Entrare nel magma della politica internazionale per capire il mondo contemporaneo è impresa ardua, ma quantomeno legittima per cercare di decifrare il mondo che verrà. Lo si fa perché lo scenario politico sembra essere la risposta più semplice e a quanto pare, a giudicare dall’importanza data dai telegiornali e dalle varie testate giornalistiche, anche la più interessante, una fonte imprescindibile per una corretta informazione. Sembra uno slogan, ma siamo talmente abituati all’informazione politica, che tutto il resto pare non venga ritenuto da prima pagina.
Per “politica” s’intende generalmente ciò che decidono ed eseguono i politici, l’arte di governare lo stato, l’amministrazione della vita pubblica. L’esigenza che abbiamo di comprendere, però, deve trovare riscontro con l’ambito e il significato specifico che riguarda il termine politica: la sfera pubblica e comune nel più ampio senso possibile. La notizia delle statue dei Musei Capitolini coperte – quasi nessuno ha scritto quali statue – in occasione della visita di Rouhani in Italia, ha subito avuto un’immensa risonanza mediatica, più per il fatto che bisognava incolpare qualcuno per aver leso la nostra presunta libertà di italiani, che non per il tentativo, ben più grave, di considerare l’arte qualcosa da nascondere e da privare allo sguardo pubblico e al bene comune, ambiti principi della politica. L’informazione politica non dovrebbe concentrarsi su “Renzi e il governo coprono le statue per la visita di Rouhani”, ma più “Le statue dei Capitolini vengono coperte”.
É vero che nascondere alcune statue può ferire l’orgoglio nazionale, ma a maggior ragione dovrebbe ferire più la cultura di Rouhani, quella cultura persiana intrisa di nudo e mitologia da tempi antichissimi e che solo la rivoluzione del 1979 ha in parte offuscato. Sono immagini pubbliche di cui dovrebbe beneficiare il più ampio pubblico possibile, non certo da coprire proponendo un’iconoclastia soft e un po’ provinciale dei giorni scorsi. Così come dovrebbe ferirci molto più profondamente la distruzione materiale e concreta che da anni compiono i fondamentalisti islamici (i Buddha di Bamiyan in Afghanistan, i mausolei di Timbuctù in Mali, il tempio di Ba’al Shamin a Palmira in Siria e troppi altri ancora), privando l’intera umanità di rappresentazioni che dovrebbero appartenere a quella sfera pubblica di cui abbiamo tanto bisogno.
Quello che i fondamentalisti vogliono annientare non sono semplici raffigurazioni, ma il pensiero e la cultura che queste raffigurazioni rappresentano e che sono lontane dal loro folle credo – non dell’Islam.
Nell’articolo precedente avevo scritto che le immagini possono perdurare alla loro distruzione ed è nostro compito farle sopravvivere, ma questo avviene solo se riusciamo a comprendere il significato profondo che le immagini portano con sé, altrimenti la distruzione con picche e bazooka può giungere a un punto di non ritorno.
Nello stesso modo – ma molto meno tragico – nel momento in cui vengono tolti i pannelli bianchi dalle statue classiche e queste non vengono riconosciute, capite e apprezzate come tali, si rischia di perderne il significato. Così quelle statue diventeranno solo un superficiale simbolo nazionalista e chi ha disapprovato il gesto di nasconderle dovrebbe avere cognizione di quello per cui sta “lottando” – e con ciò non nego che forse una grossa fetta di chi ha condannato il gesto ha piena consapevolezza di ciò.
Si dice spesso che viviamo nella società delle immagini perché siamo costantemente invasi da una moltitudine costante di immagini come mai nella storia dell’uomo, ma una grossa percentuale di queste ha perso qualsiasi rapporto di analogia con la realtà, trasformandosi in simulacri, in semplici copie della realtà. Se una pubblicità viene cancellata o coperta non fa rabbia a nessuno, per il semplice motivo che le pubblicità non corrispondono a immagini, mentre se delle statue vengono coperte o addirittura distrutte si aprono – giustamente – dibattiti e discussioni. Speriamo di capire le vere immagini offese.