Venerdì 19 maggio si sono tenute le elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica dell’Iran. A concorrere per la seconda carica più importante del Paese (quella di capo di stato e guida suprema è, infatti, una carica non elettiva detenuta dall’ayatollah Ali Khamenei) erano quattro candidati, compreso il presidente uscente Hassan Rouhani, che ha ottenuto la riconferma per altri quattro anni.
I RISULTATI: HASSAN ROUHANI SBARAGLIA LA CONCORRENZA
I risultati della consultazione elettorale non hanno lasciato spazio a dubbi: appena arrivati i risultati dei primi seggi, si è subito capito che Rouhani si sarebbe imposto in maniera netta. Il sessantottenne, del resto, era già accreditato da tutti i sondaggi di percentuali che oscillavano tra il 50% ed il 60%, ed infatti i risultati finali si sono attestati sul 57.13%, confermando le previsioni.
Candidato del Partito della Moderazione e dello Sviluppo (Hezb-e E’tedāl va Towse’eh), forza che si autoproclama centrista, moderata ed esponente della cosiddetta democrazia islamica, Rouhani ha migliorato ulteriormente la percentuale già schiacciante ottenuta nel 2013, quando ottenne il 50.71%. Un risultato che assume ulteriore rilievo considerando il leggero incremento, rispetto alle precedenti presidenziali, dell’affluenza alle urne (73.07%, con 41 milioni di persone che si sono recate alle urne sugli oltre 56 milioni di aventi diritto).
Nonostante la netta vittoria del presidente in carica, va comunque sottolineata l’onorevole sconfitta del suo principale oppositore, Ebrahim Raisi. Il cinquantaseienne era il rappresentante dell’Associazione dei Chierici Militanti (Jame’e-ye Rowḥāniyat-e Mobārez), forza da molti considerata come appartenente al variegato universo del fondamentalismo islamico, ma con connotati decisamente differenti da ciò che si intende generalmente con questa espressione, fondata dall’ayatollah Khamenei e dalla quale proviene lo stesso Rouhani, il quale ha però successivamente optato per posizioni più moderate. I 38.30 punti percentuali raggiunti da Raisi rappresentano sicuramente un ottimo risultato per l’opposizione, favorito anche dal ritiro – ufficiale o ufficioso – degli altri candidati che avrebbero voluto una sconfitta di Rouhani.
Restano le briciole, dunque, per Mostafa Mir-Salim, rappresentante del Partito della Coalizione Islamica (Ḥezb-e moʾtalefa-ye eslāmi), forza conservatrice ma fortemente liberista in economia, che si ferma all’1.16%. Nonostante l’invito fatto ai suoi elettori a votare per Rouhani, Mostafa Hashemitaba, candidato del Partito dei Quadri della Costruzione (Hezb-e Kārgozārān-e Sāzandegi), ha comunque ottenuto una manciata di voti (0.52%).
LE ARMI DI ROUHANI: MODERAZIONE E MEDIAZIONE
In quattro anni di presidenza, Rouhani sembra dunque aver convinto l’elettorato iraniano, guadagnando ulteriori sostenitori, visto l’incremento di sette punti percentuali rispetto alle elezioni del 2013. Da un punto di vista esterno, possiamo dire che non tutte le politiche applicate da Rouhani hanno in realtà sortito gli effetti voluti, ma sicuramente il presidente è riuscito, sia nella politica interna che in quella estera, a mediare tra interessi diversi come difficilmente era accaduto in passato nella storia recente dell’Iran. Questa capacità gli ha fatto guadagnare anche il sostegno e la fiducia di molte minoranze etniche e religiose, come quella curda.
Nel prossimo quadriennio, Rouhani cercherà sicuramente di implementare quello stato sociale che già aveva messo in piedi nel primo mandato, con discreto successo. Il controllo dell’inflazione, la riduzione della disoccupazione e l’aumento del potere d’acquisto della popolazione sono tutti indicatori macroeconomici che dimostrano i successi del governo Rouhani in materia di politica economica, ma la sfida più grande riguarda la riduzione della dipendenza dalla produzione di idrocarburi. Come abbiamo già avuto modo di ricordare, nell’ultimo anno il PIL dell’Iran è cresciuto del 7.4%, un dato certamente positivo a fronte delle crescite stentate di altri Paesi, ma ad un’analisi più attenta emerge un dato altrettanto chiaro, ovvero tassi di crescita inferiori al punto percentuale per tutti i settori che non hanno a che fare con quello petrolifero. La stabilità economica e lo sviluppo sostenibile – altro punto importante nel programma di Rouhani – dell’Iran dipendono dunque dalla capacità di mettere in piedi altri settori forti che riducano la dipendenza del Paese dall’effimera risorsa petrolifera.
In politica estera, Rouhani è riuscito a guadagnarsi la fiducia di parti tra loro contrapposte, ancora una volta dimostrando una grande capacità di mediazione. Durante il suo primo quadriennato presidenziale, ha rafforzato i legami con gli storici alleati dell’Iran, come la Russia di Vladimir Putin, dando il suo appoggio sia al presidente siriano Bashar al-Assad che alla causa palestinese. Dall’altro lato, Rouhani ha saputo migliorare i rapporti di Tehrān con gli Stati Uniti e con l’Europa, che certamente apprezzano questo tipo di interlocutore dopo gli otto anni di presidenza di Mahmoud Ahmadinejad, e che si sono rallegrati per l’impegno dell’attuale presidente nel raggiungimento di un accordo sulla difficile questione del nucleare. Non è un caso, dunque, che la seconda elezione di Rouhani abbia suscitato reazioni positive in molti Paesi, con congratulazioni che sono arrivate più o meno da tutto il mondo.
Le principali tensioni restano con Israele, il cui “governo occupante ed usurpatore” (parole dello stesso Rouhani) è stato a sua volta l’unico a commentare negativamente il processo elettorale iraniano. Addirittura, il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman aveva evocato un possibile omicidio di Rouhani durante lo svolgimento delle elezioni, dichiarazioni però smentite da delle operazioni di voto che si sono svolte pacificamente e senza denunce di irregolarità.
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