ad insidiare il record di sedici anni consecutivi al governo, detenuto da Helmut Kohl, che ricoprì la carica dal 1982 al 1998. Bisogna tuttavia risalire all’800 ed al periodo monarchico per trovare il cancelliere tedesco più longevo di sempre, Otto von Bismarck, in carica per diciannove anni dal 1871 al 1890.
Passando ai dati numerici, la CDU ha ottenuto 200 seggi, 55 in meno rispetto alla precedente legislatura, ma mantiene comunque la maggioranza relativa all’interno del Bundestag, la camera bassa composta da 709 parlamentari. Non è un caso che gli elettori tedeschi abbiano manifestato una certa diffidenza anche nell’altra forza politica storica di Germania, i socialdemocratici dell’SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), passato dall’essere uno dei primi partiti marxisti della storia al momento della sua fondazione (avvenuta nel 1863), a divenire negli ultimi anni il cane da guardia della cancelliera Merkel. Il partito guidato da Martin Schulz, che nelle ultime legislature si è dimostrato rinunciatario nei confronti di qualsiasi tipo di opposizione, ha ottenuto 153 seggi, con un calo di quaranta parlamentari rispetto al 2013.
Chi va dunque ad avvantaggiarsi della perdita di consensi per le due forze politiche tradizionali? Ancora una volta, i grandi vincitori sono i populisti di destra, in questo caso rispondenti al nome di AfD (Alternative für Deutschland – Alternativa per la Germania). Partito euroscettico, ma perfettamente integrato nel campo del liberismo economico e nel campo nazional-conservatore, AfD ha registrato un netto incremento di consensi, passando da tre a 94 seggi sotto la guida del leader Jörg Meuthen. Percorso simile per il Partito Democratico Libero (FDP – Freie Demokratische Partei) di Christian Lindner, altra forza del centro-destra liberista e liberale, che, dopo quattro anni di assenza, torna nel Bundestag con ben 80 parlamentari.
In tutto questo, la sinistra, quella che dovrebbe raccogliere i consensi persi dall’SPD, avanza, ma a passo di lumaca. Die Linke, l’unico dei principali partiti tedeschi a dichiararsi (seppur timidamente) anticapitalista, ha ottenuto 69 seggi, cinque in più di quattro anni fa, ma nel frattempo ha subito il sorpasso a destra di AfD e FDP. Nel 2013, infatti, la forza di sinistra era il terzo partito più votato di Germania, alle spalle dei due giganti CDU e SPD, mentre ora scivola al quinto posto. Anche gli ecologisti (Bündnis 90/Die Grünen), tra le loro contraddizioni di essere a favore di un economia verde ma capitalista, avanzano di poco, passando da 63 a 67 seggi.
L’ultimo partito ad entrare in parlamento è il CSU (Christlich-Soziale Union in Bayern), la forza dei cristiano-democratici di Baviera, fedelissimo alleato di Angela Merkel, che perde a sua volta consensi e seggi, portando 46 parlamentari nel Bundestag, dieci in meno rispetto alla precedente legislatura. Tutti gli altri partiti non hanno superato la soglia di sbarramento, fissata al 5%, ma in realtà nessuno di questi è andato oltre l’1%.
LA NATURA DEI GOVERNI DI GROSSE KOALITION
La Germania ha per anni vissuto di governi di Große Koalition, quello che in Italia verrebbe eufemisticamente chiamato “governo di larghe intese”. Una formula che non è in realtà nata con l’avvento di Angela Merkel, visto che già negli anni ‘60 un altro cristiano-democratico, Kurt Georg Kiesinger, aveva stretto un’alleanza con i socialdemocratici, formula che però durò solamente tre anni, dal 1966 al 1969.
