Era l’11 febbraio quando, nel grande caos che stava attanagliando Il Cairo, lo storico presidente egiziano Hosni Mubarak, in carica da quasi trent’anni, fu costretto a rassegnare le proprie dimissioni. Molti credettero ingenuamente che dal quel momento per l’Egitto si sarebbe aperta un’epoca di “libertà e democrazia”, come piace ripetere a coloro che vogliono esportare ed imporre il modello occidentale al resto del pianeta. In realtà, la caduta di Mubarak ha segnato l’inizio di un periodo di instabilità politica e di violenza senza precedenti nella storia recente del Paese, portando anche in Egitto quelli che sono i problemi tipici dell’Africa subsahariana, ma che difficilmente avevano raggiunto in precedenza i Paesi dell’Africa Mediterranea. La situazione egiziana è precipitata certamente meno rispetto a quella libica, ma il rapido succedersi di presidenti e di decisioni contraddittorie riguardo temi fondamentali come quello della costituzione, rappresentano comunque un’involuzione rispetto alla storia egiziana da Gamal Abdel Nasser in poi.
La situazione è ulteriormente peggiorata dalla deposizione di Mohamed Morsi (3 luglio 2013), e poi con l’ascesa al potere di Abdel Fattah al-Sisi (8 giugno 2014). A denunciarlo sono state molte organizzazioni non governative, come Amnesty International ed Human Rights Watch. Già in un comunicato stampa del luglio 2014, AI scriveva: “Arresti arbitrari in massa, detenzioni illegali, orribili episodi di tortura e decessi in custodia di polizia hanno caratterizzato il primo anno dalla deposizione di Mohamed Morsi e causato, secondo Amnesty International, un profondo deterioramento della situazione dei diritti umani in Egitto”. Episodi che si sono certamente verificati anche nell’era Mubarak, ma che colpiscono per i numeri delle persone coinvolte in un periodo di tempo così breve: si parla di circa 40.000 arresti l’anno, secondo alcune fonti egiziane, e di ottanta persone morte in stato di detenzione o custodia.
Nel marzo 2015, Human Rights Watch, in un rapporto redatto in collaborazione con l’Iniziativa Egiziana per i Diritti Individuali (EIPR), ha invece denunciato la totale assenza di libertà religiosa sotto le presidenze di Morsi ed al-Sisi, in particolare per quanto riguarda le persone che si dichiarano apertamente atee. In realtà, la costituzione del Paese nordafricano garantisce la libertà di coscienza e di scelta religiosa, ma a quanto pare coloro che la interpretano non prevedono, all’interno delle opzioni possibili, quella di non avere nessuna religione. Solamente nei primi due anni dalla caduta di Mubarak (2011-2012), ventisette persone sarebbero state arrestate e quarantadue processate per questa ragione, fenomeno che non era stato registrato significativamente negli anni precedenti.
A “condannare” l’ateismo sarebbe un altro articolo della costituzione, che vieta l’insulto o la mancanza di rispetto nei confronti delle tre grandi religioni monoteistiche (Islam, Cristianesimo ed Ebraismo). Da questo punto di vista, infatti, sia i leader religiosi musulmani che quelli della minoranza cristiano-copta sono pienamente d’accordo nella lotta all’ateismo ed all’apostasia, ed è proprio con quest’accusa che vengono condannati coloro che negano l’esistenza di una divinità trascendente. Come se non bastasse, in una società che resta prevalentemente conservatrice come quella egiziana, alle persecuzioni legali si uniscono le discriminazioni quotidiane che subiscono le persone che decidono di manifestare il proprio dissenso nei confronti della religione. Gli atei rappresentano infatti una fetta molto piccola della popolazione, ma le persone che fanno la scelta abbandonare la religione della propria famiglia sono sempre più numerose fra i giovani. Alcuni ragazzi hanno riferito di dover nascondere il proprio ateismo ai genitori ed addirittura di essere stati processati per aver espresso il proprio pensiero in materia religiosa sul proprio profilo Facebook, mentre altri sono stati persino incarcerati dopo essersi rivolti alla polizia per denunciare le discriminazioni subite.
Gli ultimi allarmismi riguardanti il rispetto dei diritti umani, invece, riguardano la libertà di stampa. Il presidente al-Sisi ha infatti ratificato una nuova legge “antiterrorismo”, che non permette ai giornalisti di contraddire i comunicati ufficiali in caso di attacchi ed attentati nel Paese, mettendo così a tacere ogni voce fuori dal coro ed ogni tentativo di indagare per far chiarezza sugli episodi. Non potranno neppure essere diffuse informazioni sulle operazioni militari che verranno condotte contro i gruppi estremisti, se non quelle pubblicate dal governo. Ogni notizia contrastante con le versioni ufficiali verrà infatti considerata falsa, e punibile con una sanzione che andrà dalle 200.000 alle 500.000 lire egiziane, ovvero dai 23.000 ai 58.000 euro. Ricordiamo, però, che in Egitto alcuni giornalisti sono già stati arrestati e condannati fino a dieci anni di prigione, semplicemente per aver sostenuto Mohamed Morsi.
Secondo l’ONU, infine, sono decine di migliaia le persone che sono state arrestate, diverse delle quali condannate a morte con processi sommari, dalla destituzione di Morsi, generalmente per ragioni politiche, in quanto sostenitori – o presunti tali – proprio dell’ex capo di stato: episodi che, sempre secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite, non hanno precedenti nella storia recente del pianeta.