Sotto la guida di Angela Merkel, tuttavia, abbiamo vissuto ben due governi di questo tipo (2005-2009 e 2013-2017), e tutto lasciava presagire la formazione di un altro governo di Große Koalition. Come sia possibile che due partiti sulla carta di ideologia opposta riescano a formare un governo insieme, lo si può spiegare solamente cogliendo il vero senso della democrazia borghese, quella democrazia rappresentativa occidentale che viene promossa come la miglior forma di governo possibile: proprio un tedesco, Karl Marx, ci aveva già spiegato che la democrazia rappresentativa altro non è che un inganno perpetrato dalla classe dominante – la borghesia del suo tempo – ai danni di quella dominata – il proletariato. Questa, infatti, si baserebbe su un’eguaglianza giuridica di facciata, che in realtà non va affatto ad intaccare la verità disparità, cioè quella economica, dalla quale consegue anche una disparità nella possibilità di accedere alle sfere del potere ed alla partecipazione nella vita politica.
In effetti, dunque, il filosofo di Treviri ci fa capire che la democrazia borghese è utile solamente alla classe dominante per mantenere lo status quo. Nel momento in cui tutto va bene, i partiti di centro-destra e centro-sinistra giocano a darsi battaglia su campi di secondo piano (spesso tradotti sotto la formula di “diritti civili”), senza tuttavia mettere in discussione il vero nodo cruciale della società contemporanea: il modo di produzione capitalista ed i conseguenti diritti sociali. Si può discutere su tutto, tranne che sul modello economico da seguire, che è in realtà la causa prima della divisione della nostra società in classi. Anche Vladimir Lenin, in un noto passaggio di “Stato e rivoluzione”, ci ricorda la differenza tra l’apparenza e la vera natura della democrazia borghese: “La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia più o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi”.
Ma allora perché ci viene detto che la democrazia nella quale viviamo è la miglior forma di governo possibile? “Per la borghesia”, ammonisce ancora Lenin in un articolo apparso su Pravda nel gennai del 1919, “è vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una democrazia in generale o come una ‘democrazia pura’”. Il giudizio definitivo dell’artefice della rivoluzione sovietica, della quale proprio in questo periodo ricorre il centenario, è dunque netto: “La borghesia è costretta a fare l’ipocrita e a chiamare ‘potere di tutto il popolo’ o democrazia in generale o democrazia pura la repubblica democratica (borghese), che è di fatto la dittatura della borghesia, la dittatura degli sfruttatori sulle masse lavoratrici”.
E i filosofi contemporanei cosa ne pensano della nostra democrazia? Secondo Noam Chomsky, per valutare se uno stato è democratico non bisogna guardare al processo elettorale o al numero di partiti presenti, bensì “a che punto il popolo dispone di mezzi significativi per sviluppare ed articolare le proprie idee, facendole pesare nell’arena politica e nel processo decisionale”. Lo sloveno Slavoj Žižek, invece, ci ricorda che “la formula della democrazia è la negoziazione paziente e il compromesso”. “Ciò che viene perso qui”, continua in un passo del libro “Dalla tragedia alla farsa”, “è la posizione proletaria, la posizione dell’universale che si incarna nell’Escluso”. In poche parole, una importante fetta della popolazione è di fatto esclusa dalla vita politica dei Paesi occidentali, non avendo di fatto nessun potere decisionale (e spesso non ne è neppure consapevole). “Le forme moderne di potere”, afferma lo stesso Žižek, “non escludono o proibiscono in prima istanza, quanto piuttosto modulano, guidano o implementano il comportamento e le norme che conducono allo status quo”.
Lenin, con il suo dire sempre conciso e pragmatico, ci ricorderebbe che “agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento”, frase peraltro ripresa e parafrasata da Karl Marx, che a sua volta riproponeva un concetto espresso da Jean-Jacques Rousseau.
IL “COLPO DI SCENA”: LA FINE DELLA GROSSE KOALITION
Poco dopo i risultati elettorali, è arrivato il “colpo di scena”: Martin Schulz, leader della SPD, ha annunciato che il suo partito non appoggerà più Angela Merkel, rivendicando un ruolo di opposizione per i socialdemocratici, improvvisamente ricordatisi di essere un partio di centro-sinistra. Schulz ha infatti capito che questa palese alleanza con la CDU ha fatto perdere credibilità e consensi ai socialdemocratici, e che è quindi tempo di riprendere il gioco delle parti che vuole la SPD opporsi ai cristiano-democratici.
In realtà, con la crescita degli altri partiti, in particolare alla destra della CDU, appare abbastanza chiaro come Merkel non dovrebbe avere nessun problema a formare un altro governo. La formula che al momento sembra più probabile è quella della già ribattezzata “Jamaika-Koalition”, così chiamata per via dei colori dei partiti coinvolti che richiamano quelli della bandiera del Paese caraibico: giallo, verde e nero. Merkel darà dunque il via alle consultazioni con i Verdi e con l’FDP, considerando che Die Linke non accetterebbe un compromesso di questo tipo, mentre è stata la stessa cancelliera a voler escludere l’AfD. Il “tradimento”, questa volta, arriverebbe dunque dal partito ecologista.
Ma si tratta davvero di un colpo di scena? In base alla nostra analisi, non lo è affatto. In realtà, assisteremo esattamente dello stesso spettacolo teatrale degli anni precedenti, ma con gli attori che si sono scambiati le parti. Ciò che conta è che non vengano messe in dubbio le parole d’ordine del neoliberismo, il resto non importa. A detenere il potere sarà ancora una volta il grande partito della classe dominante, indipendentemente dal colore presentato sui loghi dei partiti. Ecco perché l’unico vincolo è l’esclusione delle due forze più estreme del parlamento tedesco dalla coalizione di governo: a destra, l’AfD è certamente liberista, ma il suo euroscetticismo non è compatibile con gli interessi della parte più importante della classe dominante; a sinistra, invece, Die Linke sembra presentarsi come l’unico partito in grado di mettere in dubbio l’ordine prestabilito del sistema economico vigente, seppur con formule spesso troppo blande.
Un tempo, nella prima repubblica italiana, si sarebbe parlato di conventio ad excludendum, una locuzione latina creata dal giurista Leopoldo Elia per esplicitare quella formula con la quale la Democrazia Cristiana avrebbe formato coalizioni di governo con chiunque, a patto di non far salire al potere né il Partito Comunista Italiano (PCI) né il Movimento Sociale Italiano (MSI), considerate come le due forze anti-sistema dello spettro politico del tempo, quelle cioè che avrebbero potuto sovvertire il sistema vigente. Ciò porto alla formazione dei famosi governi di pentapartito, con il Partito Socialista Italiano (PSI) che arrivò a tradire il Blocco Popolare PCI-PSI pur di far rispettare la conventio ad excludendum. Nonostante la potenziale forza anti-sistema dei due partiti tedeschi in questione sia decisamente inferiore a quella del PCI nel secondo dopoguerra, possiamo dire che la Merkel abbia deciso di adottare lo stesso metro di giudizio per scegliere i propri alleati.
Ad un’attenta analisi delle cose, dunque, possiamo concludere che nulla in Germania è destinato a cambiare nei prossimi anni: al potere ci sarà sempre il grande partito della borghesia europeista e neoliberista, con tonalità leggermente differenti rispetto agli anni passati. La SPD tornerà a recitare il ruolo di opposizione, mettendo in discussione tutti i provvedimenti del governo, ma senza l’intenzione di andare a modificare il modello economico vigente né tanto meno l’esistenza dell’Unione Europea. Citando Diego Fusaro: “La sola libertà ammessa nell’orizzonte monoculturale del pensiero unico politicamente corretto è quella coincidente con il liberalismo, ossia con l’autogoverno dei ceti globali ricchi che, con la mediazione simbolica degli intellettuali come parte dominata della classe dominante, demonizzano come totalitaria ogni altra concezione della libertà e dell’organizzazione sociale ed economica”.
BIBLIOGRAFIA
CHOMSKY, Noam (1996), On Democracy (intervista di Tom Morello)
FUSARO, Diego (2017), Falsa concezione di libertà e democrazia (da www.inuovivespri.it)
MARX, Karl & ENGELS, Friedrich (1848), Manifesto del Partito Comunista (“Manifest der Kommunistischen Partei”)
LENIN, Vladimir (1917), Stato e rivoluzione (“Государство и революция”, “Gosudarstvo i revoljucija”)
LENIN, Vladimir (1919), “Democrazia” e dittatura (da “Pravda” del 3 gennaio 1919)
ŽIŽEK, Slavoj (2009), Dalla tragedia alla farsa